Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.24670 del 14/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 12292/2015 R.G. proposto da:

R.P., rappresentato e difeso dall’Avv. Claudio Pellicciari e dall’Avv. Alessandro Tomassini, con domicilio eletto in Roma, via Aterno, n. 9, presso lo studio del primo;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte, n. 1517/34/14 depositata il 18 dicembre 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 luglio 2021 dal Consigliere Giuseppe Nicastro.

RILEVATO

che:

l’Agenzia delle entrate notificò a R.P. un avviso di accertamento con il quale determinò sinteticamente, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, commi 4 e 5, (cosiddetto redditometro), in Euro 81.734,63 il reddito complessivo netto dello stesso contribuente per l’anno d’imposta 2008 (a fronte di un reddito dichiarato di Euro 12.435,00), accertando le maggiori IRPEF e Addizionali regionale e comunale all’IRPEF conseguentemente dovute, oltre agli interessi, e irrogando le correlative sanzioni;

il predetto reddito complessivo fu determinato dall’Agenzia delle entrate in relazione al contenuto induttivo della disponibilità di due autoveicoli, di una residenza principale in ***** (in comproprietà con il coniuge) e di una residenza secondaria in ***** (di proprietà del coniuge) e della spesa per assicurazioni di Euro 400,00, nonché della spesa per incrementi patrimoniali derivante dall’acquisto di due ulteriori autoveicoli e da un aumento di capitale di Sirmi di M.R. & C s.a.s. (di cui il contribuente era socio al 20%);

R.P. impugnò l’avviso di accertamento davanti alla Commissione tributaria provinciale di Torino (hinc anche: “CTP”), che rigettò il ricorso del contribuente;

avverso tale pronuncia, R.P. propose appello alla Commissione tributaria regionale del Piemonte (hinc anche: “CTR”) che lo rigettò;

in particolare, la CTR motivò, tra l’altro, che: a) “si deve (…) evidenziare l’inammissibilità delle domande sollevate dal contribuente in ordine al fatto che nell’avviso di accertamento non sarebbero stati indicati i fatti e le circostanze specifiche su cui lo stesso si fondava, con conseguente violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42. Una siffatta prospettazione è stata invero tardivamente avanzata, per la prima volta, solo in grado di appello”; b) “e’ del tutto incontroverso che l’Agenzia delle entrate si sia attenuta, nella quantificazione sintetica del reddito, ai parametri previsti dal D.M. 10 settembre 1992 e dal D.M. 19 novembre 1992, riguardanti il cosiddetto redditometro (…). Diversamente da quanto sostenuto dalla difesa dell’appellante, non era affatto necessario all’Ufficio fondare il proprio accertamento su ulteriori elementi di prova, diversi ed ulteriori rispetto a quanto risultante dall’applicazione del cd. redditometro (e’ citata la massima di Cass., 19/04/2013, n. 9539, Rv. 626412-01). Del tutto correttamente, quindi, la quantificazione sintetica del reddito è stata operata esclusivamente sulla scorta di quegli indici normativi”; c) “l’applicazione del redditometro ha come effetto normativo quello di modificare l’ordinaria ripartizione dell’onere probatorio, prevedendo a beneficio dell’ufficio una presunzione legale, sia pure di carattere relativo (e’ citata la massima di Cass., 15/11/2000, Rv. 541700-01). Contrariamente a quanto più volte sostenuto dalla difesa del sig. R., dunque, la legge non pone affatto a carico del contribuente una prova impossibile, individuando bensì un onere probatorio circoscritto alla disponibilità da parte del contribuente di una capacità di spesa idonea a sodisfare il finanziamento degli effettivi indici di spesa considerati dal redditometro. Viceversa, nel caso di specie, il sig. R. non si è neanche offerto di provare vuoi l’inesistenza degli indici reddituali considerati dall’Ufficio, vuoi la disponibilità di un maggior reddito idoneo a soddisfare la capacità di spesa presunta, proveniente da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte. Infatti, l’attuale appellante si è limitato a dimostrare l’esistenza di entrate economiche sufficienti a sostenere le spese correnti del suo “menage” familiare nell’anno in considerazione, ma non ha neppure ipotizzato che quelle entrate (al netto della somma di Euro 12.000.00, ricevuta dai genitori, già scomputata dal reddito presunto dalla stessa Agenzia delle Entrate) fossero sufficienti a finanziare gli indici di spesa indicati dall’Agenzia delle Entrate nell’avviso di accertamento. Ciò senza contare il fatto che, dalla stessa documentazione prodotta dai contribuente (estratti conto bancari), risulta l’accredito di numerose somme in contanti di cui non è stata in alcun modo dimostrata la provenienza. Detta circostanza, quindi, lungi dal comprovare la disponibilità da parte del sig. R. di maggiori importi provenienti da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte, finisce per avvalorare ulteriormente la fondatezza degli assunti dell’Ufficio. Concludendo, si deve quindi ribadire che, in totale assenza di dimostrazione da parte della contribuente di elementi idonei a comprovare l’inattendibilità, con specifico riferimento al caso di specie, delle risultanze del redditometro (così come già ridimensionate dall’ufficio prima di procedere all’avviso di accertamento), l’operato dell’amministrazione finanziaria risulta totalmente corretto”;

avverso tale decisione – depositata in segreteria il 18 dicembre 2014 e non notificata – ricorre per cassazione R.P., che affida il proprio ricorso, notificato il 2/6 maggio:2015, a cinque motivi;

l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso, notificato il 12/15 giugno 2015.

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, per avere la CTR erroneamente ritenuto la novità – in quanto proposta solo con il ricorso in appello – e, quindi, l’inammissibilità della domanda inerente alla “mancata specifica indicazione, nell’avviso di accertamento impugnato, dei fatti e delle circostanze giustificative del ricorso a metodi induttivi o sintetici e delle ragioni del mancato riconoscimento di deduzioni e detrazioni, come previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, ed alla conseguente nullità del medesimo avviso di accertamento a mente del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma3”;

con il secondo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), il “conseguente” omesso esame circa il fatto, decisivo per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti, costituito dalla domanda, dichiarata inammissibile, di cui al primo motivo;

con il terzo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), la violazione e/o falsa applicazione del cit. codice art. 112, “nonché error in procedendo”, per non avere la CTR pronunciato sul merito della domanda di cui al primo motivo;

con il quarto motivo, il ricorrente denuncia, “in via subordinata”, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la “implicita” violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, commi 2 e 3, per non avere la CTR rilevato la “mancata specifica indicazione, nell’avviso di accertamento impugnato, dei fatti e delle circostanze giustificative del ricorso a metodi induttivi o sintetici e delle ragioni del mancato riconoscimento di deduzioni e detrazioni” e per non avere conseguentemente dichiarato, per tale ragione, la nullità dello stesso avviso di accertamento;

con il quinto motivo, il ricorrente denuncia l'”inesistenza giuridica dell’atto impositivo che ha dato luogo al contenzioso” – “eccezione (…) formulabile in ogni stato e grado del giudizio” – in quanto, a seguito di Corte Cost., sentenza n. 37 del 2015, l’avviso di accertamento impugnato risulta sottoscritto da un soggetto “semplicemente “incaricato di funzioni dirigenziali” e non “dirigente” a seguito di concorso pubblico”;

il primo, il secondo e il terzo motivo i quali, per la loro evidente connessione, possono essere esaminati congiuntamente – non sono fondati;

il processo tributario ha un oggetto che è rigidamente delimitato per quanto qui rileva – dalle contestazioni comprese nei motivi di impugnazione avverso l’atto impositivo prospettati nel ricorso introduttivo (D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 18 e 24), i quali costituiscono la causa petendi dell’auspicato annullamento del medesimo atto (Cass., 24/06/2011, n. 13934);

questa Corte ha conseguentemente affermato che, nel giudizio tributario di appello, si ha domanda nuova, come tale improponibile a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 1, quando il contribuente, nel ricorso in appello, “introduce, al fine di ottenere l’eliminazione – o la riduzione delle conseguenze – dell’atto impugnato, una “causa petendi” diversa, fondata su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado, sicché risulti inserito nel processo un nuovo tema d’indagine” (Cass., 30/07/2007, n. 16829);

nella specie, dalla lettura del motivo prospettato in primo grado trascritto sia dal ricorrente nel ricorso (in ossequio al principio di autosufficienza) sia dall’Agenzia delle entrate nel controricorso – risulta che il contribuente, impugnando l’avviso di accertamento, contestò: “Mancata indicazione della tipologia di reddito asseritamente evaso. Violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, della L. n. 241 del 1990, art. 3, e della L. n. 212 del 2000, art. 7. L’Ufficio, come già sopra indicato in nota alla tabella del reddito accertato, non inquadra il reddito presunto in nessuna delle 6 (sei) categorie reddituali previste dall’attuale D.P.R. n. 917 del 1986. In altri termini, non è dato sapere quale possa essere stata, anche presuntivamente, la fonte del reddito accertato, sicché ci si domanda con quali criteri sia stato calcolato il maggior onere fiscale che il ricorrente avrebbe evaso. In altre parole l’Ufficio è tenuto a fornire spiegazioni in merito a quale sarebbe la fonte reddituale occultata che il “redditometro” ha permesso di “supporre”. Come sopra scritto, le categorie reddituali sono ben sei e non è ragionevole ritenere che ve ne possa essere una settima (“il reddito sintetico”), non codificata nel D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917";

con tale censura, prospettata con il ricorso introduttivo, il contribuente denunciò quindi la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, e della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, in quanto l’avviso di accertamento impugnato non recava l’indicazione della categoria di reddito, tra le sei previste dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6 (comma 1, lett. da a a f) cui l’Agenzia delle entrate riteneva appartenesse il reddito accertato sinteticamente e, perciò, l’indicazione della “fonte del reddito accertato”;

rispetto a siffatta censura, la doglianza con la quale il contribuente – secondo quanto da lui stesso riferito nel ricorso per cassazione – nel ricorso in appello denunciò la nullità dell’avviso di accertamento, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1972, art. 42, commi 2 e 3, perché non recava la “specifica indicazione (…) dei fatti e delle circostanze giustificative del ricorso a metodi induttivi o sintetici e delle ragioni del mancato riconoscimento di deduzioni e detrazioni” appare evidentemente nuova, giacché introduce una causa petendi che è palesemente diversa da quella della nullità dell’avviso di accertamento per la mancata indicazione della categoria reddituale di appartenenza del reddito accertato sinteticamente;

nessun errore né omissione ha dunque commesso la CTR col ritenere la novità – in quanto proposta solo con il ricorso in appello e, quindi, l’inammissibilità della domanda inerente alla “mancata specifica indicazione, nell’avviso di accertamento impugnato, dei fatti e delle circostanze giustificative del ricorso a metodi induttivi o sintetici e delle ragioni del mancato riconoscimento di deduzioni e detrazioni, come previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, ed alla conseguente nullità del medesimo avviso di accertamento a mente del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 3”;

dall’infondatezza del primo, del secondo e del terzo motivo consegue l’inammissibilità del quarto motivo, atteso che, con esso, il ricorrente non fa che riproporre, davanti a questa Corte, l’esame di quest’ultima domanda, già correttamente ritenuta dalla CTR tardivamente avanzata, per la prima volta, solo con il ricorso in appello;

il quinto motivo è inammissibile perché, contrariamente a quanto mostra di ritenere il ricorrente, le forme di invalidità degli atti tributari, anche ove indicate dal legislatore con il nomen di nullità, non sono denunciabili in ogni stato e grado del processo e non possono, quindi, essere fatte valere per la prima volta nel giudizio di cassazione (tra le tante, Cass., 09/11/2015, n. 22810);

tale principio è riferibile anche all’ipotesi – che viene qui in rilievo – della nullità dell’avviso di accertamento per essere stato sottoscritto da un soggetto diverso da quelli indicati nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1 (Cass., 24/06/2016, n. 13126), per la quale, del resto, vale anche l’espressa previsione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 61, comma 2 (secondo cui “(l)a nullità dell’accertamento ai sensi dell’art. 42, comma 3 (…) deve essere eccepita a pena di decadenza in primo grado”);

poiché nella specie non è stato neppure dedotto che la nullità ora prospettata dal ricorrente fosse stata eccepita quale motivo del ricorso introduttivo avverso l’avviso di accertamento, ogni indagine in proposito e’, dunque, ormai preclusa;

in conclusione, il ricorso deve essere rigettato;

le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., comma 1, e sono liquidate come indicato in dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.300,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – comma inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 – si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del suddetto art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 12 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2021

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