Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.24671 del 14/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 12755/2015 R.G. proposto da:

D. Gubane s.n.c. di D.F. & C., D.F., R.R.M., tutti rappresentati e difesi dall’Avv. Luciano Sandrini, con domicilio eletto in Cividale del Friuli, via Borgo San Pietro, n. 17, presso lo studio del Dott. Giorgio Trusgnich, domiciliati in Roma, Piazza Cavour presso la Cancelleria della Corte di Cassazione;

contro

Agenzia delle entrate, Direzione provinciale di *****, in persona del Direttore pro tempore, con sede in *****;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Friuli-Venezia Giulia, n. 418/11/14 depositata il 22 ottobre 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 luglio 2021 dal Consigliere Giuseppe Nicastro.

RILEVATO

che:

1. A seguito di invito e conseguente consegna, da parte del rappresentante legale di D. Gubane s.n.c. di D.F. & C., di registri contabili e documenti, l’Agenzia delle entrate notificò: 1) a D. Gubane s.n.c. di D.F. & C., due avvisi di accertamento, relativi agli anni d’imposta 2007 e 2008, con i quali recuperò a tassazione “alcuni costi” (così il ricorso) nonché le dedotte quote annuali in cui era stata ripartita la “differenza da recesso” liquidata a due soci receduti nel 2001 – componente, quest’ultimo, ritenuto “non di competenza” perché da imputare integralmente all’anno d’imposta 2001 nel quale era sorto il diritto alla liquidazione della quota dei soci uscenti – accertando i conseguenti maggior reddito d’impresa (da imputare ai due soci D.F. e R.R.M. a norma del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5) e IRAP; 2) a D.F. e a R.R.M., due avvisi di accertamento ciascuno, con i quali, ai sensi del citato D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, imputò loro, in proporzione alla quota di partecipazione agli utili della società, il maggior reddito accertato in capo a D. Gubane s.n.c. di D.F. & C. con gli avvisi di accertamento indicati sub 1).

2. D. Gubane s.n.c. di D.F. & C., D.F. e R.R.M. impugnarono gli avvisi di accertamento davanti alla Commissione tributaria provinciale di Udine (hinc anche: “CTP”), che, riuniti i ricorsi dei contribuenti, li rigettò.

3. Avverso tale pronuncia, D. Gubane s.n.c. di D.F. & C., D.F. e R.R.M. proposero appello alla Commissione tributaria regionale del Friuli-Venezia Giulia (hinc anche: “CTR”), che lo rigettò.

In particolare, la CTR motivò che: a) “(r)elativamente alla questione in materia di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, che prevede che l’avviso di accertamento, salva la ricorrenza di specifiche e motivate ragioni di urgenza, non può essere emesso pena la sua nullità, prima della scadenza del termine dilatorio di sessanta giorni dal rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, si applica solo nell’ipotesi di verifica con accesso, concludendosi tale accertamento con la sottoscrizione e consegna del processo verbale delle operazioni svolte, e ciò alla stregua delle prescrizioni di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 52, comma 6, ovvero del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 33. Nel caso controverso le operazioni condotte dall’Ufficio si limitarono ad un invito al contribuente seguito dalla redazione di un verbale di contraddittorio e consegna documenti in data *****. Gli atti impositivi furono successivamente notificati in data *****. Pertanto infondata è la pretesa nullità degli avvisi accertamento per violazione del termine previsto dallo Statuto dei diritti del Contribuente, art. 12”; b) “(q)uanto al merito, va osservato che in tema di reddito d’impresa, non è consentito al contribuente scegliere di effettuare la detrazione di un costo in un esercizio diverso da quello individuato dalla legge come esercizio di competenza, neppure al sommesso fine di bilanciare componenti attivi e passivi del reddito e pur in assenza della configurabilità di un danno per l’erario, atteso che le regole sull’imputazione temporale dei componenti negativi, dettate in via generale dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, sono vincolanti sia per il contribuente che per l’erario e, per la loro inderogabilità, non richiedono né legittimano un qualche giudizio sull’esistenza o meno di un danno erariale, per modo che appare decisamente irrilevante l’eventuale (anche effettiva) insussistenza dello stesso nel caso concreto. Va ulteriormente osservato con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, che la deducibilità delle spese relative a più esercizi è subordinata, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 74, comma 3, all’indicazione degli specifici criteri cui commisurare la durata dell’utilità del bene, al fine di stabilirne la quota di costo imputabile a ciascun esercizio: detta disposizione, infatti, a differenza del citato D.P.R., art. 67, comma 2, non prevede alcuna tipizzazione dei criteri di esposizione di tali componenti negativi del reddito, con la conseguenza che la ripartizione pluriennale non può aver luogo semplicemente applicando i criteri legali stabiliti per gli ammortamenti e nel caso controverso il Contribuente non ha mai specificato quale criterio temporale abbia applicato per spalmare tale onere in più esercizi”; c) “(r)elativamente alla invocata inapplicabilità delle sanzioni non sussistono i presupposti per la disapplicazione del carico sanzionatorio. Va infatti osservato che in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, il potere del giudice tributario di dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni in caso di obiettive condizioni di incertezza su portata e ambito di applicazione delle norme cui la violazione si riferisce – potere riconosciuto dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, art. 39 bis (applicabile ratione temporis), tenuto fermo dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 8, e ribadito, con più generale portata, dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6, comma 2 – sussiste quando la disciplina normativa da applicare si articoli in una pluralità di prescrizioni, con un coordinamento concettualmente difficoltoso per equivocità di contenuto, derivante da elementi positivi di confusione, il cui onere di allegazione grava sul contribuente. Nel caso controverso Parte appellante nulla prova concretamente limitando a fornire diverse opinioni sul trattamento contabile del plusvalore da recesso”.

4. Avverso tale decisione – depositata in segreteria il 22 ottobre 2014 e non notificata – ricorrono per cassazione D. Gubane s.n.c. di D.F. & C., D.F. e R.R.M., che affidano il proprio ricorso, notificato il 15/20 aprile 2015, a tre motivi.

5. L’Agenzia delle entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore pro tempore, si è costituita al solo fine dell’eventuale partecipazione alla discussione orale.

6. L’Avv. Luciano Sandrini ha dichiarato il decesso, il 18 marzo 2021, del ricorrente di D.F., rappresentando che gli eredi D.J. e Do.Jo. intendono proseguire il processo e gli hanno conferito procura speciale.

7. D. Gubane s.n.c. di D.F. & C., R.R.M., D.J. e Do.Jo. hanno depositato una memoria.

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione della L. 7 gennaio 1929, n. 4, art. 24, della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, per avere la CTR negato che, nella specie, l’Agenzia delle entrate dovesse emettere il processo verbale di chiusura delle operazioni e l’invito al contraddittorio, atti necessari, invece, anche nei casi di verifiche cosiddette “a tavolino”.

2. Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75 (nel testo anteriore alle modifiche apportate a tale decreto dal D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, art. 1; dello stesso D.P.R., ora art. 109), per avere la CTR “fa(tto) propria la motivazione dell’atto impositivo che recita “la Società avrebbe dovuto qualificare la “differenza da recesso” come costo totalmente deducibile nel corso dell’anno 2001"” (e non, invece, per quote annuali).

3. Con il terzo motivo, i ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6, comma 2, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, art. 8, n. 546, e della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, per avere la CTR negato che, nella specie, sussistessero i presupposti per l’inapplicabilità delle sanzioni, i quali, invece, ricorrevano, stante “(l)’inesistenza di normativa e l’assenza di orientamenti giurisprudenziali nella fattispecie di “differenza da recesso”” e l’esistenza, in materia, di “diverse interpretazioni di Agenzie delle entrate regionali, dell’Assonime ed improprie risoluzioni ed istruzioni da parte dell’Agenzia delle entrate”.

4. Il primo motivo non è fondato.

4.1. Le Sezioni unite di questa Corte (Cass., Sez. U., 09/12/2015, n. 24823) hanno affermato il principio di diritto – successivamente ribadito, tra le tante, da Cass., 11/05/2018, n. 11560, 29/10/2018, n. 27421 e condiviso anche da questo Collegio – secondo cui, “(d)ifferentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.

Le Sezioni unite hanno pertanto chiarito che, nella normativa nazionale, in relazione ai tributi non armonizzati – cui il diritto unionale non si applica, essendo essi estranei alla sfera di competenze dell’Unione Europea – non esiste alcuna disposizione che sancisca un obbligo generalizzato di contraddittorio endoprocedimentale, al di fuori delle singole disposizioni che tale contraddittorio prescrivano (peraltro, con differenti modalità e conseguenze della relativa inosservanza) in rapporto a specifici atti.

Nell’argomentare tale conclusione, le Sezioni unite hanno altresì precisato che le garanzie procedimentali previste dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, (formazione di un processo verbale di chiusura delle operazioni; rilascio di una copia di esso al contribuente; facoltà di questi di comunicare osservazioni e richieste e correlativo dovere dell’ufficio impostore di valutarle; divieto, per quest’ultimo, di emanare l’avviso di accertamento prima della scadenza del termine dilatorio di sessanta giorni dal rilascio della copia del verbale di chiusura delle operazioni, salvi i casi di particolare e motivata urgenza) si applicano solo nell’ipotesi di avvisi di accertamento emanati in esito ad accessi, ispezioni e verifiche effettuate nei locali dove è esercitata l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente, mentre non operano nel caso di avvisi di accertamento conseguenti ad altri tipi di verifiche fiscali e, in particolare, a verifiche cosiddette “a tavolino”, effettuate, cioè, presso la sede dell’ufficio impositore in base alle notizie e ai documenti acquisiti da altre pubbliche amministrazioni, da terzi o dallo stesso contribuente, in conseguenza delle compilazione di questionari o in sede di colloquio.

4.2. Inoltre, sempre con riferimento agli avvisi di accertamento in materia di imposte dirette, si deve osservare che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 4 (articolo inserito dal D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 7, comma 1, abrogato dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 1, comma 2, e “sostituito”, a opera dello stesso D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 1, comma 1, dalla L. n. 212 del 2000, art. 10-bis) – norma anch’essa invocata dai ricorrenti prescriveva il contraddittorio endoprocedimentale esclusivamente per gli avvisi di accertamento relativi a fattispecie di abuso del diritto.

4.3. Da ciò consegue che, poiché è pacifico che gli accertamenti impugnati, da un lato, concernono l’IRPEF e l’IRAP, che sono tributi non armonizzati, dall’altro lato, conseguono a una verifica “a tavolino”, effettuata presso la sede dell’ufficio impositore in base ai documenti acquisiti dalla stessa società contribuente, e, ancora, non sono relativi a una fattispecie di abuso del diritto (circostanza che, in vero, non è stata neppure allegata dai ricorrenti), la sentenza impugnata, nel negare che, nella specie, sussistesse l’obbligo dell’Agenzia delle entrate di instaurare il contraddittorio endoprocedimentale (in particolare, di emettere il processo verbale di chiusura delle operazioni e l'”invito al contraddittorio”), è conforme a diritto.

5. Il secondo motivo è inammissibile.

5.1. Nel disciplinare le ipotesi di scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio, l’art. 2289 c.c. – dettato per le società semplici ma applicabile, in virtù del rinvio operato dall’art. 2293 c.c., anche alle società in nome collettivo – stabilisce che il socio che recede dalla società ha diritto “ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota” (comma 1), la cui liquidazione deve essere fatta “in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento” (comma 2).

Inoltre, se vi sono operazioni in corso, “il socio (…) partecipa(…) agli utili e alle perdite inerenti” a esse (comma 3).

Al fine di determinare la somma di danaro spettante al socio recedente è perciò necessario redigere un documento contabile straordinario (cosiddetto “bilancio straordinario”) che rappresenti la “situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento”, cioè l’effettivo attuale valore economico del patrimonio societario.

L’importo della quota determinato sulla base di tale documento contabile – ammontare che corrisponde a una frazione del valore economico della società – è di frequente superiore al valore della corrispondente quota del patrimonio netto contabile.

Tale differenza – che può derivare dal valore dell’avviamento, da plusvalenze latenti sui beni dell’azienda sociale, dalla partecipazione agli utili inerenti alle operazioni in corso alla data del recesso – è comunemente denominata “differenza da recesso”.

La somma corrisposta al socio uscente a seguito della liquidazione della sua quota si può quindi considerare costituita da due componenti: a) la prima, consistente nel rimborso della quota di capitale sociale versata dal socio e nelle eventuali riserve, sia di utili sia di capitale, a lui distribuite; b) la seconda, derivante dall’eventuale maggior valore economico della società al momento del recesso rispetto al valore contabile del patrimonio netto, ciò che rappresenta la cosiddetta “differenza da recesso”.

A seguito della liquidazione, la società, in relazione alla prima delle menzionate componenti, procederà all’annullamento della quota di capitale sociale detenuta dal socio che recede e alla riduzione delle eventuali riserve, sia di utili sia di capitale, a lui distribuite.

5.2. Per il socio receduto, la somma ricevuta “costituisc(e) utile per la parte che eccede il prezzo pagato per l’acquisto o la sottoscrizione delle azioni o quote annullate” (D.P.R. n. 917 del 1986, art. 44, comma 3, – nel testo anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs. n. 344 del 2003, art. 1 – come richiamato dal D.P.R. 4 febbraio 1988, n. 42, art. 6; ora D.P.R. n. 917 del 1986, art. 47, comma 7, come richiamato dallo stesso decreto, art. 20-bis), cioè, in linea di principio, per la parte corrispondente alla “differenza da recesso”.

Poiché sia l’avviamento sia le plusvalenze sui beni dell’azienda sociale sia gli utili inerenti alle operazioni in corso al momento del recesso, dai quali origina, come si è visto, la “differenza da recesso”, saranno assoggettati a tassazione per trasparenza in capo ai soci restanti (l’avviamento e le plusvalenze al momento dell’effettivo realizzo e gli utili alla fine dell’esercizio), al fine di non incorrere nella violazione del divieto di doppia imposizione sullo stesso reddito (art. 127 t.u.i.r., ora art. 163 t.u.i.r. ) – una prima volta in capo al socio recedente e, successivamente, in capo ai soci restanti – si deve ritenere che la predetta “differenza da recesso” costituisca un componente negativo del reddito d’impresa deducibile in capo alla società (in tale senso si è espressa anche l’Agenzia delle entrate con la risoluzione 25 febbraio 2008, n. 64/E).

5.3. Fatta questa indispensabile premessa, si deve esaminare la questione – che viene qui specificamente in rilievo – dell’imputazione temporale del summenzionato componente negativo, in particolare, la questione se la “differenza da recesso” debba essere interamente dedotta dalle società di persone nell’esercizio in cui sorge il diritto alla liquidazione della quota del socio uscente (come ritenuto dall’Agenza delle entrate) o possa essere dedotta in più quote annuali (come fatto dalla società ricorrente).

5.3.1. Al riguardo, si deve anzitutto rammentare che, nella giurisprudenza di questa Corte, è un principio ormai consolidato – che il Collegio condivide e al quale, intende, perciò, dare continuità – quello secondo cui, “(i)n tema di reddito d’impresa, non è consentito al contribuente scegliere di effettuare la detrazione di un costo in un i esercizio diverso da quello individuato dalla legge come esercizio di competenza, neppure al dichiarato fine di bilanciare componenti attivi e passivi del reddito e pur in assenza della configurabilità di un danno, r per l’erario, atteso che le regole sull’imputazione temporale dei componenti negativi, dettate in via generale dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75 (ora art. 109) sono vincolanti sia per il contribuente che per l’erario e, per la loro inderogabilità, non richiedono né legittimano un qualche giudizio sull’esistenza o meno di un danno erariale, per modo che appare decisamente irrilevante l’eventuale (anche effettiva) insussistenza dello stesso nel caso concreto” (Cass., 24/01/2013, n. 1648, 06/09/2017, n. 20805), salva la possibilità per il contribuente di chiedere il rimborso della maggiore imposta indebitamente corrisposta per via della mancata deduzione del costo nell’esercizio di competenza (Cass., n. 1648 del 2013 e n. 20805 del 2017);

5.3.2. Ciò posto, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 1, primo periodo (ora art. 109, di identica formulazione) stabilisce il principio generale, in materia di imputazione temporale dei componenti del reddito d’impresa, secondo cui i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi “concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza”, cioè nell’esercizio “nel quale nasce e si forma il titolo giuridico che costituisce la fonte di ciascuna di tali voci” (Cass., 09/11/2018, n. 28671).

Tale richiamo alla competenza va e a escludere che, ai fini dell’imputazione delle componenti positive e negative del reddito d’impresa, trovi generale applicazione il principio di cassa, con conseguente irrilevanza delle movimentazioni finanziarie.

L’art. 75 t.u.i.r., stesso comma 1, secondo periodo (ora art. 109 t.u.i.r.) prevede peraltro una deroga all’obbligo di rispettare il principio della “competenza”, stabilendo, per i ricavi, le spese e gli altri componenti per i quali, nell’esercizio di competenza, “non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare”, che essi rilevano nell’esercizio (eventualmente diverso da quello di competenza) in cui si verifica la certezza della loro esistenza o la determinabilità, in modo obiettivo, del loro ammontare (Cass., n. 28671 del 2018).

Inoltre, in virtù della clausola di salvezza contenuta nell’art. 75 t.u.i.r., comma 1, primo periodo, (ora art. 109 t.u.i.r.), il principio della “competenza” non si applica ai componenti “per i quali le precedenti norme del presente capo (…) dispongono diversamente”.

Tra tali “precedenti norme” vi è quella del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 74, comma 3 (ora art. 108, comma 1) secondo cui le spese “relative a più esercizi” “sono deducibili nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio”.

5.3.3. Come si è visto, la CTR ha ritenuto che la “differenza da recesso” liquidata dalle società di persone ai soci receduti appartenga a tale categoria delle spese “relative a più esercizi” (salvo escluderne l’imputabilità a più esercizi per la ragione che la società contribuente non aveva “specificato quale criterio temporale a(vesse) applicato per spalmare tale onere in più esercizi”).

L’inquadramento della “differenza da recesso” nella categoria delle spese “relative a più esercizi” non e’, tuttavia, condivisibile.

La “pluriennalità” della spesa, nel senso di cui D.P.R. n. 917 del 1986, art. 74, comma 3, dipende infatti dall’attitudine di essa di produrre utilità in più esercizi. Siffatta attitudine è evidentemente assente nella spesa costituita dalla “differenza da recesso” liquidata dalle società di persone ai soci receduti atteso che tale spesa non produce utilità per l’impresa nel corso di più esercizi ma si esaurisce nell’esercizio nel quale sorge il diritto alla liquidazione della quota.

Pertanto, alla spesa costituita dalla “differenza da recesso” – che non è inquadrabile tra le spese “relative a più esercizi” – è applicabile il generale principio di imputazione temporale della “competenza”, di cui al primo periodo dell’art. 75 t.u.i.r., comma 1 (ora art. 109 t.u.i.r.), con la conseguenza che essa deve essere interamente dedotta nell’esercizio nel quale sorge il diritto del socio alla liquidazione della quota.

E’ opportuno precisare che, ai sensi dell’art. 75 t.u.i.r., stesso comma 1, secondo periodo, qualora in tale esercizio non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare della stessa spesa, essa dovrà essere dedotta nell’esercizio “in cui si verificano tali condizioni”.

Concludendo sul punto, si deve affermare il principio che il componente negativo costituito dalla spesa della società di persone relativa alla cosiddetta “differenza da recesso” del socio – spesa non inquadrabile tra quelle “relative a più esercizi” – deve essere interamente dedotto, in base al principio della “competenza” di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 1, primo periodo, (ora art. 109) nell’esercizio nel quale sorge il diritto del socio alla liquidazione della quota. Qualora in tale esercizio non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare della stessa spesa, essa dovrà essere dedotta, ai sensi stesso art. 75, comma 1, secondo periodo (ora art. 109), nell’esercizio “in cui si verificano tali condizioni””.

5.4. Tanto chiarito, l’inammissibilità del motivo discende dal fatto che esso non coglie l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata.

In proposito, si deve osservare che il motivo muove dalla premessa che la CTR abbia “fa(tto) propria la motivazione dell’atto impositivo che recita “la Società avrebbe dovuto qualificare la “differenza da recesso” come costo totalmente deducibile nel corso dell’anno 2001"”.

La sentenza impugnata non esprime, tuttavia, tale tesi, ma, piuttosto, la tesi che – premesso che, nel caso di “spese relative a più esercizi (…), ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 74, comma 3” (secondo cui “(l)e altre spese relative a più esercizi (…) sono deducibili nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio”), categoria alla quale ritiene dunque appartenere la “differenza da recesso” liquidata dalle società di persone ai soci receduti, “la deducibilità (..) è subordinata (…) all’indicazione degli specifici criteri cui commisurare l’utilità del bene, al fine di stabilirne la quota di costo imputabile a ciascun esercizio” – “nel caso controverso il Contribuente non ha mai specificato quale criterio temporale abbia applicato per spalmare tale onere in più esercizi”.

Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto con il motivo, la CTR ha ritenuto l’indeducibilità delle quote della “differenza da recesso” che la società contribuente aveva dedotto negli anni d’imposta 2007 e 2008 non perché le stesse dovessero essere imputate integralmente all’anno d’imposta 2001 in cui era sorto il diritto alla liquidazione delle quote di partecipazione – come correttamente ritenuto, per quanto si è detto, dall’Agenzia delle entrate – ma perché, pur potendo astrattamente, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 74, comma 3 (ora art. 108) essere imputate a più esercizi, la società contribuente non aveva, come richiesto da detto comma 3, “specificato quale criterio temporale a(vesse) applicato per spalmare tale onere in più esercizi”.

Da ciò consegue l’inammissibilità del motivo, in quanto rivolto avverso una ratio decidendi diversa da quella sulla quale si fonda la sentenza impugnata.

6. Il terzo motivo non è fondato.

6.1. In generale, in base al costante orientamento di questa Corte, l’incertezza normativa oggettiva che, a norma delle invocate disposizioni del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8 (comma 1), e della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, esime il contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, richiede una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della norma tributaria, ovverosia l’insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso il procedimento d’interpretazione normativa, riferita non già a un generico contribuente, né a quei contribuenti che, per la loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata, e neppure all’ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento al quale è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione (Cass., 22/03/2013, n. 4522, 23/11/2016, n. 23845, 01/02/2019, n. 3108).

In altre parole, come pure è stato affermato, “per “incertezza normativa oggettiva tributaria””, che comporta l’inapplicabilità delle sanzioni amministrative tributarie, “deve intendersi la situazione giuridica oggettiva, che si crea nella normazione per effetto dell’azione di tutti i formanti del diritto, tra cui in primo luogo, ma non esclusivamente, la produzione normativa, e che è caratterizzata dall’impossibilità, esistente in sé ed accertata dal giudice, d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie” (Cass., 11/09/2009, n. 19638, 01/06/2012, n. 8825, n. 23845 del 2016).

6.2. Tornando al caso di specie, da quanto si è detto in relazione al secondo motivo emerge come, pur mancando precedenti di questa Corte, fosse in realtà ben possibile, al termine dell’esposto e non difficile procedimento interpretativo, individuare con sicurezza e univocamente nell’anno d’imposta in cui sorge il diritto del socio alla liquidazione della quota l’anno nel quale deve essere interamente dedotto il componente negativo costituito dalla spesa della società di persone relativa alla cosiddetta “differenza da recesso”.

Quanto, poi, all’asserita esistenza, in materia, di “diverse interpretazioni di Agenzie delle entrate regionali, dell’Assonime ed improprie risoluzioni ed istruzioni da parte dell’Agenzia delle entrate”, l’allegazione di tali ritenuti fatti indice di incertezza è priva sia di specificità, avendo i ricorrenti omesso, anche altrove nel ricorso, di richiamare compiutamente il contenuto delle “interpretazioni” e delle “risoluzioni ed istruzioni” invocate, sia di autosufficienza, non avendo gli stessi ricorrenti neppure provveduto ad allegare al ricorso, come richiesto dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), c.p.c., i documenti contenenti le stesse “interpretazioni” e “risoluzioni ed istruzioni”.

7. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – comma inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 – si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del suddetto art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 12 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2021

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