LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –
Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 3308/2016 proposto da:
VODAFONE ITALIA S.P.A., (già VODAFONE OMNITEL B.V., già VODAFONE OMNITEL N.V.), società soggetta a direzione e coordinamento di VODAFONE GROUP PLC, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VIRGILIO, 8, presso lo studio degli avvocati ANDREA MUSTI, ENRICO CICCOTTI, che la rappresentano e difendono unitamente all’avvocato FRANCO TOFACCHI;
– ricorrente principale –
contro
D.P.R., E.T., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA RENATO FUCINI 238, presso lo studio dell’avvocato FABIO CUTULI, che le rappresenta e difende;
– controricorrenti –
COMDATA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI GRACCHI, 128, presso lo studio LEXELLENT, con l’Avvocato LAURA ARCESE, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIORGIO SCHERINI, e CARLO ALBERTO MARIA MAJER;
– controricorrente – ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 5857/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 28/07/2015 R.G.N. 8342/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/03/2021 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH;
il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte di Appello di Napoli, con sentenza n. 5857 del 28.7.2015, in riforma della pronuncia di primo grado, ha accolto le domande di, lavoratori già dipendenti della Vodafone Omnitel N.V. volte ad accertare la perdurante esistenza di detto rapporto di lavoro in ragione della illegittimità e inefficacia della successione, in data 8.11.2007, di Comdata s.r.l., in tali rapporti ex l’art. 2112 c.c., in esito alla cessione da parte della Vodafone dei rami d’azienda back office consumer, back office corporate, gestione credito, cui i lavoratori erano addetti;
2. La Corte distrettuale, dopo aver ricostruito il quadro normativo (all’indomani della novella apportata all’art. 2112 c.c., D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32) e giurisprudenziale (di livello comunitario e nazionale), ha, rilevato che la società Vodafone non ha dimostrato l’autonomia funzionale del ramo ceduto (sprovvisto, inoltre, di particolare know how) essendo emersi intensi e continui collegamenti con la struttura cedente (sia con riguardo alla gestione di assistenza amministrativa sia con riguardo alla verifica della qualità dei servizi resi), essendo rimasti nella titolarità di Vodafone sia i contratti di locazione dei locali sia i programmi informatici necessari allo svolgimento delle attività oggetto della cessione (da distinguersi dal data base protetto dal T.U. sulla Privacy).
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso, principale Vodafone Italia s.p.a. con due motivi, illustrati da memoria; la società Comdata s.p.a. ha resistito con controricorso proponendo altresì ricorso incidentale affidato due motivi, illustrati da memoria; i lavoratori hanno resistito con controricorso (chiedendo il rigetto del ricorso principale e del ricorso incidentale).
4. Il procedimento è regolato dal D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, conv. con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, secondo cui “per la decisione sui ricorsi proposti per la trattazione in udienza pubblica a norma dell’art. 374 c.p.c., art. 375 c.p.c., u.c. e art. 3719 c.p.c., la corte di cassazione procede in Camera di consiglio senza l’intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, salvo che una delle parti o il procuratore generale faccia richiesta di discussione orale”. Ne’ i difensori delle parti, né il Procuratore Generale hanno fatto richiesta di discussione orale.
5. Il P.G. ha rassegnato le proprie conclusioni, scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I motivi del ricorso principale di Vodafone Italia s.p.a. possono essere come di seguito sintetizzati.
Con il primo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 2112 c.c., per non avere la Corte di Appello ritenuto sussistente il requisito dell’autonomia funzionale del ramo ceduto, errando nell’interpretare la disciplina codicistica e comunitaria in particolare, nell’individuare gli elementi decisivi che qualificano il requisito dell’autonomia funzionale di un ramo di azienda oggetto di cessione, non potendo costituire – il persistere delle interrelazioni tra il compendio ceduto e gli altri settori dell’impresa cedente – un indice sintomatico un difetto di autonomia. Dovendosi ritenere irrilevante la mancata cessione del contratto di locazione, nonché erronea, in quanto implicitamente abrogatrice dell’art. 2112 c.c., comma 6, la valutazione negativa della necessità, dell’invio, da parte del committente, di copia del contratto di vendita, il ricorrente rileva che il sistema di verifica della qualità del servizio reso da Codata Care è del tutto autonomo, limitandosi, Vodafone, a fornire le procedure per comunicare con il cliente e per gestire le svariate problematiche (Procedure che, anché prima della cessione, erano elaborate da apposita e distinta divisione Vodafone); né, la Corte distrettuale, ha compreso l’obbligo di legge, ex art. 123, comma 5, T.U. Privacy di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, che vieta la cessione (o l’utilizzo incontrollato) ad appaltatori della titolarità degli applicativi in grado di accedere al database della società di telecomunicazione su cui sono conservati dati (anagrafica e traffico clienti) di milioni di clienti.
Con il secondo motivo si denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione dell’art. 2112 c.c., nonché omesso esami circa un fatto decisivo per il giudizio, nella parte in cui la sentenza, esaminando le risultanze probatorie emerse in altri procedimenti del tutto, analoghi, ha inspiegabilmente ignorato numerose circostanze (emerse dalle deposizioni dei testi G., C., P., Pa., B., S., Ca.).
2. Con il primo motivo del ricorso incidentale, Comdata denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione dell’art. 2112 c.c., essendo emerso pacificamente che il servizio di gestione amministrativa delle pratiche di attivazione e di variazione nonché di gestione dei reclami semplici (ossia il back office) è sempre stato realizzato, solamente dai dipendenti ceduti; secondo la giurisprudenza comunitaria e nazionale è irrilevante la collocazione del segmento produttivo oggetto di cessione, essendo importante verificare che il suddetto ramo renda un servizio in autonomia, ed avendo dimostrato le risultanze istruttorie (nonché lo stesso contratto di appalto stipulato tra le società) che non vi era alcuna, interferenza nell’agire quotidiano né alcuna ingerenza nell’autonomia organizzativa e gestionale, di Comdata, limitandosi, Vodafone, a fornire alla cessionaria le procedure per comunicare con il cliente e gestire le svariate problematiche, disinteressandosi poi totalmente del loro impatto sull’organizzazione della cessionaria; riguardo ai programmi informatici necessari allo svolgimento delle attività oggetto del cessione e rimasti in proprietà esclusiva di Vodafone, la Corte distrettuale non ha considerato adeguatamente la normativa che vieta alle società di telecomunicazioni di cedere la titolarità di applicativi che consentono di accedere al proprio data base.
Con il secondo motivo di ricorso incidentale si denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione dell’art. 2112 c.c., nonché omesso esami circa un fatto decisivo per il giudizio, nella parte in cui la sentenza, esaminando le risultanze probatorie emerse in altri procedimenti del tutto analoghi, ha omesso di considerare fatti determinanti ai fini della controversia (emerse dalle deposizioni dei testi G., C., Bo., Pa., B., S., Ca.).
3. I motivi di entrambi i ricorsi possono essere esaminati congiuntamente in quanto il primo motivo del ricorso Vodafone, in parallelo con il primo motivo del ricorso Comdata, lamenta l’errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel non ritenere sussistente l’autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto nonché la sua preesistenza, che emergeva, come invocato nel secondo motivo del ricorso Vodafone, analogamente al secondo motivo del ricorso Comdata, dal materiale istruttorio (di fonte testimoniale) acquisito in giudizio.
4. La Corte giudica tali doglianze non condivisibili per le ragioni che seguono.
5. In premessa occorre ribadire l’oramai costante insegnamento di questa Corte secondo il quale la verifica dei presupposti fattuali che consentano l’applicazione o meno del regime previsto dall’art. 2112 c.c., implica una valutazione di merito che, ove espressa con motivazione sufficiente e, non contraddittoria, sfugge al sindacato di legittimità (v. Cass. n. 20422 del 2012; Cass. n. 5117 del 2012; Cass. n. 1821 del 2013; Cass. n. 2151 del 2013; Cass. n. 24262 del 2013; Cass. n. 10925 del 2014; Cass. 27238 del 2014; Cass. n. 22688 del 2014; Cass. n. 25382 del 2017; di recente, ancora, Cass. n. 23115 del 2020 e Cass. n. 6649 del 2020).
Ciò inevitabilmente, considerato che l’accertamento, in concreto dell’insieme degli elementi fattuali idonei o meno a configurare la fattispecie legale tipica del trasferimento di ramo d’azienda, delineata in astratto dell’art. 2112 c.c., comma 5, implica prima una individuazione ed una selezione di circostanze concrete e, poi, il loro prudente apprezzamento, traducendosi in attività di competenza del giudice di merito, cui non può sostituirsi il giudice di legittimità.
In particolare non può negarsi che la valutazione, nella concretezza nella vicenda storica, dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto e,della sua preesistenza è di certo una quaestio facti che opera, come tale, sul piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del merito, per l’accertamento della ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo dell’art. 2112 c.c.. Come già ritenuto da questa Corte “spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (testualmente in motivazione Cass. n. 15661 del 2001, con la copiosa giurisprudenza ivi citata; v. pure Cass. n. 18247 del 2009 e n. 7838 del 2005).
Da tale pregiudiziale rilievo derivano conseguenze, rilevanti dal punto di vista dei limiti del sindacato di legittimità di questa Corte e dei vizi che possono essere utilmente denunciati nel ricorso per cassazione in tali controversie. Infatti, salvo i casi in cui si lamenti che la sentenza impugnata abbia errato nella ricognizione degli elementi legali identificativi del trasferimento del ramo d’azienda e, quindi, errato nell’ascrizione di significato alla disposizione normativa astratta, nelle altre ipotesi l’alternativa praticabile è che: o si denuncia un errore di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, sub specie di errore di sussunzione commesso dai giudici del merito (v. in proposito Cass. SS.UU. n. 5 del 2001 e, più di recente, Cass. n. 13747 del 2018); oppure si denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., n. 5, ovvero, alternativamente, una motivazione che violi il cd. “minimo costituzionale”.
Nella prima prospettiva è indispensabile, così come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di merito e cioè da quel fatto così come da costoro accertato, in quanto è solo l’applicare ad un accadimento accertato giudizialmente una norma dettata per disciplinare ipotesi diverse a costituire una falsa applicazione della legge, usualmente definita “vizio di sussunzione” (cfr. tra le altre: Cass. n. 6035 del 2018; Cass., n. 8760 del 2019); diversamente si trasmoderebbe nella revisione di un accertamento che appartiene al dominio dei giudici ai quali esso compete. Infatti il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto (cfr. Cass. n. 26307 del 2014; Cass. n. 22348 del 2007) presuppone la mediazione, di una ricostruzione del fatto incontestata (tra molte: Cass. n. 4125 del 2017; Cass., n. 23851 del 2019); al contrario, laddove si critichi la ricostruzione della vicenda storica quale risultante dalla sentenza impugnata, si è fuori dall’ambito di operatività dell’art. 360 c.p.c., n. 3, e la censura è attratta inevitabilmente nei confini del sindacabile esclusivamente ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione tempo, per tempo vigente, vizio che appunto postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti.
In questa seconda prospettiva, inevitabilmente legata alla quaestio fatti, potrà essere denunciato l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Ma in tal caso dovranno essere rispettati enunciati posti nell’interpretazione della novellata formulazione della disposizione dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite, V. sentenze n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici).
Solo ove vengano rispettati tali enunciati potrà valutarsi, in sede di legittimità, se la totale trascuratezza ad opera dei giudici del merito di un fatto storico connesso alla vicenda traslativa del trasferimento d’azienda avrebbe condotto, per la sua sicura decisività, ad un opposto esito della lite.
In entrambi i casi resta fermo quanto ancora di recente ribadito dalle Sezioni unite civili circa l’inammissibilità di censure che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, così travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 c.p.c., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950 del 2020).
6. Tanto premesso dal punto di vista dei limiti del cdntrdillo di legittimità, i motivi di ricorso di entrambe le società non possono, come si anticipava, trovare accoglimento.
Le pretese violazioni o false applicazioni di legge in realtà propongono un diverso apprezzamento del peso da attribuire alle varie circostanze di fatto che hanno dato origine alla vicenda contenziosa, collocandosi al di fuori, per quanto innanzi chiarito, anche dal paradigma dettato dell’art. 360 c.p.c., n. 3, nonostante lo sforzo defensionale di fornire loro una sostanza coerente con la forma del vizio prospettato, che costituisce invece,un mero involucro.
7. In punto di diritto il Collegio reputa che il giudice d’appello abbia deciso le questioni in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte e l’esame dei motivi di ricorso non offre elementi per mutare condivisi orientamenti.
In proposito, giova osservare quanto segue.
Una volta che l’interpretazione della regula iuris è stata enunciata con l’intervento nomofilattico della Corte regolatrice essa “ha, anche vocazione di stabilità, innegabilmente accentuata (in una corretta prospettiva di supporto al valore delle certezze del diritto) dalle novelle del 2006 (art. 374 c.p.c.) e 2009 (art. 360 bis c.p.c., n. 1)” (Cass. SS.UU. n. 15144 del 2011).
Si è altresì rilevato che se la formula della legge, la cui interpretazione è nuovamente messa in discussione, è rimasta inalterata, una sua diversa interpretazione non ha ragione d’essere, ricercata e la precedente abbandonata, quando l’una e l’altra siano compatibili con la lettera della legge, essendo da preferire – e conforme ad un economico funzionamento di sistema giudiziario – l’interpretazione sulla cui base si e’, nel tempo, formata una pratica di applicazione stabile (cfr. Cass. SS.UU. n. 10864 del 2011, nell’occasione con specifico riguardo alle disposizioni del rito).
Il richiamo al valore del precedente di legittimità è stato Successivamente ribadito non solo con riferimento all’interpretazione giurisprudenziale di norme processuali ma anche in relazione all’interpretazione di norme di altra natura (Cass. SS.UU. n. 23675 del 2014). In tale significativo arresto si rileva che la ricorrente affermazione nel senso della non vincolatività del precedente, deve essere armonizzata con l’esigenza di garantire l’uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale attraverso il ruolo svolto dalla Corte di Cassazione, espressione di una linea evolutiva sempre più tesa a preservare “la salvaguardia dell’unità e della stabilità dell’interpretazione giurisprudenziale”, valori che vengono assunti come “ormai da considerare – specie dopo l’intervento del D.Lgs. n. 40 del 2006 e della L. n. 69 del 2009, in particolare con riguardo alla modifica dell’art. 374 c.p.c., ed all’introduzione dell’art. 360 bis – alla stregua di un criterio legale di interpretazione delle norme giuridiche”, con il conclusivo richiamo al rispetto dei precedenti, fondato sul convincimento che l’affidabilità, prevedibilità e uniformità dell’interpretazione delle norme “costituisca imprescindibile presupposto di uguaglianza trai cittadini”.
Tali principi sono stati ancora di recente integralmente confermati dalle Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 11747 del 2019) che, ricordato come anche la dottrina concordi sulla “esigenza dell’osservanza dei precedenti e nell’ammettere mutamenti giurisprudenziali di orientamenti consolidati solo se giustificati da gravi ragioni”, hanno sottolineato inoltre che in un sistema che valorizza l’affidabilità e la prevedibilità delle decisioni; il quale influisce positivamente anche sulla riduzione del contenzioso, “l’adozione di una soluzione difforme dai precedenti non può essere né gratuita;, né immotivata, né immeditata, ma deve essere frutto di una scelta interpretativa consapevole e riconoscibile”.
8. Ciò posto, la Corte non ravvisa ragioni sufficienti a determinare un mutamento degli orientamenti di legittimità che si sono andati consolidando in tema di autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto e di preesistenza del medesimo.
8.1. Secondo un risalente principio di legittimità la cessione di ramo d’azienda è configurabile ove venga ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un’attività volta alla produzione di beni o servizi (Cass. n. 17919 del 2002; Cass., n. 13068, del 2005; Cass. n. 22125 del 2006).
Detta nozione di trasferimento di ramo d’azienda è coerente con la disciplina in materia dell’Unione Europea (direttiva 12 marzo, 2001, 2001/23/CE, che ha proceduto alla codificazione della direttiva 14 febbraio 19177, 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE) secondo cui) “e’ considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un’entità economica che conserva la propria identità, intesa) colme un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia esse essenziale o accessoria” (art. 1, n. 1, direttiva 2001/23).
La ratio della disciplina comunitaria è intesa ad assicurare la continuità dei rapporti di lavoro esistenti nell’ambito di un’attività, economica indipendentemente dal cambiamento del proprietario e, quindi, è finalizzata a proteggere i lavoratori nella situazione in cui siffatto cambiamento abbia luogo (Corte di Giustizia, 7 febbraio 1985, C-186/83; Botzen e a., punto 6; Corte di Giustizia, 18 marzo 1986, C-24/85, Spijkers, punto 11); essa, infatti, riguarda il “ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimento di parti di imprese o di stabilimenti”, per cui non è direttamente incidente delle ipotesi in cui non si controverta del “mantenimento dei diritti dei lavoratori trasferiti” presso la cessionaria, in difetto dei presupposti previsti dal diritto dell’Unione (cfr. Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, C 458/12, Amatori ed a., punti 35 e 37).
La Corte di Giustizia, cui compete il monopolio interpretativo del diritto comunitario vivente (ex plurimis: Cass. n. 19740 del 2008), hai ripetutamente individuato la nozione di entità economica come complesso organizzato di persone e di elementi che consenta l’esercizio, di un’attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato obbiettivo (cfr. Cotte di Giustizia, 11 marzo 1997, C- 13/95, Suzen, punto 13; Corte di Giustizia, 20 novembre 2003, C- 340/2001, Abler, punto 30; Corte di Giustizia, 15 dicembre 200, C- 232/04 e C-233/04, Guney-Gorres e Demir, punto 32) e sia sufficientemente strutturata ed autonoma (cfr. Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, Hernandez Vidal e a., C-127/96, C-229/96, C-74/97, punti 26 e 27; Corte di Giustizia 13 settembre 2007, Jouini, C-458/05, punto 31; Corte di Giustizia, 6 settembre 2011, C-108/10, Scattolon, punto 60; Corte di Giustizia, 20 luglio 2017, C 416/16, Piscarreta Ricardo, punto 43; Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017, Ellinka Nafpigeia AE, punto 60).
Anche nel testo modificato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32, questa porte ha ribadito che, ai fini del trasferimento di ramo d’azienda previsto dall’art. 2112 c.c., rappresenta elemento costitutivo della cessione “l’autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere – autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario – il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente al momento della cessione” (sul tema v. diffusamente Cass. n. 11247 del 2016; di analogo tenore, assunte in decisione nella medesima udienza pubblica del 25 febbraio 2016, Cass. nn. 9682, 10243, 10352, 10540, 10541, 10542, 10730, 11248 del 2016, tutte sentenze adottate nei confronti delle stesse società di cui al presente procedimento ed aventi ad oggetto il medesimo tipo di cessione di azienda concernente servizi di back office; tra le sentenze successive conformi v.: Cass. n. 19034 del 2017; Cass. n. 28593 del 2018).
Tali pronunce, che hanno riguardato – come evidenziato la cessione devi medesimi servizi di back office di cui alla presente causa, hanno confermato, le sentenze di appello che avevano escluso l’operatività dell’art. 2112 c.c., nella sua formulazione successiva al 2003, tra l’altro, per mancata, cessione dei programmi e dei sistemi informatici che venivano utilizzati dai dipendenti prima dello scorporo”, sancendo poi, nel principio di diritto enunciato in funzione nomofilattica, l’indipendenza “dal coevo contratto di fornitura e servizi che venga contestualmente stipulato tra le parti” (analogamente v. poi Cass. n. 1316 del 2017 e Cass. n. 19034 del 2017, in ipotesi di cessione di un call center in cui i programmi informatici erano rimasti nella proprietà esclusiva della cedente).
Si è inoltre sottolineato che il “fatto che la nuova disposizione abbia rimesso al cedente e al cessionario di identificare l’articolazione che ne costituisce l’oggetto non significa che sia consentito di rimettere ai contraenti la qualificazione della porzione dell’azienda ceduta come ramo, così facendo dipendere dall’autonomia privata l’applicazione della speciale disciplina in questione, ma che all’esito della possibile frammentazione di un processo produttivo prima unitario, debbano essere definiti i contenuti e l’insieme dei mezzi oggetto del negozio traslativo, che realizzino nel loro insieme un complesso dotato di autonomia organizzativa e funzionale apprezzabile da un punto di vista oggettivo”; tanto in continuità con una tradizionale impostazione secondo cui non è consentita la creazione di una struttura produttiva ad hoc in occasione del trasferimento o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore è non dall’inerenza del rapporto ad un ramo di azienda già costituito (tra altre, Cass. n. 2429 del 2008; Cass. n. 21711 del 2012; Cass. n. 8757 del 2014; Cass. n. 19141 del 2015).
Negli arresti in discorso non si è poi disconosciuta la legittimità di cessioni di rami aziendali “dematerializzati” o “leggeri” dell’impresa, nei quali il fattore personale sia preponderante rispetto ai beni, in conformità con principi, anche comunitari (Corte di Giustizia 11 marzo 1997, Suzen, C-13/95, punto 18; Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, C-127/96, C-229/96, C-74/97, Hernandez Vidal e a., punto 31; Corte di Giustizia, 20 gennaio 2011, C-463/09, CLECE, punto 36), che si sono affermati essenzialmente nel campo della, successione degli appalti laddove sono i lavoratori ad invocare l’applicazione dell’art. 2112 c.c., per transitare nell’impresa subentrante, per i quali principi oggetto del trasferimento del ramo può essere anche un gruppo organizzato di dipendenti specificamente e stabilmente assegnati ad un compito Comune, senza elementi materiali significativi (in precedenza, tra molte, v. Cass. n. 17207 del 2002; Cass. n. 206 del 2004; Cass. n. 20422 del 2012; Cass. n. 5678 del 2013; Cass. n. 21917 del 2013; Cass. n. 9957 del 2014); ma si è tuttavia confermato il compito del giudice del merito di verificare quando il gruppo di lavoratori trasferiti sia dotato “di un comune bagaglio di conoscenze, esperienze e capacità tecniche, tale che proprio in virtù di esso sia possibile fornire lo stesso servizio”, così “scongiurando operazioni di trasferimento che si traducano in una mera espulsione di personale, in quanto il ramo ceduto dev’essere dotato di effettive, potenzialità commerciali che prescindano dalla struttura cedente dal quale viene estrapolato ed essere in grado di offrire sul mercato ad una platea indistinta di potenziali clienti quello specifico servizio per il quale è organizzato” (in termini Cass. n. 11247/2016 cit.; di recente anche Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017, Ellinika Nafpigeia AE, punto 69, ha Sottolineato come l’autonomia del ramo ceduto, dopo il trasferimento; non debba dipendere da scelte economiche effettuate “unilateralmente” da terzi, senza che vi siano garanzie sufficienti che le assicurino l’accesso ai fattori di produzione).
8.2. Nel complesso di pronunce assunte in decisione nel febbraio del 2016, l’elemento costitutivo rappresentato dall’autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto viene letto in reciproca integrazione con il requisito della preesistenza di esso, “nel senso che il ramo ceduto deve avere la capacità di svolgere autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario il servizio o la funzione cui esso risultava finalizzato già nell’ambito dell’impresa cedente anteriormente alla cessione”, perché l’indagine non deve “basarsi sull’organizzazione assunta dal cessionario successivamente alla cessione, eventualmente grazie alle integrazioni determinate da coevi, o successivi contratti di appalto, ma all’organizzazione consentita già dalla frazione del preesistente complesso produttivo costituita dal ramo ceduto”.
A conforto si richiama anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo cui l’impiego del termine “conservi” nell’art. 6, par. 1, commi 1 e 4 della direttiva, “implica che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento”, (Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a., punto 34).
Anche dopo le modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32, con l’insieme delle decisioni citate si confermai dunque, la necessità della preesistenza del ramo al fine di sussumere la vicenda circolatoria nell’alveo dell’art. 2112 c.c.; principio già presente nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 19842 del 2003; Cass. n. 8017 del 2006; Cass. n. 2489 del 2008; Cass. n. 8757 del 2014) – pure sul rilievo che la conservazione dell’identità dell’entità ceduta di matrice comunitaria (dà ultimo v. Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017, Ellinika Nafpigeia AE, punti 61, 62 e 63) postula che possa conservarsi solo qualcosa che già esista – è costantemente ribadito, sino ai giorni nostri con innumerevoli sentenze (tra le più recenti v. Cass. n. 30667 del 2019; Cass. n. 6649 del 2020; Cass. n. 18954 del 2020; Cass. n. 20240 del 2020), tanto da assurgere oramai a principio consolidato del diritto vivente, dal quale, per evidenti ragioni dettate anche dall’esigenza di non recare vulnus all’eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, non si ravvisa ragione per discostarsi.
9. Le società ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata avrebbe giudicato dell’insussistenza di una cessione di ramo d’azienda ex art. 2112 c.c., sulla scorta di elementi non rilevanti, quali il mancato trasferimento al cessionario del contratto di locazione delle sedi di lavoro e della proprietà delle infrastrutture tecnologiche, la continua interazione con dipendenti Vodafone, l’assenza di specifica professionalità dei lavoratori ceduti.
Appare chiaro l’errore di metodo sotteso alle censure.
La Corte di Giustizia Europea ha costantemente ribadito che, per determinare se siano soddisfatte o meno le condizioni per l’applicabllità della direttiva in materia di trasferimento d’impresa, occorre “prendere in considerazione il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione di cui trattasi, fra le quali rientrano in particolare il tipo d’impresa o Idi stabilimento (n questione, la cessione o meno degli elementi materiali, quali gli edifici ed i beni mobili, il valore degli elementi materiali al momento idei trasferimento, la riassunzione o meno della maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento o meno della clientela, nonché il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione e la durata di un’eventuale sospensione di tali attività”, ma “questi elementi, tuttavia, sono, soltanto aspetti parziali di una valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere valutati isolatamente” (v. Corte di Giustizia; 9 settembre 2015, C-160/14, Joao Filipe Ferreira da Silva e Brito e altri, punivo, 26; Corte di Giustizia, 18 marzo 1986, C-24/85, Spijkers, punto 13; Corte di Giustizia, 19 maggio 2002, C-29/91, Redmond Stichting, punto 24; Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C 13/95, Suzen, punto 14; Corte di Giustizia, 20 novembre 2003, C 340/01, Abler e a., punto 33); si è altresì evidenziato che “l’importanza da attribuire rispettivamente ai singoli criteri varia necessariamente in funzione dell’attività esercitata, o addirittura in funzione dei metodi di produzione o di gestione utilizzati nell’impresa, nello stabilimento o nella parte di stabilimento di cui trattasi” (v. Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C 13/95, Suzen, punto 18; Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, C 127/96, C 229/96, e C 74/97, Hernandez Vidal e a., punto 31; Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, C 173/96 e C 247/96, Hidalgo e a., punto 31).
E’ quanto in questa sede intende ribadirsi avuto riguardo al presente giudizio di legittimità ed ai suoi limiti – al cospetto di doglianze di parte che invocano una rivalutazione atomistica degli eventi storici – alla luce del mai superato insegnamento (Cass. SS.UU. n. 379 del 1999) secondo, cui, allorquando ai fini di una certa qualificazione giuridica di un rapporto controverso occorre avvalersi di una serie di elementi fattuali sintomatici ai quali i giudici, del merito hanno affidato la propria valutazione, ciò che deve negarsi è soltanto l’autonoma idoneità di ciascuno di questi elementi, considerato singolarmente, a fondare la riconduzione ad una certa qualificazione, non anche la possibilità che, in una valutazione globale dei medesimi, essi vengano assunti, come concordanti, gravi e precisi indici rivelatori di ciò che si intende dimostrare.
Sicché, quando gli elementi fattuali da valutare sono, in via sintomatica ed indiziaria, molteplici al fine di verificare l’autonomia, funzionale del ramo d’azienda ceduto, trattandosi di una decisione che è il frutto di selezione, e valutazione di una pluralità di circostanze, che per dirla, con la Corte di Giustizia, – “sono soltanto aspetti parziali di una valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere valutati isolatamente” chi ricorre, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non può invocare una diversa combinazione di tali elementi oppure un diverso apprezzamento rispetto a ciascuno di essi, sollecitando questa Corte ad un controllo estraneo al sindacato di legittimità (sui limiti di tale sindacato in materia di ragionamento presuntivo, per tutte, v. Cass. n. 29781 del 2017 e la giurisprudenza ivi richiamata).
Non sfugge al Collegio l’eventualità che l’arrestarsi sulla soglia del giudizio di merito possa consentire che analoghe vicende fattuali vengano diversamente valutate dai giudicanti cui compete il relativo giudizio. Tuttavia è noto, che l’oggetto del sindacato di questa Corte non è (o non immediatamente) il rapporto sostanziale intorno al quale le parti litigano, bensì unicamente la sentenza di merito che su quel rapporto ha deciso, di cui occorre verificare la legittimità negli stretti limiti delle critiche vincolate dall’art. 360 c.p.c., così come prospettate dalla parte ricorrente: ne deriva che contigue vicende possono dare luogo a diversi esiti processuali, ma si tratta di esiti non altrimenti evitabili, determinati dalla peculiare natura del controllo di legittimità (ad ex., proprio in tema di trasferimento d’azienda, v. Cass. n. 10868, n. 10925 e n. 22688 del 2014, in motivazione), ancor più da quando il legislatore ha inequivocabilmente orientato il giudizio di cassazione, nel senso della preminenza della funzione nomofilattica, anche riducendo progressivamente gli spazi di ingerenza sulla ricostruzione dei fatti e sul loro apprezzamento.
10. Conclusivamente entrambi i ricorsi delle società vanno respinti don riguardo alla regolazione delle spese di lite, nulla si dispone con, riferimento ai rapporti tra le due società, rivestendo le stesse analoga posizione processuale; le spese di lite tra le società e i lavoratori controricorrenti sono regolate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c..
11. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per i ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
PQM
La Corte rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; condanna le società Vodafone Italia s.p.a. e Comdata s.p.a. al pagamento ai controricorrenti delle spese del presente giudizio di legittimità in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 12.000,00 per compensi professionali, oltre alle spese forfettarie al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2021