LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –
Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23455-2013 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
BIOCOMBUSTIBILI SRL;
– intimata-
avverso la sentenza n. 35/2013 della COMM. TRIB. REG. LOMBARDIA, depositata il 26/02/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/05/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI.
RILEVATO
che:
L’Agenzia delle entrate ha chiesto la cassazione della sentenza n. 35/42/2013, depositata il 26.02.2013 dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, che, confermando la sentenza di primo grado, aveva accolto in parte il ricorso della Biocombustibili s.r.l. avverso gli avvisi di accertamento, relativi agli anni d’imposta 2004, 2005, 2006, con cui erano stati recuperati ad imponibile costi non inerenti, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 109, e proventi ritenuti illeciti, ai sensi della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4, nonché irrogate sanzioni.
Ha rappresentato che l’atto impositivo trovava genesi in un controllo della G.d.F., nel corso del quale i verificatori, rifacendosi ai risultati di indagini penali degli uffici giudiziari di Crotone, avevano constatato il versamento di ingenti somme sui conti della società da parte di altre società, controllate dalla finanziaria lussemburghese Società Financiere Cremonese s.a., che avevano goduto di finanziamenti per le aree svantaggiate del Mezzogiorno, conseguiti illecitamente ed oggetto di indagini penali. Tutte queste società erano riconducibili a B.A., che di fatto controllava la Biocombustibili, operando sui relativi conti correnti con versamenti delle predette somme a titolo di “versamenti soci” e con prelevamenti a titolo di “restituzione per conto soci”. Pertanto l’Amministrazione finanziaria, qualificando quegli importi come provento da illecito, con gli atti impositivi li recuperava a tassazione ai sensi dell’art. 14 cit.. Erano recuperati ad imponibile anche i costi sostenuti dalla società, ritenuti non inerenti.
Nel contenzioso seguitone la Commissione tributaria provinciale di Milano, con sentenza n. 178/07/2011, accolse le ragioni della contribuente con riguardo al recupero ad imponibile dei proventi ritenuti illeciti, rigettando la domanda sui costi non inerenti. Ciascuna parte, per quanto soccombente, impugnò la decisione. La Commissione tributaria regionale della Lombardia, con la pronuncia ora al vaglio della Corte, rigettò entrambi gli appelli. Per quanto qui di interesse, e per quanto comprensibile dalla decisione impugnata, il giudice regionale ha ritenuto insufficiente la prova della provenienza illecita del denaro confluito sui conti della società contribuente, ed ha denunciato la contraddittorietà dell’atto impositivo, perché, pur sostenendo che quel denaro fosse riconducibile al reddito personale del B.A., di cui la società era considerata uno schermo, lo ha parimenti qualificato come reddito di provenienza illecita appartenente alla società.
L’Agenzia delle entrate ha censurato con tre motivi la sentenza. La contribuente, nonostante risulti regolare la notifica del ricorso, non ha inteso costituirsi.
Nell’adunanza camerale del 27 maggio 2021 la causa è stata trattata e decisa sulla base degli atti difensivi depositati.
CONSIDERATO
che:
Con il primo motivo la ricorrente ha denunciato la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 2, n. 4, per omessa pronuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sulla dichiarata insufficienza del quadro probatorio;
con il secondo motivo ha lamentato la violazione e falsa applicazione della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4, nonché dell’art. 115 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in merito alla imputabilità dei versamenti di provenienza illecita alla persona del B. e non in capo alla società, errando dunque nel valutare il ruolo di quest’ultima;
con il terzo per violazione a falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32,39 e 42, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere escluso la legittimità del recupero a tassazione di quegli importi ai sensi del medesimo D.P.R., art. 32.
Esaminando il primo motivo, esso trova accoglimento. L’Ufficio si duole della omessa pronuncia del giudice regionale relativamente alle prove allegate a supporto della colleganza del B.A. con la società contribuente, quale suo gestore (o amministratore) di fatto, nonché amministratore delle altre società coinvolte nei procedimenti penali, presupposto da cui l’Agenzia delle entrate è partita per dimostrare l’origine illecita dei proventi e il coinvolgimento della società.
Con l’appello l’Ufficio aveva censurato le valutazioni espresse dalla Commissione provinciale in ordine alla mancanza di prova della provenienza illecita dei proventi e del ruolo del B.. Di contro l’appellante aveva messo in evidenza tutti gli elementi da cui poteva invece dedursi il contrario, invitando dunque il giudice regionale a rivalutare le allegazioni probatorie (in particolare, per quanto emerge dall’atto d’appello, in parte riportato nel ricorso in osservanza del principio di autosufficienza, erano stati messi in evidenza i cospicui versamenti nelle casse della Biocombustibili, provenienti dal B. o da suoi uomini, l’assenza di giustificazione di tali versamenti, i prelevamenti effettuati dal B., senza che fosse comprensibile a quale titolo, la circostanza che tutte le società, coinvolte negli illeciti per cui si stava procedendo penalmente, fossero riconducili al solo B., la segnalazione del B. per riciclaggio alla Procura della Repubblica di Cremona). Sul punto il giudice regionale si è limitato ad affermare che “…a parte la insufficienza del quadro probatorio offerto dall’Ufficio riguardo alla provenienza illecita del denaro confluito sui conti correnti della srl Biocombustibili….”. Con tale considerazione, inserita in un contesto motivazionale indirizzato all’esame dell’altro aspetto, ritenuto più importante (e su cui tra breve occorrerà anche soffermarsi perché oggetto del secondo motivo di ricorso), il giudice d’appello ha risposto allo specifico motivo d’impugnazione.
La motivazione della Commissione tributaria regionale è solo apparente. Sussiste l’apparente motivazione della sentenza ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonché quando, pur indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sul piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sull’esattezza e logicità del suo ragionamento. Ed in sede di gravame la decisione può essere legittimamente motivata per relationem ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in merito ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purché il rinvio sia operato così da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata, mentre va cassata la decisione con cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass., 19/07/2016, n. 14786; 7/04/2017, n. 9105). La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione deve infatti ritenersi apparente quando, ancorché graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, (Cass., 30/06/2020, n. 13248; cfr. anche 5/08/2019, n. 20921). L’apparenza peraltro si rivela ogni qual volta la pronuncia evidenzi una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio (Cass., 14/02/2020, n. 3819).
Nel caso di specie il giudice regionale non ha dedicato un solo argomento, anche solo sintetico, per escludere la valenza probatoria delle allegazioni dell’Ufficio, traducendosi quella frase, incidentalmente collocata in un ragionamento più ampio, in una mera asserzione priva di ogni valore. Sotto tale profilo la sentenza è allora nulla.
Trova accoglimento anche il secondo motivo. Con esso l’Amministrazione finanziaria ha denunciato la falsa applicazione dell’art. 14 cit., in merito alla imputabilità dei versamenti di provenienza illecita alla persona del B. e non della società, errando dunque nel valutare il ruolo della società. Nella sentenza si afferma che se la società Biocombustibili era solo uno schermo, dietro cui si nascondeva il B., che risultava poi il percettore dei proventi illeciti, era a questi che dovevano ricondursi tali proventi e non alla società-schermo. L’Agenzia delle entrate lamenta l’erroneità della motivazione, poiché negli atti impositivi la società non è considerata quale soggetto interposto dei redditi del B., ma soggetto giuridico che, mediante il meccanismo del cd. “finanziamento soci”, aveva consentito l’occultamento dei proventi illeciti, derivanti dalle varie società facenti capo al B..
La L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4, prescrive che “nelle categorie di reddito di cui al T.U.I.R., art. 6, comma 1, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresì, se in esse classificabili, l’proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria”. La previsione normativa non pone distinguo, limitandosi a ricomprendere nei redditi della società i proventi illeciti. Ebbene, a fronte della enunciata regola giuridica, il dato fattuale incontestato che i flussi di denaro, sotto la qualificazione di “finanziamento soci”, erano transitati nelle casse della Biocombustibili, era di per sé sufficiente a ricomprenderli nel reddito di questa. La circostanza poi che si trattava di denaro versato e poi ripreso dal B., vero gestore della società contribuente, come delle altre a lui facenti capo e coinvolte nelle indagini penali, costituiva un elemento al più rafforzativo della ricostruzione dell’operazione illecita messa in atto, e nella quale la Biocombustibili aveva una parte attiva, non già un elemento per escludere l’applicabilità alla società della disciplina di cui all’art. 14 cit. L’interesse del B. costituisce, nel contesto dell’accertamento fiscale, l’interesse mediato dell’intera operazione, ma non esclude affatto il rapporto tra la società contribuente e la prescrizione dettata dall’art. 14 cit..
Infondato invece è il terzo motivo, con cui l’Agenzia delle entrate ha denunciato un errore di diritto in cui la sentenza sarebbe incorsa per avere escluso la legittimità del recupero a tassazione di quegli importi quanto meno ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32. L’intera motivazione che sorregge gli avvisi di accertamento è focalizzata infatti sull’applicazione della fattispecie prevista dalla L. n. 537 del 1993, art. 14, non già sugli effetti di recupero del reddito ai sensi dell’art. 32 cit., in materia di accertamento bancario, così che il tentativo di introdurre in sede d’appello un’ulteriore ragione a supporto delle pretese fiscali avrebbe costituito una violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, nonché, sul piano processuale, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 24. La sentenza ha dunque correttamente deciso sul punto.
In conclusione vanno accolti i primi due motivi e rigettato il terzo. La sentenza va pertanto cassata nei limiti dei motivi accolti e il processo va rinviato alla Commissione tributaria regionale della Lombardia perché, in diversa composizione, oltre che sulle spese del giudizio di legittimità, provveda a riesaminare l’appello della Agenzia delle entrate relativamente alle ragioni accolte.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo del ricorso, rigetta il terzo. Cassa la sentenza nei limiti dei motivi accolti e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 27 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2021