Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.24874 del 15/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11266-2014 proposto da:

RUBELLI SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZA ADRIANA 5 SC A/13, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO MASIANI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato RICCARDO VIANELLO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 86/2013 della COMM. TRIB. REG. VENETO, depositata il 24/10/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/05/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI.

RILEVATO

che:

La Rubelli s.p.a. chiede la cassazione della sentenza n. 86/04/2013, depositata il 24.10.2013 dalla Commissione tributaria regionale del Veneto, con la quale era stata confermata la pronuncia di primo grado, di rigetto del ricorso della contribuente avverso gli avvisi di accertamento con i quali: 1) era stato recuperato l’imponibile di Euro 222.775,00 relativamente al periodo d’imposta 2003, così riducendo l’ammontare delle perdite dichiarate, e per l’effetto, 2) era stato rideterminato il reddito relativo all’anno 2004, nel quale la società aveva utilizzato parte delle perdite dell’anno precedente.

Ha rappresentato di essere società italiana, controllante la società francese Rubelli s.a.s., della quale possedeva il 93,8% delle quote sociali. Nella verifica eseguita dalla GdF nel 2005 le era stato contestato che sui dividendi ricevuti dalla controllata francese aveva fruito sia del credito d’imposta previsto dalla Convenzione contro le doppie imposizioni, art. 10 comma 4, lett. b), firmata a Venezia tra l’Italia e la Francia il 5.10.1989, ratificata dalla Repubblica Italiana con L. 7 gennaio 1992, n. 20, ed entrata in vigore il 1 maggio 1992, sia della variazione in diminuzione del reddito d’impresa di Euro 222.775,00, pari al 95% del dividendo medesimo, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 96 bis, (ratione temporis vigente, norma successivamente abrogata dal D.Lgs. 12 dicembre 1993, n. 344). Condividendo gli esiti della verifica, l’Agenzia delle entrate aveva ritenuto che, contrastando entrambe le discipline il fenomeno della doppia imposizione (economica o giuridica), la società non poteva fruire di entrambi i regimi, così che l’aver conseguito il credito d’imposta spettante in Francia in forza della convenzione impediva di fruire dello scomputo dal reddito del 95% dei dividendi ricevuti, previsto dalla legislazione interna italiana.

La società, che contestava le ragioni dell’atto impositivo, aveva adito la Commissione tributaria provinciale di Venezia, la quale, con sentenza n. 91/05/2012, aveva rigettato il ricorso. L’appello proposto dalla contribuente era esitato nel suo rigetto con la pronuncia ora al vaglio della Corte. Il giudice regionale, per quanto qui di interesse, condividendo la prospettazione difensiva dell’Ufficio, ha ritenuto che l’utilizzo congiunto delle disposizioni della convenzione e del testo unico delle imposte dirette costituisce un ingiustificato vantaggio per la contribuente, che supera la ratio della tutela dalla doppia imposizione.

La ricorrente ha censurato la sentenza con un unico motivo, chiedendo la cassazione della pronuncia con ogni consequenziale provvedimento, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate, che ha contestato il motivo del ricorso, di cui ha chiesto il rigetto.

Nell’adunanza camerale del 27 maggio 2021 la causa è stata trattata e decisa sulla base degli atti depositati dalle parti.

CONSIDERATO

che:

con l’unico motivo la società ha denunciato la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 96 bis, della Convenzione contro le doppie imposizioni, art. 10, firmata tra l’Italia e la Francia e ratificata con L. n. 20 del 1992, dell’art. 12 preleggi, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver tenuto conto del quadro normativo complessivo della disciplina posta a tutela del divieto contro la doppia imposizione. Secondo la prospettazione difensiva della Rubelli s.p.a. le due discipline, quella convenzionale e quella della legislazione nazionale, non sono alternative, non emergendo tale assunto dalla lettura delle norme, sia sotto il profilo dell’interpretazione letterale, sia sotto quello della interpretazione sistematica, tenendo anche conto del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27, soprattutto del comma 4.

La questione afferisce all’interpretazione della disciplina convenzionale, nello specifico della citata Convenzione tra l’Italia e la Francia, e della disciplina dettata dall’allora vigente D.P.R. n. 917 del 1986, art. 96 bis, successivamente abrogato, nonché dei principi Euro-unitari, posti a presidio del trattamento fiscale paritario delle società madri-figlie, quando la prima, con sede in Italia, sia percettrice di dividendi conseguiti dalla società figlia, sedente in Francia. Essa va accolta nei termini appresso chiariti.

Illustrando innanzitutto la vicenda, la società madre italiana, che controllava quella francese con una partecipazione del 93,8% delle quote, dopo aver fruito del credito d’imposta nella misura consentita dalla convenzione bilaterale, aveva successivamente ridotto l’imponibile, per l’anno di competenza 2003, ai sensi del citato art. 96 bis, il cui comma 1, prevedeva che “gli utili distribuiti, in occasione diversa dalla liquidazione, da società non residenti, aventi i requisiti di cui al comma successivo, se la partecipazione diretta nel loro capitale è non inferiore al 25 per cento ed è detenuta ininterrottamente per almeno un anno, non concorrono alla formazione del reddito della società o dell’ente ricevente per il 95 per cento del loro ammontare e, tuttavia, detto importo rileva agli effetti della determinazione delle imposte di cui all’art. 105, comma 4, secondo i criteri previsti per i proventi di cui a tale comma, n. 1”. Ed è questa riduzione del 95% dell’ammontare dei dividendi che la contribuente ha inteso operare e che invece l’Ufficio ha contestato, recuperandola ad imponibile.

L’Amministrazione finanziaria di contro insiste nel rimarcare che l’interpretazione della contribuente implicherebbe il cumulo dei benefici, ossia la contestuale esenzione dei dividendi dalla ritenuta e il rimborso del credito d’imposta.

Queste le rispettive posizioni, è utile evidenziare che, al di là di alcuni precedenti di questa Corte, che nel passato si sono occupati del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 96 bis, in combinata interpretazione con la medesima disciplina, art. 15 (cfr. Cass., 31/11/2012, n. 21351; 28/10/2015, n. 21968; 12/07/2018, n. 18400), mai però in rapporto alle regole convenzionali che l’Italia ha stipulato con alcuni Paesi comunitari, tra cui la Francia, gli approdi più significativi e pertinenti alla vicenda vanno individuati in quella giurisprudenza di legittimità che si è più recentemente occupata della disciplina sulla doppia imposizione internazionale, in rapporto ai principi enucleati dalla normativa Euro-unitaria e dalla Corte di Giustizia UE.

Nello specifico deve osservarsi che nel terzo “considerando” della Dir. 90/435/CE, si prende atto “che le attuali disposizioni fiscali che disciplinano le relazioni tra società madri e società figlie di Stati membri diversi variano sensibilmente da uno Stato membro all’altro e sono, in generale, meno favorevoli di quelle applicabili alle relazioni tra società madri e società figlie di uno stesso Stato membro; che la cooperazione tra società di Stati membri diversi viene perciò penalizzata rispetto alla cooperazione tra società di uno stesso Stato membro; che occorre eliminare questa penalizzazione instaurando un regime comune e facilitare in tal modo il raggruppamento di società a livello comunitario”. L’art. 3, ai fini della identificazione delle società madri e figlie per l’applicazione della direttiva, specifica che: “a) la qualità di società madre è riconosciuta almeno ad ogni società di uno Stato membro…. che detenga nel capitale di una società di un altro Stato membro una partecipazione minima del 25%; b) si intende per “società figlia” la società nel cui capitale è detenuta la partecipazione indicata alla lettera a)”. L’art. 4 prescrive che “I. Quando una società madre, in veste di socio, riceve dalla società figlia utili distribuiti in occasione diversa dalla liquidazione di quest’ultima, lo Stato della società madre: si astiene dal sottoporre tali utili ad imposizione, o li sottopone ad imposizione, autorizzando però detta società madre a dedurre dalla sua imposta la frazione dell’imposta societaria relativa ai suddetti utili e pagata dalla società figlia a fronte dei suddetti utili o, eventualmente, l’importo della ritenuta alla fonte prelevata dallo Stato membro in cui è residente la società figlia in applicazione delle disposizioni derogatorie dell’art. 5, nel limite dell’importo dell’imposta nazionale corrispondente”. L’art. 5 poi prescrive che “Gli utili distribuiti da una società figlia alla sua società madre, almeno quando quest’ultima detiene una partecipazione minima del 25% nel capitale della società figlia, sono esenti dalla ritenuta alla fonte”. L’art. 7, paragrafo 2, dispone che: “La presente direttiva lascia impregiudicata l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali intese a sopprimere o ad attenuare la doppia imposizione economica dei dividendi, in particolare delle disposizioni relative al pagamento di crediti di imposta ai beneficiari dei dividendi”. Dunque a regole Euro-unitarie tese a tutelare dal rischio di doppie imposizioni fattispecie in cui società partecipanti a capitali di altre società, aventi sede però in altri Stati comunitari, possono “affiancarsi”, secondo la disciplina all’epoca vigente, disposizioni nazionali o convenzionali, anche queste finalizzate a contrastare il pericolo di doppia imposizione. Ciò incontra il limite del rispetto della cornice giuridico-economica entro cui la medesima disciplina Euro-unitaria opera, ossia la tutela dalla doppia imposizione delle società madri investitrici in altri Stati comunitari, senza dunque sconfinare nel riconoscimento di ingiustificati benefici.

Riportando ora il testo, per quanto qui d’interesse, della Convenzione tra l’Italia e la Francia, l’art. 10, così prescrive: “1. I dividendi pagati da una società’ residente di uno Stato ad un residente dell’altro Stato sono imponibili in detto altro Stato. 2. Tuttavia, tali dividendi sono imponibili anche nello Stato di cui la società’ che paga i dividendi è residente ed in conformità della legislazione di detto Stato, ma, se la persona che percepisce i dividendi ne è l’effettivo beneficiario, l’imposta così applicata non può eccedere: a) il 5 per cento dell’ammontare lordo dei dividendi se l’effettivo beneficiario è una società assoggettabile all’imposta sulle società che ha detenuto direttamente o indirettamente nel corso di un periodo di almeno 12 mesi precedenti la data della delibera di distribuzione dei dividendi, almeno il 10 per cento del capitale della società che paga i dividendi; b) il 15 per cento dell’ammontare lordo dei dividendi, in tutti gli altri casi. Le disposizioni del presente paragrafo non riguardano l’imposizione della società per gli utili con i quali sono stati pagati i dividendi”.

Il paragrafo 3, lett. b) riconosce che “Una società residente dell’Italia, indicata al paragrafo 2-a) o soggetta alla legislazione italiana applicabile alle società madri che riceve da una società residente della Francia dividendi che darebbero diritto a un credito d’imposta (“avoir fiscal”) se fossero ricevuti da un residente della Francia ha diritto ad un pagamento da parte del Tesoro francese di un ammontare pari alla metà di detto credito d’imposta (“avoir fiscal”) diminuito della ritenuta alla fonte prevista al paragrafo 2".

La Commissione regionale ha motivato il rigetto della domanda della società francese, affermando che: a) l’applicazione cumulativa delle due norme (quella convenzionale e l’art. 96 bis cit.) creerebbe situazioni di disparità di trattamento fiscale a vantaggio di gruppi societari internazionali che detengono partecipazioni in società con sede in Francia; b) conseguentemente il regime previsto dall’art. 96 bis, va disapplicato in quanto la società aveva già fruito del regime convenzionale del credito d’imposta.

Occorre dunque comprendere se la decisione sia corretta, alla luce dell’interpretazione della normativa comunitaria, ed in concreto occorre valutare se il beneficio già conseguito mediante l’attivazione del credito d’imposta, ottenuto in Francia, si poneva in inconciliabile contrasto con la successiva richiesta di esonero del reddito previsto dalla disciplina nazionale.

Prima di verificare il fondamento della domanda attorea occorre però soffermarsi sulla più recente giurisprudenza di questa Corte, elaborata alla luce dei principi Euro-unitari anche in considerazione degli arresti della Corte di Giustizia Europea. Sulla questione il giudice di legittimità, in riferimento al rapporto tra la direttiva CE e la Convenzione regolante i rapporti tra Italia e Regno Unito contro le doppie imposizioni, ha affermato che “in tema di imposte sui dividendi azionari corrisposti da una società figlia residente in Italia ad una società madre residente in Gran Bretagna, il credito d’imposta previsto dalla Convenzione contro le doppie imposizioni tra l’Italia e la Gran Bretagna, art. 10, par. 4, lett. b, stipulata il 21 ottobre 1988 (ratificata con L. n. 329 del 1990), non è escluso dal riconoscimento dei benefici (nella specie esenzione da ritenuta) della Direttiva madre-figlia n. 453 del 1990 (attuata con il D.Lgs. n. 136 del 1993), atteso che detto riconoscimento, secondo l’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia (causa C-389/18, del 19 dicembre 2019, Brussels Securities), non elimina, necessariamente, il rischio della doppia imposizione economica né della violazione del principio di neutralità fiscale. Sicché, deve verificarsi in concreto se il meccanismo di tassazione previsto dallo Stato membro elimini effettivamente detto rischio, dovendosi evitare non soltanto la tassazione diretta dei dividendi in capo alla società madre, ma anche quella indiretta intesa come conseguenza dell’applicazione di meccanismi che, sebbene accompagnati da deduzioni o esenzioni, possono causare alla società madre un trattamento deteriore rispetto a quello che spetterebbe qualora le due società fossero dello stesso Stato, dovendo la percezione dei dividendi essere fiscalmente neutra per la società madre, con riguardo all’assoggettamento ad imposta, senza possibilità di opzione e senza esenzione ai sensi della Dir. 2011/96/UE del 30 novembre 2011, art. 2, a. iii)” (Cass., 31/01/2020, n. 2313; 19/11/2020, n. 26307, che hanno entrambe esaminato due fattispecie nelle quali il rifiuto del rimborso del credito d’imposta era stato motivato dalla Amministrazione finanziaria dalla esenzione dalla ritenuta sui dividendi, di cui la società madre estera aveva già beneficiato). Sebbene la fattispecie a cui i precedenti riportati afferiscano ad una ipotesi a parti invertite, ossia società madre straniera e società figlia sedente in Italia, i principi non possono certo mutare se l’esame del rapporto società madri-figlie riguardi la società madre italiana e quella figlia francese.

Nello specifico dunque la questione dove trovare soluzione tenendo conto del principio, di matrice Euro-unitaria, della neutralità nella tassazione in rapporti transnazionali. E’ stata a tal fine valorizzata la sentenza della Corte di Giustizia del 19 dicembre 2019 (causa C-389/18, Brussels Securities c/ Belgio), che, al contrario di quanto sostenuto dagli uffici finanziari, ha avvertito come la circostanza che la distribuzione del dividendo da parte della società figlia non fosse stata assoggettata a ritenuta in Italia non eliminava necessariamente il rischio di doppia imposizione economica e di violazione della neutralità fiscale. E a tal fine i citati precedenti di questa Corte, sebbene riferiti a fattispecie relative a società madre sedenti nel Regno Unito, possono essere mutuati nella presente controversia, atteso che, a parte le comuni regole Euro-unitarie, interpretate dalla Corte di Giustizia come appresso sarà meglio evidenziato, vi è una indiscussa affinità, se non una sovrapponibilità di molti dei principi regolatori delle Convenzioni bilaterali Italia / Regno Unito ed Italia / Francia. E’ sul punto significativo rammentare che nei due Stati erano presenti, al pari che in Italia, istituti disciplinanti il credito d’imposta, quale meccanismo cui ricorrere per ovviare alle conseguenze distorsive della doppia imposizione fiscale (l’imputation credit d’oltre Manica e l’avoir fiscal d’oltralpe). Con l’ulteriore considerazione, quanto alla necessità di provvedere alla tutela dalla doppia imposizione, che il sistema di tassazione francese dell’epoca prevedeva un trattamento impositivo dei redditi societari più favorevole ai gruppi societari con partecipazioni estere, di quanto lo fosse quello italiano.

D’altronde l’eliminazione della doppia imposizione “economica” (ipotesi in cui due Stati sottopongono a imposizione contribuenti diversi per lo stesso reddito) è ritenuta obiettivo tipico dell’UE (Avv. Gen., in causa C-389/18, note 15 e 30).

Ciò chiarito, la evocata pronuncia della Corte di Giustizia, formulando un principio di valore generale, ha affermato che: “La Dir. del Consiglio, 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE, art. 4, paragrafo 1, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi, come modificata dalla Dir. n. 2003/123/CE del Consiglio, del 22 dicembre 2003, deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa di uno Stato membro ai sensi della quale i dividendi che una società madre percepisce dalla sua società figlia debbano essere, in un primo tempo, inclusi nella base imponibile della società madre, prima di poter fare, in un secondo tempo, oggetto di una deduzione, nella misura del 95% del loro importo, la cui eccedenza può essere riportata agli esercizi successivi senza limiti nel tempo, deduzione che è prioritaria rispetto ad un’altra deduzione fiscale il cui rinvio sia limitato nel tempo”. Al punto 35) precisa che: “Inoltre, risulta precisamente dal terzo considerando della Dir. n. 90/435 che essa mira ad eliminare, instaurando un regime fiscale comune, qualsiasi penalizzazione della cooperazione tra società di Stati membri diversi rispetto alla cooperazione tra società di uno stesso Stato membro e a facilitare in tal modo il raggruppamento di società a livello dell’Unione. Tale Direttiva tende così ad assicurare la neutralità, sotto il profilo fiscale, della distribuzione di utili da parte di una società figlia con sede in uno Stato membro alla sua società madre stabilita in un altro Stato membro (sentenze del 1 ottobre 2009, Gaz de France – Berliner Investissement, C247/08, EU:C:2009:600, punto 27 e giurisprudenza ivi citata, e dell’8 marzo 2017, Wereldhave Belgium e a., C-448/15, EU:C:2017:180, punto 25)”. Al punto 36) evidenzia che: “Al fine di assicurare l’obiettivo della neutralità, sotto il profilo fiscale, della distribuzione di utili da parte di una società figlia con sede in uno Stato membro alla sua società madre stabilita in un altro Stato membro, la Dir. n. 90/435 mira ad evitare, in particolare, mediante la regola prevista al suo art. 4, paragrafo 1, primo trattino, una doppia imposizione di tali utili, in termini economici, vale a dire ad evitare che gli utili distribuiti siano colpiti, una prima volta, a carico della società figlia, e, una seconda volta, a carico della società madre (v., in tal senso, sentenze del 3 aprile 2008, Banque Federative du Credit Mutuel, C-27/07, EU:C:2008:195, punti 24, 25 e 27, nonché del 12 febbraio 2009, Cobelfret, C-138/07, EU:C:2009:82, punti 29 e 30)”. D’altronde, nel punto 37, avverte che “la Dir. n. 90/435, art. 4, paragrafo 1, primo trattino, vieta agli Stati membri di sottoporre ad imposizione la società madre a titolo di utili distribuiti dalla sua società figlia, senza distinguere a seconda che l’imposizione della società madre abbia come fatto generatore la percezione di tali utili o la loro ridistribuzione (v., in tal senso, sentenza del 17 maggio 2017, X, C-68/15, EU:C:2017:379, punto 79) e che rientra in tale divieto anche una normativa nazionale che, pur non assoggettando ad imposta i dividendi percepiti dalla società madre in quanto tali, può comportare che la società madre subisca indirettamente un’imposizione su tali dividendi (v., in tal senso, sentenza del 12 febbraio 2009, Cobelfret, C-138/07, EU:C:2009:82, punto 40)”, per concludere sull’argomento, al punto 38, che “infatti, una normativa di questo tipo non è compatibile né con il testo né con gli obiettivi e il sistema della Dir. n. 90/435, poiché non consente di raggiungere pienamente l’obiettivo della prevenzione della doppia imposizione economica, quale previsto da tale Dir., art. 4, paragrafo 1, primo trattino, (v., in tal senso, sentenza del 12 febbraio 2009, Cobelfret, C-138/07, EU:C:2009:82, punti 41 e 45)”.

In altri termini è necessario l’esame, nel concreto, del meccanismo di tassazione applicato, per accertare non solo se sia stata effettivamente evitata la doppia imposizione, ma ne sia stato scongiurato il rischio, nel rispetto del principio di neutralità fiscale tutelato dalla Direttiva.

Ciò chiarito, nel caso di specie è sufficiente porre attenzione sulla circostanza che, nell’applicazione della Convenzione Italia – Francia, quest’ultima, se da un lato ricorreva al sistema del credito d’imposta (avoir fiscal) per ovviare almeno in parte alla doppia imposizione economica, con la legge Finanziaria 2001, e dunque a partire del 1 gennaio 2001, aveva fissato al 25% il credito recuperabile nelle ipotesi in cui l’azionista fosse un soggetto diverso dalla persona fisica, con riguardo dunque alle compagini sociali. E’ stato pertanto avvertito che la riduzione al 25% dell’ammontare del credito d’imposta implica che l’obiettivo dell’avoir fiscal, cioè l’eliminazione del fenomeno della doppia imposizione economica, fosse notevolmente ridotto. Ritenere pertanto, come apoditticamente affermato dal giudice regionale, che la fruizione già avvenuta (in Francia) del credito d’imposta impedisse tout court la riduzione dell’imponibile, secondo quanto previsto dall’art. 96 bis, all’epoca vigente, rappresenta una ragione giuridicamente errata ed economicamente ingiustificata.

Ed allora, tornando ai principi enucleabili dall’arresto della Corte Europea prima riportata, deve affermarsi che deve escludersi che alla società sia impedita l’applicazione del regime nazionale all’epoca vigente (l’art. 96 bis) solo perché la società madre italiana abbia richiesto in Francia l'”avoir fiscal”. Anzi, astrattamente -sebbene con successiva verifica in concreto- si spiega la compatibilità dei due sistemi, sempre che nella quantificazione si tenga conto della necessaria applicazione della ritenuta (del 5%) tanto sull’ammontare del credito d’imposta, quanto sull’ammontare dei dividendi distribuiti alla società madre sedente in Italia.

Dunque, la generica affermazione della incompatibilità di principio dei due sistemi, che si rinviene nella decisione della sentenza impugnata, è erronea e si pone in aperto contrasto con la Dir. 90/435/CEE del Consiglio. Di contro deve invece affermarsi che si rende necessario accertare se in concreto, nella fruizione del credito d’imposta acquisito in Francia ed al contempo nella riduzione dell’imponibile ai sensi dell’art. 96 bis, la società madre italiana abbia potuto conseguire un ingiustificato vantaggio rispetto ad una comune società operante solo nel territorio nazionale. Ed a tal fine occorre però anche chiarire che l’accertamento non può tradursi in una mera sommatoria algebrica dei vantaggi, valutando che esso spetti o meno a seconda se la società madre italiana con partecipazioni qualificate in società estere dell’area Euro-comunitaria fruisca di un maggiore o minore risparmio d’imposta rispetto a compagini articolate su pluralità di società operanti tutte nel mercato interno nazionale. Ciò implicherebbe già una valutazione critica di principio per l’ipotesi in cui risulti già fruito in Francia il credito d’imposta. Ciò che invece deve essere valutato, e che deve costituire l’oggetto di accertamento del giudice di merito, è se entrambe le società, madre sedente in Italia e figlia residente in Francia, siano state astrattamente assoggettate ad imposta in ciascuno dei due Stati in riferimento al reddito della società figlia ed ai dividendi conferiti alla partecipante. Diversamente venendo a mortificarsi la libertà di stabilimento anche all’estero di compagini societarie complesse, in violazione del principio, non negoziabile e tanto meno derogabile, di neutralità fiscale, di matrice Euro-unitaria.

La decisione impugnata non ha fatto corretta applicazione delle regole enunciate. Il motivo va pertanto accolto.

La sentenza va cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Veneto, alla quale, oltre che sulle spese del giudizio di legittimità, va demandato in diversa composizione il riesame della controversia alla luce del seguente principio “In tema di imposte sui dividendi azionari corrisposti da una società figlia residente in Francia ad una società madre residente in Italia, il credito d’imposta previsto dalla Convenzione contro le doppie imposizioni, art. 10, paragrafo 3, lett. b), firmata tra Italia e Francia il 5.10.1989 e ratificata dalla Repubblica Italiana con L. 7 gennaio 1992, n. 20, non è escluso dal riconoscimento dell’esenzione dalla ritenuta prevista dalla Dir. madre-figlia n. 453 del 1990 (attuata con il D.Lgs. n. 136 del 1993), atteso che secondo l’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia (causa C-389/18, del 19 dicembre 2019, Brussels Securities), questo secondo beneficio non elimina necessariamente il rischio di doppia imposizione economica né di violazione del principio di neutralità fiscale. Peraltro, ai fini del corretto coordinamento dei due meccanismi di tutela dagli effetti distorsivì della doppia imposizione (esenzione e credito d’imposta), la necessaria verifica in concreto della eliminazione effettiva di detto rischio in danno della società madre italiana – a tutela da trattamenti fiscali deteriori rispetto alla disciplina applicabile ad una società madre sedente in Italia con partecipazioni in società figlie anche ivi sedenti-deve essere compiuta mediante l’accertamento che il dividendo distribuito dalla società figlia francese sia compreso, una volta assegnato alla società madre italiana, nel coacervo dei redditi imponibili in quello Stato, senza che rilevi se nel concreto quel reddito sia ivi assoggettabile ad aliquota pari, inferiore o superiore a quella altrimenti applicabile in Italia, riconducendosi la disciplina nel principio di neutralità ed efficienza fiscale internazionale”.

PQM

Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Veneto, cui demanda in diversa composizione anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 27 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2021

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