Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.24991 del 15/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Presidente –

Dott. ROSSETTI Raffaele – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4588-2019 proposto da:

S.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE SANTO 10/A, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO FOSCHIANI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABIO FRANCESCHINI;

– ricorrente –

contro

N.S., elettivamente domiciliata presso la cancelleria della CORTI DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR, ROMA, rappresentata e difesa dagli avvocati GIUSEPPE BENASSI, DOMENICO ALBONI;

– controricorrente –

e contro

M.A.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 43/21:118 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata l’08/01/21118;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 13/04/2021 dal Consigliere Relatore Dott. CRICENTI.

RITENUTO

che:

1.- A seguito della separazione personale tra M.A. e N.S., il primo si è impegnato ad acquistare la metà di proprietà della seconda di un immobile che i due avevano in comune, con l’obbligo di versare il prezzo in tre rate. Il M. ha corrisposto solo la prima rata e non le altre due, ma nel frattempo ha ceduto l’immobile alla nuora, S.L.. La ex moglie, N.S., a seguito del mancato pagamento del rimanente corrispettivo, ha chiesto ed ottenuto decreto ingiuntivo nei confronti dell’ex coniuge.

Inoltre, la N., temendo che l’alienazione dell’immobile – fatta dall’ex coniuge alla nuora – fosse di pregiudizio, ossia fosse finalizzata a sottrarre il bene alla garanzia patrimoniale, atteso il credito che lei aveva per il corrispettivo della vendita al marito, ha agito verso M. – l’ex coniuge – e la nuora con azione i revocatoria, che è stata accolta sia in primo grado che in appello, sul presupposto che erano emersi sufficienti indizi della consapevolezza della acquirente (la nuora) del danno che sarebbe derivato alla creditrice.

2.- S.L., acquirente del bene, ricorre con un motivo, cui si oppone con controricorso N.S..

CONSIDERATO

che:

3.- Con l’unico motivo di ricorso, si denuncia violazione dell’art. 2729 c.c.

Secondo la ricorrente la Corte di merito non avrebbe fatto buon uso delle presunzioni, meglio, dei criteri legali che presiedono al ragionamento presuntivo.

La Corte aveva dedotto la consapevolezza dell’acquirente, che era la nuora dell’alienante, del danno che dalla vendita sarebbe derivata alla creditrice di quest’ultimo (la sua ex moglie) da una serie di elementi: a) lo stretto legame familiare, in base al quale, tra l’altro, il marito della ricorrente, M.A., figlio dunque dell’alienante, aveva prestato a quest’ultimo il denaro per il pagamento della prima rata alla ex moglie; b) la circostanza che il prezzo della compravendita da M. a S., ossia l’atto oggetto di revoca, non era mai stato corrisposto; c) la consapevolezza del debito che l’alienante aveva nei confronti della ex moglie, che risultava dalla compravendita, data la provenienza del bene.

Secondo la ricorrente questi elementi sono insufficienti a fornire una prova presuntiva ed è stato loro attribuito un valore indiziario che in realtà non hanno.

Il motivo è infondato.

La prova per presunzioni è fondata su un criterio legale (art. 2729 c.c.) che impone che gli indizi dai quali si può indurre un fatto ignoto debbano essere gravi, precisi e concordanti. Se il giudice di merito attribuisce carattere di gravità, concordanza e precisione a fatti storici che invece quei caratteri non hanno, il suo giudizio è in contrasto con il suddetto criterio legale, e dunque è censurabile per violazione di legge (Cass. 19485/ 2017; Cass. 29635/ 2018).

Nel caso presente, il legame familiare stretto tra alienante ed acquirente, il mancato versamento del prezzo, la conoscenza della provenienza del bene acquistato, ossia la conoscenza del fatto che quel bene era venduto dal suocero per averlo acquistato dalla ex moglie, a cui doveva parte del prezzo, sono tutti elementi indicativi della conoscibilità del danno che, acquistando il bene, si poteva infliggere al creditore.

Regola vuole che si debba trattare di elementi gravi, ossia che hanno l’attitudine, con elevato grado di probabilità, a produrre conclusioni circa il fatto da provare (Cass. 22898/ 2013); di fatti precisi, ossia che conducono, in modo non equivoco, alla conclusione che la ricorrente sapesse del pregiudizio che stava arrecando alla creditrice; che siano inoltre concordanti in quanto convergenti sul fatto ignoto da accertare.

Queste caratteristiche dipendono dal tipo di ragionamento inferenziale che i fatti consentono, che spesso è un ragionamento basato su massime di esperienza, in base alle quali si afferma che un fatto ne indica un altro, perché, per rilevazione statistica o per valutazione sociale tipica, normalmente è così.

Nella fattispecie si tratta di fatti il cui significato indiziario (gravità, precisione e concordanza) è basato su massime di esperienza fondate, ossia in base. alle quali il rapporto di parentela rende edotti delle situazioni patrimoniali dei congiunti proprio perché normalmente, ossia secondo una valutazione sociale tipica gli stretti congiunti conoscono le situazioni patrimoniali reciproche; perché fare prestito per il pagamento della rata significa sapere che essa serve ad estinguere parte di un debito, anche qui secondo quanto normalmente accade; il mancato versamento del prezzo, infine, sempre secondo quanto normalmente accade, è indice che la compravendita o non è voluta o lo è per scopi indiretti rispetto alla causa propria.

Il ragionamento induttivo, dunque, fatto dalla Corte, in quanto basato su massime di esperienza fondate, è esente da censure: oltretutto, la pretesa erronea valutazione della prova presuntiva finisce con il sollecitare un nuovo e non consentito esame nel merito. Il ricorso, pertanto, va rigettato. Segue la condanna alle spese di lite.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento di 6000,00 Euro di spese legali, oltre Euro 200 di spese generali. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il pagamento, se dovuto e nella misura dovuta, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2021

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