LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –
Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –
Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23746/2020 proposto da:
N.C., rappresentato e difeso dall’avvocato Rosaria Tassinari, giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma via dei Portoghesi 12 presso l’Avvocatura Generale dello Stato che lo rappresenta e difende ope legis;
– resistente –
avverso la sentenza n. 1516/2020 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 04/06/2020;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 18/05/2021 dal Cons. Dott. PARISE CLOTILDE.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 1516/2020 depositata il 4-6-2020, la Corte d’appello di Bologna ha rigettato l’appello proposto da N.C., cittadino della Nigeria – Delta State-, avverso l’ordinanza del Tribunale di Bologna che, a seguito di rituale impugnazione del provvedimento emesso dalla competente Commissione Territoriale, aveva respinto le sue domande di riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria. Il richiedente riferiva di essere fuggito dal suo Paese in quanto temeva di essere ucciso dal padre della ragazza mulsumana con cui aveva avuto una relazione, e che, rimasta incinta, era morta di parto. La Corte territoriale, condividendo il giudizio espresso dal Tribunale, ha ritenuto non credibile la vicenda personale narrata dal richiedente (pag. 5 sentenza) e che non ricorressero i presupposti per il riconoscimento di alcuna forma di protezione, avuto anche riguardo alla situazione del Paese di origine, descritta nella sentenza impugnata con indicazione delle fonti di conoscenza (pag. 6 e 7). Quanto al diniego della protezione umanitaria, la Corte di merito ha affermato che non fossero ravvisabili elementi di vulnerabilità oggettiva, non emergendo un’incolmabile ed effettiva sproporzione rispetto al contesto di vita del Paese di origine, né di vulnerabilità soggettiva, non avendo allegato il richiedente alcuna situazione di fragilità, né risultando sufficientemente provato il livello di integrazione dallo stesso raggiunto in Italia, dato che l’unica sua occupazione di lavoro a tempo determinato era già conclusa e che il richiedente non aveva prodotto attestazioni afferenti lo studio della lingua italiana o attività di volontariato o progetti sociali.
2. Avverso il suddetto provvedimento, il ricorrente propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno, che si è costituito tardivamente, al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.
3. Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis.1 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorrente denuncia: (i) con il primo motivo, sub specie del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, lamentando la violazione del dovere istruttorio ufficioso, per non avere la Corte d’appello assolto all’onere di cooperazione istruttoria al fine di verificare la verosimiglianza della vicenda personale narrata, nonché lamentando la violazione del principio dell’onere probatorio attenuato e l’errata valutazione dei parametri di credibilità, essendo comprensibili, anche in relazione al basso livello di scolarità del richiedente, le lacune del suo racconto, per essere egli arrivato in Italia dopo un lungo viaggio in luoghi pericolosi e “in mano a trafficanti”; (ii) con il secondo motivo, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), per non avere verificato la Corte d’appello la sussistenza nel suo Paese di una situazione di violenza indiscriminata mediante concreta ed attuale indagine, in base a quanto risulta dal sito “*****” della Farnesina che richiama, unitamente a pronunce di questa Corte e di merito e al rapporto di Amnesty International sulle violazioni dei diritti umani; (iii) con il terzo motivo, sub specie del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per avere la Corte territoriale negato la protezione umanitaria, senza considerare la sua situazione di vulnerabilità, da valutarsi, in base ai principi affermati da questa Corte con la pronuncia n. 4455/2018, tenendo conto del suo comportamento irreprensibile e del fatto che in caso di rimpatrio il ricorrente sarebbe destinato ad una vita di privazione e di stenti.
2. I motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili perché difettano di specificità, non si confrontano con le ragioni della decisione e sollecitano una rivisitazione del merito.
2.1. Il giudizio di non credibilità è stato espresso, con motivazione adeguata, dalla Corte d’appello, che, in applicazione dei parametri di legge, ha evidenziato in dettaglio le plurime discrepanze e lacune del racconto del richiedente (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata), non giustificate con l’atto d’appello, effettuando un accertamento di fatto che, nella specie, non è stato ritualmente sindacato ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Il ricorrente deduce genericamente la violazione di norme di legge, attraverso il richiamo alle disposizioni che assume disattese e tramite una ricostruzione della fattispecie concreta, quanto al giudizio di non credibilità, difforme da quella accertata nel giudizio di merito. Una volta esclusa dal Giudice territoriale, con apprezzamento di fatto incensurabile e con motivazione adeguata, la credibilità delle vicende personali narrate, non ricorrono i presupposti per il riconoscimento del rifugio politico e della protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. a) e lett. b), D.Lgs. cit., in cui rileva, se pure in diverso grado, la personalizzazione del rischio oggetto di accertamento (cfr. Cass. n. 6503/2014; Cass. n. 16275/2018; Cass. n. 16925/2018 e Cass. n. 14283/2019).
2.2. Quanto alla domanda di protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, non censurabile in sede di legittimità al di fuori dei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. n. 32064/2018 e Cass. n. 30105/2018). Nel caso di specie il ricorrente, nel dolersi del mancato esercizio dei poteri istruttori ufficiosi da parte della Corte territoriale, richiama, invece, proprio la stessa fonte citata nella sentenza impugnata (pag. 12 ricorso), svolgendo, da un lato, considerazioni prive di specifica attinenza al decisum e, dall’altro, sollecitando impropriamente una diversa valutazione delle risultanze probatorie, anche mediante il riferimento ad un rapporto di Amnesty International, del quale non precisa la data (pag. 15 e 16 del ricorso), né se era stato indicato nel giudizio d’appello (Cass. n. 899/2021).
2.3. Con riguardo alla disciplina applicabile ratione temporis in tema di protezione umanitaria, occorre premettere che la domanda di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari presentata, come nella specie, prima dell’entrata in vigore (5/10/2018) della normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, deve essere scrutinata sulla base della normativa esistente al momento della sua presentazione (Cass. S.U. n. 29459/2019).
Ciò posto, il ricorrente, denunciando il vizio di violazione di legge, afferma genericamente di essere soggetto vulnerabile, senza dedurre di aver allegato nei giudizi di merito elementi individualizzanti di rilevanza o fatti specifici che possano rivestire decisività, nel senso precisato da questa Corte e chiarito con la recente pronuncia delle Sezioni Unite già citata (tra le tante Cass. n. 9304/2019 e Cass. S.U. n. 29459/2019). La Corte d’appello ha affermato che non fossero ravvisabili elementi di vulnerabilità oggettiva, non emergendo un’incolmabile ed effettiva sproporzione rispetto al contesto di vita del Paese di origine, né di vulnerabilità soggettiva, non avendo allegato il richiedente alcuna situazione di fragilità, né risultava sufficientemente provato il livello di integrazione da egli raggiunto in Italia, dato che l’unica sua occupazione di lavoro a tempo determinato era già conclusa e che non aveva prodotto attestazioni afferenti lo studio della lingua italiana o attività di volontariato o progetti sociali. Il ricorrente non si confronta con tali argomentazioni, neppure allega di essere integrato nel territorio nazionale e si limita a dedurre di aver tenuto un comportamento irreprensibile durante la permanenza in Italia e di destinato ad una vita di privazione e di stenti in caso di rimpatrio.
3. Nulla deve disporsi circa le spese di lite del presente giudizio, stante il mancato svolgimento di attività difensiva da parte del Ministero.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020).
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 18 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2021