Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.25219 del 17/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 25470/2019 R.G. proposto da:

F.J., rappresentato e difeso dall’avv. Elena Petracca, con domicilio in Rovigo, Via Badaloni n. 19.

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Venezia n. 6167/2019, depositato in data 25.7.2019.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 16.2.2021 dal Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato.

FATTI DI CAUSA

Con decreto n. 6167/2019, il tribunale di Venezia, confermando il provvedimento adottato dalla Commissione territoriale di Verona, ha respinto la domanda di protezione internazionale proposta da F.J..

Il ricorrente, di origine nigeriania, aveva dedotto di aver abbandonato il paese di origine, essendo stato ingiustamente incolpato di una rapina da parte di un presunto complice; di esser stato imprigionato per quattro mesi e di esser stato liberato dietro pagamento di una cauzione, decidendo, per tali motivi, di abbandonare il paese.

Secondo la pronuncia impugnata, non poteva esser riconosciuto lo status di rifugiato, poiché i fatti dedotti non erano riconducibili ad un’ipotesi di persecuzione per ragioni di razza, lingua, religione etc.. Il tribunale ha poi rilevato che non era stato neppure paventato il rischio di subire una condanna o l’esecuzione di una pena capitale, mentre, riguardo al pericolo di esser sottoposto al carcere o a trattamenti inumani o degradanti, ha ritenuto ostativa l’inattendibilità della vicenda rappresentata in giudizio, siccome caratterizzata da plurimi elementi di inverosimiglianza e incoerenza. Quanto alla protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, sub lett. c), la pronuncia, valorizzando informazioni tratte da fonti internazionali accreditate ed aggiornate, ha escluso la sussistenza di un clima di violenza indiscriminata nella regione di provenienza del ricorrente, ponendo in rilievo, riguardo alla protezione umanitaria, l’assenza di elementi di vulnerabilità soggettiva e l’irrilevanza del grado di inserimento in Italia, avendo il ricorrente ottenuto solo un’occupazione a tempo determinato”.

Per la cassazione del decreto F.J. propone ricorso in quattro motivi.

Il Ministero dell’Interno resiste con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver il tribunale omesso di valutare le dichiarazioni del ricorrente alla luce della situazione del paese di provenienza, trascurando che eventuali lacune probatorie andavano colmate mediante l’attivazione dei poteri istruttori officiosi o procedendo all’audizione dell’interessato, non essendo stata neppure presa in esame la situazione carceraria in Nigeria, caratterizzata da trattamenti degradanti ed inumani e da frequenti abusi della carcerazione preventiva, non potendosi dar rilievo esclusivamente all’inattendibilità del racconto dell’interessato.

Il secondo motivo denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che, contrariamente a quanto ritenuto dal tribunale, i rischi paventati dal ricorrente erano riconducibili ai presupposti per la concessione della protezione sussidiaria, atteso che l’interessato era già stato incarcerato arbitrariamente e, in caso di rimpatrio, avrebbe subito un’ulteriore incarcerazione ingiusta, con il rischio di trattamenti degradanti o inumani già attestato da fonti accreditate.

I due motivi, che richiedono un esame congiunto, sono infondati.

La decisione ha indicato le plurime lacune e la complessiva implausibilità della vicenda dedotta in giudizio, evidenziando come il ricorrente avesse contraddittoriamente asserito di esser stato imprigionato pur non avendo commesso alcun reato, avendo subito – in effetti – solo la misura dell’obbligo di firma.

Del tutto inesplicate sono apparse le ragioni per le quali il ricorrente non aveva ritenuto di difendersi dalle accuse, pur avendo i testimoni riconosciuto la sua estraneità ai fatti.

In definitiva, il giudizio di inattendibilità non appare il frutto di un convincimento personale del tribunale, sganciato dai criteri di attendibilità di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, ma della lacunosità, dell’assenza di elementi di riscontro e dell’intrinseca incoerenza del narrato, giustificando il rigetto della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e della concessione della protezione sussidiaria.

Giova ribadire che, in tema di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve avere innanzi tutto ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona, e qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere a un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. 16925/2018; Cass. 4892/2019).

La valutazione di non credibilità della narrazione integra una autonoma e autosufficiente ratio decidendi della sentenza impugnata che, se non (o, come in questo caso, infondatamente) censurata, è destinata a consolidarsi e a precludere, in sede di impugnazione, lo scrutinio dei motivi inerenti i profili sostanziali della domanda di protezione, rendendola di per sé non suscettibile di accoglimento, non sussistendo elementi sui quali concretamente basare una decisione in senso positivo (in termini, Cass. 3237/2019; Cass. 33096/2018; Cass. 33137/2018; Cass. 33139/2018; Cass. 21668/2015).

Peraltro, l’obbligo del giudice di acquisire informazioni sulla reale ed attuale situazione del Paese di origine (cd. cooperazione istruttoria) non sorge per il solo fatto che sia stata proposta una domanda di protezione internazionale, collocandosi in rapporto di stretta connessione con la circostanza che il richiedente abbia fornito una versione dei fatti quanto meno coerente e plausibile.

L’inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, attiene – inoltre – al giudizio di fatto, insindacabile in sede di legittimità, e – come detto – osta al compimento di approfondimenti istruttori officiosi.

2. Il terzo motivo denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver il tribunale negato che – nella zona di provenienza del ricorrente – sussistesse un clima di violenza indiscriminata tale da porne a rischio l’incolumità fisica, in contrasto con le informazioni ricavabili dalle fonti accreditare ed aggiornate.

Il motivo è infondato.

La pronuncia ha ricostruito la situazione di sicurezza interna della Regione di provenienza (Edo State) in base ad informazioni desunte da reports internazionali aggiornati al febbraio 2019 e quindi prossimi alla data della decisione (25 luglio 2019), pervenendo motivatamente ad escludere che l’Edo State fosse caratterizzato da un grado di violenza tale da porre in pericolo la vita delle persone a causa della loro sola presenza sul territorio nazionale.

Risulta quindi pienamente assolto il doveroso sforzo di collaborazione istruttoria mediante l’acquisizione di informazioni da fonti qualificate più aggiornate di quelle riportate in ricorso.

Per il resto, la verifica delle condizioni di sicurezza del paese di provenienza è rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, censurabile solo per vizio di motivazione.

3. Il quarto motivo denuncia la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, contestando al tribunale di aver respinto la domanda di protezione umanitaria in palese violazione dell’obbligo di motivazione, limitandosi ad affermare che la vicenda rappresentata in giudizio non presentava profili di vulnerabilità, tale da risultare ostativa per l’allontanamento dal territorio nazionale. Non essendo prevista alcuna tipizzazione legale delle situazioni che legittimano il rilascio del permesso per motivi umanitari ed avendo rilievo anche l’intento del richiedente asilo di integrarsi pienamente nel paese di approdo, occorreva scrutinare d’ufficio il grado di tutela dei diritti fondamentali nel paese di provenienza.

Il motivo è infondato.

Il tribunale ha osservato come la vicenda personale dell’interessato non presentasse particolari profili di fragilità, precisando inoltre come non fossero state allegate circostanze utili a far ritenere che questi si fosse allontanato da una condizione di vulnerabilità effettiva sotto il profilo specifico della grave e sistematica violazione individualizzata dei diritti umani.

Difatti, a fondamento della domanda, era stato allegato il pericolo che il ricorrente fosse esposto ad un’ingiusta incolpazione e potesse essere incarcerato, circostanze che il tribunale ha ritenuto destituite di fondamento, stimando insufficiente anche lo svolgimento di un lavoro a tempo determinato, indice di un’integrazione in Italia tale da non autorizzare la concessione del permesso umanitario (cfr. decreto, pag. 9).

Il ricorso è quindi respinto, con aggravio di spese secondo soccombenza.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, pari ad Euro 2100,00 per compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 16 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2021

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