LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 22284-2017 proposto da:
AZIENDA AGRICOLA COL VETORAZ DI M.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 3, presso lo studio del prof.
avv. BRUNO NICOLA SASSANI, che la rappresenta e difende unitamente all’avv. FABIO GIUGGIOLI, e al prof. avv. FRANCESCO PAOLO LUISO;
– ricorrente –
contro
G.L., e X.L.C., in qualità di eredi del defunto GE.LU., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA BASSANO DEL GRAPPA 24, presso lo studio dell’avvocato MICHELE COSTA, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato ADOLFO CHIAVENTONE;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 923/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 08/05/2017;
nonché
sul ricorso 27609-2018 proposto da:
AZIENDA AGRICOLA COL VETORAZ DI M.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 3, presso lo studio del prof.
avv. BRUNO NICOLA SASSANI, che la rappresenta e difende unitamente all’avv. FABIO GIUGGIOLI e al prof. avv. FRANCESCO PAOLO LUISO;
– ricorrente –
contro
G.L. e X.L.C., in qualità di eredi del defunto GE.LU., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA BASSANO DEL GRAPPA 24, presso lo studio dell’avvocato MICHELE COSTA, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato ADOLFO CHIAVENTONE;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 2195/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 30/07/2018;
udita, per entrambi i ricorsi, la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/03/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;
uditi i difensori delle parti.
FATTI DI CAUSA
1. L’Azienda agricola Col Vetoraz di F.M. convenne in giudizio Ge.Lu., davanti al Tribunale di Treviso, Sezione distaccata di Montebelluna, affinché fosse condannato al pagamento di quanto ad essa spettante per l’attività svolta di manutenzione straordinaria di un fondo adibito a vigneto, sito in località *****, gestito dal convenuto.
A sostegno della domanda espose che l’attività di manutenzione si era protratta dal 1997 fino al 2000, portando ad un deciso miglioramento della qualità delle uve prodotte. Aggiunse che il convenuto aveva ammesso di aver commissionato alla parte attrice l’attività di cui si discute e che aveva riconosciuto al M., a titolo di compenso, una somma pari al 23 per cento della totale buonuscita che lo stesso G. avrebbe ottenuto a conclusione dei rapporti in corso con il proprietario del fondo (questione che era, all’epoca, oggetto di una vertenza).
Si costituì in giudizio il convenuto, chiedendo il rigetto della domanda. Sostenne che l’accordo sopra ricordato, peraltro unilateralmente da lui predisposto, era stato concepito come un accordo aleatorio, nel senso che il compenso sarebbe stato effettivamente versato solo in caso di esito positivo della vertenza col proprietario. Poiché tale condizione non si era verificata ed egli aveva comunque pagato l’Azienda Col Vetoraz con gli incassi delle vendite dell’uva negli anni dal 1997 al 2000, nessuna ulteriore somma spettava alla parte attrice. Per dimostrare la bontà della propria tesi, il G. produsse un’ulteriore scrittura privata, datata 12 febbraio 1998, in base alla quale il M. doveva essere ricompensato per l’attività svolta con il riconoscimento, in suo favore, del 75 per cento del fatturato imponibile derivante dalla produzione del vino.
Espletata prova per testi, disposta l’acquisizione di documenti e fatta eseguire una c.t.u., il Tribunale rigettò la domanda e condannò la parte attrice al pagamento delle spese di lite.
Il Tribunale rilevò, tra l’altro, che era tardiva la domanda, proposta dalla parte attrice nella comparsa conclusionale, finalizzata ad ottenere la condanna di G. al pagamento del 75 per cento del ricavato della vendita dell’uva nel periodo tra il *****.
2. La pronuncia è stata impugnata dall’Azienda agricola soccombente e la Corte d’appello di Venezia, con sentenza dell’8 maggio 2017, ha rigettato l’appello, condannando l’appellante al pagamento delle ulteriori spese del grado.
Ha osservato la Corte territoriale, per quanto di interesse in questa sede, che il Tribunale aveva correttamente escluso che fosse stato stipulato tra le parti un contratto in base al quale la parte attrice avrebbe realizzato alcune migliorie nel fondo del convenuto e questi sarebbe stato tenuto a rimborsargli le spese. Come il Tribunale aveva correttamente stabilito, l’Azienda attrice si era obbligata a restituire al fondo del convenuto la piena produttività e, in compenso di ciò, alla stessa sarebbe toccato il 75 per cento del ricavato della vendita dell’uva, mentre il restante 25 per cento sarebbe spettato al G.. Detta ripartizione aveva avuto luogo, come risultava provato in corso di causa.
Quanto, invece, all’ulteriore scrittura privata suindicata – secondo cui il G. avrebbe versato all’Azienda del M., a titolo di compenso, il 23 per cento della totale buonuscita da lui ottenuta – la Corte ne ha affermato la sostanziale irrilevanza, posto che si trattava di un accordo condizionato nel quale la condizione non si era verificata; poiché il giudizio promosso dal G. contro il proprietario aveva avuto negativo, era da ritenere corretta la decisione del Tribunale anche sotto questo profilo.
3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Venezia propone ricorso l’Azienda agricola Col Vetoraz di F.M. con atto affidato ad un solo motivo (r.g. n. 22284 del 2017).
Resistono X.L.C. e G.L., in qualità di eredi del defunto Ge.Lu., con un unico controricorso.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, sussistendo le condizioni di cui agli artt. 375,376 e 380-bis c.p.c., presso la Sesta Sezione Civile la quale, con ordinanza interlocutoria 2 aprile 2019, n. 9175, ne ha disposto la trattazione in pubblica udienza.
Il ricorso è stato quindi fissato per l’udienza pubblica del 10 marzo 2021 davanti alla Terza Sezione.
Le parti hanno depositato memorie e il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni per iscritto, chiedendo che il ricorso venga rigettato.
4. Contro la citata sentenza della Corte d’appello di Venezia ha proposto impugnazione per revocazione, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4), l’Azienda agricola Col Vetoraz di F.M., osservando che l’affermazione in essa contenuta – secondo cui l’avvenuta ripartizione del ricavato della vendita dell’uva in misura del 75 per cento al M. e del 25 per cento al G. era avvenuta, come provato in corso di causa – era frutto di un’errata percezione degli atti di causa.
La Corte veneziana, con sentenza 30 luglio 2018, ha rigettato la domanda, condannando l’Azienda alla rifusione delle ulteriori spese del giudizio di revocazione.
Ha affermato la Corte che la domanda di revocazione doveva essere rigettata per assenza dei presupposti di legge. Da un lato, infatti, l’affermazione contestata rappresentava, nel corpo della decisione, “un’argomentazione consapevolmente e deliberatamente inserita a sostegno della decisione presa”, e non un errore di percezione; dall’altro, l’asserito errore aveva ad oggetto una questione che era stata oggetto di controversia tra le parti, per cui la domanda di revocazione era da rigettare.
5. Contro questa seconda sentenza della Corte d’appello di Venezia propone un secondo ricorso l’Azienda agricola Col Vetoraz di F.M. con atto affidato ad un solo motivo (r.g. n. 27609 del 2018).
Resistono X.L.C. e G.L., in qualità di eredi del defunto Ge.Lu., con un unico controricorso.
Anche questo secondo ricorso è stato fissato per l’udienza del 10 marzo 2021, allo scopo di una trattazione congiunta con l’altro.
Le parti hanno depositato memorie e il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni per iscritto, chiedendo che il ricorso venga rigettato.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Occorre innanzitutto rilevare, richiamando la giurisprudenza in argomento, che i due ricorsi devono essere riuniti.
e’ stato in precedenza già affermato, infatti, che i ricorsi per cassazione proposti, rispettivamente, contro la sentenza d’appello e contro quella che decide l’impugnazione per revocazione avverso la prima, debbono, in caso di contemporanea pendenza in sede di legittimità, essere riuniti in applicazione (analogica, trattandosi di gravami avverso distinti provvedimenti) della norma dell’art. 335 c.p.c., che impone la trattazione in un unico giudizio di tutte le impugnazioni proposte contro la stessa sentenza. La riunione di detti ricorsi, pur non essendo espressamente prevista dalla citata norma del codice di rito, discende dalla connessione esistente tra le due pronunce, atteso che sul ricorso per cassazione proposto contro la sentenza revocanda può risultare determinante la pronuncia di cassazione riguardante la sentenza resa in sede di revocazione (così le Sezioni Unite nella sentenza 7 novembre 1997, n. 10933, confermata, tra le altre, dalle sentenze 29 novembre 2006, n. 25376, e 22 maggio 2015, n. 10534).
2. Ragioni di ordine logico consigliano di esporre prima la censura proposta nei confronti della seconda decisione, cioè quella emessa in sede di revocazione.
3. Con l’unico motivo di quel ricorso (r.g. n. 27609 del 2018) si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione dell’art. 395, n. 4), c.p.c., sul rilievo che la Corte d’appello avrebbe erroneamente affermato che l’errore di fatto costituisca un errore valutativo e che esso riguardi un fatto controverso oggetto del giudizio.
La parte ricorrente – dopo aver premesso una ricostruzione dell’intera vicenda – rileva che le due affermazioni sulle quali si fonda la sentenza impugnata sarebbero entrambe errate. Da un lato, perché l’errore indicato come motivo di revocazione non potrebbe aver costituito un punto controverso della decisione; nessuna decisione, infatti, è stata assunta circa l’effettiva ripartizione del ricavato derivante dalla vendita dell’uva, per cui non potrebbe esistere “un punto controverso di una non-decisione”. Da un altro lato, poi, la parte ricorrente rileva che dalla lettura della p. 11 della sentenza impugnata emergerebbe un ulteriore errore, perché l’attuazione dell’accordo intercorso tra le parti per la ripartizione dei proventi dell’uva non sarebbe stata “oggetto di controversia tra le parti”. La domanda di revocazione, quindi, avrebbe dovuto essere accolta.
4. Con l’unico motivo del primo ricorso, cioè quello proposto nei confronti della prima sentenza pronunciata dalla Corte d’appello (r.g. n. 22284 del 2017), si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., sul rilievo che sussisterebbe omissione di decisione sul quarto motivo di appello.
La parte ricorrente premette (ricorso, p. 2) di aver promosso il giudizio di primo grado fondando la propria pretesa su due scritture private: quella che prevedeva come compenso il 75 per cento del fatturato della vendita dell’uva e quella che prevedeva come compenso il 23 della buonuscita riconosciuta al G.. Ed aggiunge che la pretesa fondata su quest’ultimo documento “non ha avuto seguito” e può quindi essere “trascurata”. Dopo di che la ricorrente rileva di aver chiesto in comparsa conclusionale, “diversamente qualificando giuridicamente i fatti allegati e provati”, il pagamento del 75 per cento del fatturato della vendita dell’uva, avvalendosi quindi della prima delle due scritture private suindicate.
Ciò premesso, l’Azienda ricorrente lamenta che nel quarto motivo di appello si era contestata la decisione del Tribunale secondo cui era da ritenere domanda nuova – e come tale inammissibile – quella in cui veniva chiesto il pagamento di quanto spettante in base all’accordo nel quale le parti avevano stabilito come compenso per l’attività svolta dal M. il riconoscimento del 75 per cento del fatturato della vendita dell’uva. Sostiene che la decisione della Corte d’appello sarebbe completamente mancata, per cui l’Azienda ricorrente ricorda di aver proposto anche ricorso per revocazione nei confronti della medesima sentenza.
5. Osserva la Corte – e questo rilievo vale per entrambi i ricorsi qui in esame – che la ricostruzione dei fatti di causa ivi contenuta è carente e in qualche misura contraddittoria, come correttamente rilevano le parti controricorrenti.
Ed invero nella premessa in fatto, che è identica nei due ricorsi, l’Azienda ricorrente afferma di aver convenuto in giudizio il G. chiedendo il pagamento della somma di Euro 186.676.020 sulla base di due accordi: l’uno per il quale il compenso per il lavoro svolto dall’Azienda sarebbe stato corrisposto con la ripartizione del ricavato della vendita dell’uva (75 per cento all’Azienda del M. e 25 per cento al G.); e l’altro, ritenuto irrilevante dalla stessa parte ricorrente, avente ad oggetto la spettanza di una somma fondata su un presupposto giuridico che non si era poi verificato (il 23 per cento della buonuscita spettante al G., somma mai ottenuta perché la causa col proprietario del fondo aveva avuto esito negativo).
Nei successivi passaggi di entrambi i ricorsi, però, la stessa parte ricorrente ammette che solo in comparsa conclusionale ella, “diversamente qualificando giuridicamente i fatti allegati e provati, chiese il pagamento di quanto previsto dal primo accordo”, cioè quello fondato sulla ripartizione del ricavato della vendita dell’uva.
Ora, è evidente che tale diversa qualificazione non sarebbe stata in alcun modo necessaria se l’originaria domanda giudiziale fosse stata proposta facendo valere entrambe le scritture private. I controricorrenti hanno eccepito, infatti, che dalla lettura dell’atto di citazione, che i due ricorsi non hanno trascritto né riassunto, non risultava neppure a quale titolo l’Azienda Col Vetoraz avesse avanzato la propria domanda. E’ da ritenere, pertanto, corretta la ricostruzione in fatto compiuta dalla prima sentenza della Corte d’appello nella parte in cui essa evidenzia che la seconda scrittura privata – cioè quella del 12 febbraio 1998, avente ad oggetto il riparto del ricavato della vendita dell’uva – fu prodotta non dall’Azienda attrice, bensì dal convenuto G. a dimostrazione del suo regolare adempimento; e tale diversa ricostruzione dei fatti illumina la vicenda nel suo complesso, come ora si vedrà esaminando i due motivi dei due ricorsi.
6. Tanto premesso, il Collegio osserva che il motivo di ricorso proposto nei confronti della sentenza pronunciata in sede di revocazione non è fondato.
La domanda di revocazione è stata proposta, infatti, invocando la fattispecie dell’errore di fatto (art. 395 c.p.c., n. 4), che sussiste quando la decisione “e’ fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”.
Ora la Corte d’appello ha correttamente affermato che la frase contestata – e cioè il passaggio nel quale la stessa Corte, nella prima pronuncia oggi impugnata, ha affermato essere stato dimostrato in corso di causa che il ricavato della vendita dell’uva era stato effettivamente ripartito, nella misura del 75 e 25 per cento, come concordato – non è stata “dimenticata”, ma è frutto di un’affermazione consapevole, perché c’e’ corrispondenza tra quanto affermato nella prima sentenza e le conclusioni della c.t.u. (v. p. 9 della seconda sentenza).
Altrettanto corretta è l’altra affermazione, secondo cui il punto controverso era stato oggetto di discussione tra le parti. La giurisprudenza di questa Corte ha infatti più volte affermato che rientra fra i requisiti necessari della revocazione che il fatto oggetto della supposizione di esistenza o inesistenza non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciarsi; pertanto, non è configurabile l’errore revocatorio qualora l’asserita erronea percezione degli atti di causa abbia formato oggetto di discussione e della consequenziale pronuncia a seguito dell’apprezzamento delle risultanze processuali compiuto dal giudice (così le sentenze 15 dicembre 2011, n. 27094, e 4 aprile 2019, n. 9527). E nel caso in esame, come meglio si vedrà a proposito dell’esame del ricorso proposto contro la prima sentenza pronunciata dalla Corte veneziana, quel punto controverso è stato realmente oggetto di decisione, sebbene non si sia tradotto in un apposito capo del dispositivo.
Il ricorso avverso la sentenza emessa in sede di revocazione non è quindi fondato, posto che l’errore di fatto prospettato non sussiste e che la doglianza finisce col tradursi nella contestazione di una valutazione compiuta dal giudice di merito circa la sussistenza o meno della prova di un fatto di causa.
7. Si può passare, a questo punto, all’esame del ricorso proposto contro la prima sentenza della Corte d’appello.
Anche questo ricorso non è fondato.
In esso l’Azienda ricorrente lamenta, come si è detto, un’omissione di pronuncia e il vizio potrebbe, prima facie, sembrare fondato, perché la Corte veneziana, in effetti, è incorsa in un evidente lapsus in sede di motivazione. La sentenza, infatti, nell’esaminare singolarmente i quattro motivi di appello, non ha considerato che il quarto aveva ad oggetto la contestazione dell’asserita qualificazione come domanda nuova, e quindi tardivamente proposta, della domanda di condanna del G. a versare una somma pari al 75 per cento del ricavato derivante dalla vendita dell’uva, come già detto più volte.
Con riguardo al quarto motivo di appello, la sentenza dell’8 maggio 2017 della Corte veneziana procede ad un esame solo apparente; la decisione di rigetto su questo punto, infatti, non risponde al contenuto della censura, perché la sentenza (v. penultima pagina) erroneamente confuta la doglianza richiamando l’altra scrittura privata, cioè quella che prevedeva come compenso il 23 per cento della buonuscita ottenuta dal G., senza nulla dire in ordine alla contestata tardività della domanda.
La lettura integrale della sentenza impugnata dimostra, però, che l’omissione di pronuncia, nella sostanza, non c’e’, perché la questione ivi posta ha ottenuto una piena risposta in sede di esame del primo motivo di appello. Come si è già detto, infatti, la Corte d’appello, prescindendo evidentemente dalla questione della tardività della domanda, ha ritenuto dimostrata l’esistenza di un accordo nel senso della ripartizione tra le parti del ricavato della vendita dell’uva, il 75 per cento al M. e il 25 per cento al G.. Ed ha aggiunto che tale ripartizione aveva avuto luogo, così come provato in corso di causa.
Ne consegue che la lamentata omissione, pur trovando un apparente fondamento nella motivazione della sentenza impugnata, non è in effetti configurabile, perché l’infondatezza della pretesa dell’Azienda del M. è stata esaminata nel merito anche sotto questo profilo, benché ritenuto tardivo dal Tribunale, sicché la ricorrente non ha nulla di cui dolersi. Come correttamente ha osservato anche il Procuratore generale nella sua requisitoria scritta, “la valutazione della correttezza o meno dello scrutinio delle risultanze processuali (…) non integra giammai omissione di pronuncia sulla questione su cui si riferisce l’esame delle prove”. E sul quarto motivo di appello “deve ritenersi comunque intervenuta una pronuncia da parte della Corte distrettuale inserita nel percorso argomentativo relativo all’analisi del primo motivo”.
Rileva infine la Corte, ad abundantiam, richiamando quanto si è detto in precedenza, che la formulazione dei due ricorsi non consente di superare, almeno prima facie, l’affermazione del Tribunale là dove aveva ritenuto nuova la domanda avanzata in sede di precisazione delle conclusioni. è evidente, infatti, che una cosa è chiedere di essere pagati in base ad un accordo a titolo di compenso del lavoro svolto (senza ulteriori specificazioni); un’altra cosa è chiedere il pagamento del 23 per cento della somma riconosciuta al G. a titolo di liquidazione; un’altra cosa ancora, infine, è chiedere il pagamento in base ad un contratto di ripartizione del ricavato della vendita dell’uva (75 per cento a una parte e 25 per cento all’altra). L’unicità del rapporto contrattuale che l’Azienda ricorrente richiama in entrambi i ricorsi non esclude, infatti, la diversità delle causae petendi fondate sulle diverse scritture private, che avrebbero dovuto essere tempestivamente prodotte da parte dell’attrice.
8. In conclusione, quindi, i ricorsi devono essere riuniti per essere entrambi rigettati.
A tale esito segue la condanna dell’Azienda ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
Sussistono inoltre le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
PQM
La Corte riuniti i ricorsi, li rigetta entrambi e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 10.200, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 10 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2021