Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.25387 del 20/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21276/2020 proposto da:

A.M., elettivamente domiciliato in Forlì viale Matteotti 115, presso lo studio dell’avv. Rosaria Tassinari, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (*****), in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BOLOGNA, depositato il 17/06/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 18/06/2021 dal Consigliere Dott. Rita RUSSO.

RILEVATO

Che:

Il ricorrente, cittadino ghanese, ha chiesto la protezione internazionale dichiarando: di aver vissuto in Libia per cinque anni prima di imbarcarsi per l’Italia perché costretto dal suo datore di lavoro; di essere sposato e che la moglie e i figli vivono ancora in Ghana, dove egli lavorava come meccanico; di essere fuggito dal suo paese perché, nell’anno 2012, mettendosi alla guida di una automobile in riparazione per provarla, ha avuto un incidente, distruggendo la vettura; che i proprietari hanno richiesto il risarcimento e alla sua risposta negativa gli hanno comunicato che l’avrebbero portato in tribunale; che pertanto, temendo di essere imprigionato perché privo di patente, si è allontanato dal paese e la moglie gli ha poi riferito che i proprietari della vettura lo hanno cercato a casa, accompagnati da agenti di polizia.

La competente Commissione territoriale ha respinto la richiesta. Il Tribunale di Bologna, adito dal ricorrente, previo rinnovo dell’audizione, ha escluso il profilo di rischio individuale, ritenendo non credibili le sue dichiarazioni per mancanza di dettagli e contraddizioni interne, nonché per la mancanza di riscontri documentali che egli avrebbe potuto procurarsi, avendo mantenuto contatti con i familiari in patria; ha escluso altresì la sussistenza del rischio di violenza indiscriminata derivante dal conflitto di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ed ha escluso, infine, la sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria, in mancanza di condizione di vulnerabilità e di integrazione sociale, poiché il richiedente svolge solo attività di volontariato e saltuaria attività di lavoro.

Avverso il decreto di rigetto pronunciato dal Tribunale ha proposto ricorso per cassazione il richiedente asilo affidandosi a tre motivi. L’Avvocatura dello Stato, non tempestivamente costituita, ha presentato istanza per la partecipazione ad eventuale discussione orale. La causa è stata trattata all’udienza camerale non partecipata del 18 giugno 2021.

RITENUTO

Che:

1.- Con il primo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, per non avere il Tribunale applicato il principio dell’onere della prova attenuato e per non avere valutato la credibilità alla luce dei parametri stabiliti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, nonché il difetto di motivazione.

Il ricorrente afferma che il racconto è lineare e privo di contraddizioni rappresentando una realtà dei fatti del tutto verosimile, supportata dalle fonti internazionali e che egli ha fatto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, e che la mancanza dei riscontri non equivale a insussistenza dei fatti narrati. Il Tribunale non ha considerato che i dubbi solo ipotetici ma tali da non inficiare irrimediabilmente l’attendibilità del racconto non giustificano il rigetto della domanda e che in ogni caso ove vi fossero dubbi il giudicante avrebbe dovuto riconvocare il richiedente e porgli altre domande.

Il motivo è infondato.

1.2- Secondo quanto dispone del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, l’esame della domanda avviene su base individuale e il punto di partenza sono le dichiarazioni rese dal richiedente asilo di cui il giudice è tenuto a vagliare la credibilità, secondo la procedimentalizzazione legale della decisione, utilizzando la griglia predeterminata di criteri offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (v. Cass. 26921/2017, Cass. n. 08282/2013; Cass. n. 24064/2013; Cass. n. 16202/2012) Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, indica quattro principali criteri di valutazione e cioè: a)la coerenza interna, che riguarda le eventuali incongruenze, discrepanze o omissioni presenti nelle dichiarazioni, rilevabili direttamente dal racconto; b) la coerenza esterna, che si si riferisce alla coerenza tra il resoconto del richiedente e prove di altro tipo ottenute dalle autorità competenti, comprese le informazioni sul paese di origine; c) la sufficienza dei dettagli, poiché di regola il dettaglio è indicativo di una vicenda effettivamente vissuta; d) la plausibilità o verosimiglianza, e cioè che si tratti di un fatto possibile, nonché apparentemente ragionevole, verosimile o probabile.

La norma, in deroga all’ordinario principio dispositivo proprio del processo civile, è fondata sul principio di cooperazione, in attuazione della Direttiva 2004/83/CE, ove ancora più esplicitamente è detto (art. 4) che “lo Stato membro è tenuto, in cooperazione con il richiedente, a esaminare tutti gli elementi significativi della domanda”.

Il corretto svolgimento della attività di cooperazione istruttoria presuppone, tuttavia, che tutti i soggetti coinvolti assolvano i propri compiti, posto che anche il richiedente asilo ha il dovere di cooperare per una corretta istruzione della domanda compiendo ogni ragionevole sforzo per motivarla e circostanziarla (art. 13 Direttiva 2013/32/UE e art. Direttiva 2011/95/UE) mentre il compito del giudicante si esplica in termini di integrazione istruttoria (Cass. n. 16411/2019), trattandosi appunto di cooperazione con la parte e non sostituzione ad essa, sicché le relative modalità di svolgimento devono essere improntate a criteri di trasparenza, di modo che la terzietà dell’organo giudicante non ne risulti compromessa (Cass. 29056/2019). Il ricorrente è quindi ad allegare in modo chiaro e completo i fatti costitutivi della pretesa (Cass. n. 11175/2020; Cass. n. 24010/2020). Il giudice non può e non deve supplire ad eventuali carenze delle allegazioni (Cass. n. 2355/2020; Cass. 8819/2020), posto che il ricorrente è l’unico ad essere in possesso delle informazioni relative alla sua storia personale e quindi deve indicare gli elementi relativi all’età, all’estrazione, ai rapporti familiari, ai luoghi in cui ha soggiornato in precedenza, alle domande di asilo eventualmente già presentate (v. CGUE 5 giugno 2014, causa C-146/14; nello stesso senso Cass. 8819/2020).

Ciò premesso si osserva che il Tribunale ha correttamente seguito le regole poste dall’art. 3, comma 5 cit., nella valutazione delle dichiarazioni del ricorrente.

Il Collegio bolognese ha infatti in primo luogo rilevato la mancanza di alcuni dettagli della storia personale di cui il soggetto non poteva non essere a conoscenza, nonché talune contraddizioni e divergenze tra le dichiarazioni rese alla commissione territoriale e le dichiarazioni rese innanzi al Tribunale. Inoltre, la mancanza di documenti è stata ritenuta non giustificata, poiché il dichiarante ha dichiarato che i suoi familiari vivono ancora in Ghana e che la moglie gli aveva riferito di un accesso della polizia a casa sua. Si tratta peraltro di una vicenda che non attiene a ragioni persecutorie, come definite dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, per le quali vi potrebbero essere delle oggettive difficoltà a procurarsi dei documenti ufficiali ma, stando alla storia narrata, di una comune denuncia per danneggiamento e guida senza patente, peraltro con richiesta di risarcimento del danno, che ove effettivamente presentata dovrebbe essere nella disponibilità della parte.

Sono stati quindi correttamente utilizzati i criteri della valutazione dell’attendibilità intrinseca, della sussistenza di sufficienti dettagli e di giustificazioni sull’assenza di elementi di riscontro e, una volta esclusa la credibilità intrinseca della narrazione offerta, non deve procedersi al controllo della credibilità estrinseca (Cass. n. 24575/2020).

Verificato il rispetto dei criteri procedimentali di cui all’art. 3 cit., la valutazione resa costituisce un apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito, non censurabile in sede di legittimità (Cass. n. 14674/2020), tantomeno con la mera apodittica affermazione che la storia è credibile e circostanziata.

Si deve inoltre aggiungere che manca nel motivo di ricorso la allegazione di un profilo di rischio individuale di danno grave, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), meritevole di apprezzamento.

2.- Con il secondo motivo del ricorso si lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), perché il giudice ha richiamato fonti non aggiornate in quanto risalenti al 2017/2018 mentre il sito del MAE (viaggiare sicuri) nonché il Report di Amnesty evidenziano un quadro di insicurezza dell’area interessata da fenomeni di matrice terroristica, nonché violazione dei diritti LGBT e delle donne, abusi da parte della polizia.

Il motivo è infondato.

Il Tribunale ha tratto le informazioni sul paese di origine, (Country of origin information, in acronimo COI) dai Report di affidabili agenzie internazionali che si occupano di diritti umani, quali Amnesty International, Freedom House e dai Report del Dipartimento di Stato degli USA, debitamente citandole e riportando nel provvedimento anche il relativo collegamento ipertestuale. Sono stati analizzati Report degli anni 2016, 2017, ma anche degli anni 2018 e 2019, escludendo la sussistenza di una situazione di violenza generalizzata da conflitto sulla base di una ricerca completa ed anche aggiornata.

Di contro, la nozione di violenza indiscriminata da conflitto armato proposta dal ricorrente non collima affatto con quella rigorosa data dalla CGUE nelle sentenze del 17 febbraio 2009 (Elgafaji, C-465/07) e del 30 gennaio 2014, (Diakite’ C- 285/12), fatta propria anche dalla giurisprudenza di questa Corte.

La determinazione del significato e della portata del concetto di conflitto armato va stabilita sulla base del significato abituale nel linguaggio corrente, prendendo in considerazione il contesto nel quale sono utilizzati e gli obiettivi perseguiti dalla normativa in materia di protezione internazionale (Diakite’, cit. p.27) e quindi “senza che l’intensità degli scontri armati, il livello di organizzazione delle forze armate presenti o la durata del conflitto siano oggetto di una valutazione distinta da quella relativa al livello di violenza che imperversa nel territorio in questione” (Diakite’, cit. p.35).

Ai fini della protezione internazionale il conflitto rileva se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Secondo questo indirizzo ormai consolidato, il grado di violenza indiscriminata deve aver raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 13858/2018, Cass. n. 11103/2019). La Corte Europea ha infatti precisato che tanto più il richiedente è eventualmente in grado di dimostrare di essere colpito in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale, tanto meno elevato sarà il grado di violenza indiscriminata richiesto affinché egli possa beneficiare della protezione sussidiaria (Elgafaji, cit., p. 39). Anche nella recente sentenza del 10 giugno 2021 (causa C-901/19, Bundesrepublik Deutschlandsul) la Corte Europea, se da un lato ha considerato contraria alla direttiva l’applicazione del criterio meramente quantitativo utilizzato dalla giurisprudenza tedesca (numero di vittime) e ribadito la necessità di una valutazione complessiva di tutte le circostanze, ha confermato che deve sussistere un conflitto, e che va considerata la aggressività dei belligeranti verso i civili e la estensione del confitto anche in relazione alla effettiva zona di destinazione.

La violenza indiscriminata derivante da conflitto, intesa in questi termini, è dunque cosa ben diversa dalle limitazioni delle libertà individuali, dalle discriminazioni di genere, dalle tensioni sociali ed economiche, dalla povertà, dalla diffusione della criminalità comune e dal rischio di attacchi terroristici, di cui riferiscono le fonti citate dal ricorrente. Le criticità esposte dal ricorrente potrebbero avere rilievo ai fini della protezione internazionale ove pertinenti ad un rischio individuale specifico, che tuttavia nel caso di specie è da escludersi, per difetto di allegazione di una vicenda individuale attendibile e circostanziata.

3.- Con il terzo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Il ricorrente deduce che il Tribunale non ha compiutamente esaminato la ricorrenza dei requisiti per la protezione umanitaria omettendo di verificare la sussistenza dell’obbligo costituzionale e internazionale di fornire protezione per le persone che fuggono da paesi in cui vi siano sconvolgimenti tali da impedire la vita senza pericoli per la propria incolumità in relazione alle condizioni di violenza diffusa e indiscriminata sussistente nel paese.

Il motivo è inammissibile.

Premesso che il Tribunale ha escluso la sussistenza di violenza indiscriminata da conflitto, che quindi non può invocarsi ai fini della protezione umanitaria, si tratta di censure estremamente generiche non correlate alla vicenda individuale se non nella parte in cui si chiede una revisione del giudizio di fatto operato dal tribunale affermando che il richiedente ha tenuto un comportamento corretto e rispettoso delle norme e svolto attività lavorativa; la circostanza è stata tuttavia considerata e valutata dal Tribunale che ha ritenuto insufficiente integrare gli estremi di un radicamento del ricorrente sul territorio la saltuaria attività lavorativa, senza di condizioni di vulnerabilità e specifici indicatori di necessità di protezione. Del tutto inconferente è poi il richiamo alla sentenza di questa Corte n. 4890/2019 sulla irretroattività delle disposizioni del D.L. n. 113 del 2018, posto che esplicitamente il Tribunale ha fatto riferimento alla disciplina previgente che prevedeva il rilascio di permesso di soggiorno per seri motivi di carattere umanitario non tipizzati o predeterminati dal legislatore.

Ne consegue il rigetto del ricorso. Nulla sulle spese in difetto di regolare costituzione da parte del Ministero.

PQM

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio da remoto, il 18 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2021

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