LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –
Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21295/2020 proposto da:
S.S., elettivamente domiciliato in Forlì viale Matteotti 115, presso lo studio dell’avv. Rosaria Tassinari, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, (*****), in persona del Ministro pro tempore;
– intimato –
avverso il decreto del TRIBUNALE di BOLOGNA, depositata il 22/06/2020;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 18/06/2021 dal Consigliere Dott. Rita RUSSO.
RILEVATO
Che:
Il ricorrente, cittadino bengalese, ha fatto domanda di protezione internazionale dichiarando di essere di religione musulmana, e di essere fuggito dal suo paese perché i suoi zii avevano un dissidio con un uomo ricco del villaggio per alcuni terreni; nel ***** vi è stato uno scontro a seguito del quale è deceduta una persona; il ricorrente è stato denunciato unitamente ai suoi fratelli e agli zii e rischia circa quindici anni di prigione per omicidio volontario, non avendo la disponibilità di denaro per farsi difendere da un avvocato.
La competente Commissione territoriale ha respinto la richiesta. Il Tribunale di Bologna, adito dal ricorrente, previo rinnovo dell’audizione tramite giudice onorario, ha escluso il profilo di rischio individuale, ritenendo non credibili le sue dichiarazioni per mancanza di dettagli e per la presenza di contraddizioni interne, nonché contraddizioni tra le dichiarazioni e la documentazione prodotta; ha escluso altresì la sussistenza del rischio di violenza indiscriminata derivante dal conflitto di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ed ha escluso, infine, la sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria, rilevando che lo studio della lingua italiana e lo svolgimento di attività di lavoro con contratti prorogati non sono da soli sufficienti a integrare fattori di integrazione ostativi al suo rientro in patria dove ha ancora i riferimenti familiari.
Avverso il decreto di rigetto pronunciato dal Tribunale ha proposto ricorso per cassazione il richiedente asilo affidandosi a quattro motivi. L’Avvocatura dello Stato, non tempestivamente costituita ha presentato istanza per la partecipazione ad eventuale discussione orale. La causa è stata trattata all’udienza camerale non partecipata del 18 giugno 2021.
RITENUTO
Che:
1.- Con il primo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 13 del 2017, artt. 1 e 2, convertito in L. n. 46 del 2017, nonché dell’art. 276 c.p.c., per aver mutato l’organo giudicante. Il ricorrente deduce che la discussione del processo, cui era presente il ricorrente personalmente è avvenuta davanti un giudice onorario non facente parte della sezione specializzata mentre la decisione è stata assunta da un Collegio in cui componenti erano diversi dal giudice che ha assistito alla discussione della causa.
Il motivo è infondato.
Il Tribunale di Bologna ha legittimamente delegato l’audizione del richiedente ad un giudice onorario. Sul punto questa Corte si è pronunciata a sezioni unite rilevando che l’assunzione dell’audizione del richiedente asilo rientra tra i compiti delegabili al giudice onorario, né la validità del processo è inficiata dalla circostanza che il giudice onorario, delegato all’attività istruttoria, non faccia poi parte del collegio giudicante (Cass. sez. 5425/2021). Nei procedimenti camerali – qual è quello di cui qui si discute, ai sensi del D.Lgs. n. 13 del 2017, art. 3, comma 4-bis e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 9, citt. – il principio dell’immutabilità del giudice, sancito dall’art. 276 c.p.c., opera con esclusivo riferimento al momento in cui la causa è introitata in decisione, e pertanto non viene violato per il fatto che il Collegio in tale momento abbia una composizione diversa da quella di precedenti fasi processuali e non rileva la circostanza che il giudice che ha proceduto all’attività istruttoria non faccia poi parte del collegio giudicante.
2.- Con il secondo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, per non avere il Tribunale applicato il principio dell’onere della prova attenuato e per non avere valutato la credibilità alla luce dei parametri stabiliti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, nonché il difetto di motivazione.
Il ricorrente afferma che il racconto è lineare e privo di contraddizioni rappresentando una realtà dei fatti del tutto verosimile, supportata dalle fonti internazionali e che non emergono contraddizioni avendo il ricorrente fatto il massimo sforzo per dettagliare i fatti. Deduce che in caso di rientro potrebbe essere incarcerato in condizioni inumane e comunque potrebbe essere perseguitato dagli usurai per non aver provveduto al saldo del debito contratto per il viaggio. Il Tribunale non ha considerato che i dubbi solo ipotetici ma tali da non inficiare irrimediabilmente l’attendibilità del racconto non giustificano il rigetto della domanda e che in ogni caso ove vi fossero dubbi il giudicante avrebbe dovuto riconvocare il richiedente e porgli altre domande; infine aggiunge che la mancanza di riscontri non equivale all’insussistenza dei fatti narrati considerando anche il lungo e traumatico viaggio compiuto.
Il motivo è infondato.
1.2- Secondo quanto dispone del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, l’esame della domanda avviene su base individuale e il punto di partenza sono le dichiarazioni rese dal richiedente asilo di cui il giudice è tenuto a vagliare la credibilità, secondo la procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi secondo la griglia predeterminata di criteri offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (v. Cass. 26921/2017, Cass. n. 08282/2013; Cass. n. 24064/2013; Cass. n. 16202/2012) Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, indica quattro principali criteri di valutazione e cioè: a) la coerenza interna, che riguarda le eventuali incongruenze, discrepanze o omissioni presenti nelle dichiarazioni, rilevabili direttamente dal racconto; b) la coerenza esterna, che si riferisce alla coerenza tra il resoconto del richiedente e prove di altro tipo ottenute dalle autorità competenti, comprese le informazioni sul paese di origine, c) la sufficienza dei dettagli, poiché di regola il dettaglio è indicativo di una vicenda effettivamente vissuta; d) la plausibilità o verosimiglianza, e cioè che si tratti di un fatto possibile, nonché apparentemente ragionevole, verosimile o probabile.
La norma, in deroga all’ordinario principio dispositivo proprio del processo civile, è fondata sul principio di cooperazione, in attuazione della Direttiva 2004/83/CE, ove ancora più esplicitamente è detto (art. 4) che “lo Stato membro è tenuto, in cooperazione con il richiedente, a esaminare tutti gli elementi significativi della domanda”.
Il corretto svolgimento della attività di cooperazione istruttoria presuppone, però, che tutti i soggetti coinvolti assolvano i propri compiti, posto che anche il richiedente asilo ha il dovere di cooperare per una corretta istruzione della domanda compiendo ogni ragionevole sforzo per motivarla e circostanziarla (art. 13 Direttiva 2013/32/UE e art. Direttiva 2011/95/UE) mentre il compito del giudicante si esplica in termini di integrazione istruttoria (Cass. n. 16411/2019), trattandosi appunto di cooperazione con la parte e non sostituzione ad essa, sicché le relative modalità di svolgimento devono essere improntate a criteri di trasparenza, di modo che la terzietà dell’organo giudicante non ne risulti compromessa (Cass. 29056/2019). Il ricorrente è quindi ad allegare in modo chiaro e completo i fatti costitutivi della pretesa (Cass. n. 11175/2020; Cass. n. 24010/2020). Il giudice non può e non deve supplire ad eventuali carenze delle allegazioni (Cass. n. 2355/2020; Cass. 8819/2020), posto che il ricorrente è l’unico ad essere in possesso delle informazioni relative alla sua storia personale e quindi deve indicare gli elementi relativi all’età, all’estrazione, ai rapporti familiari, ai luoghi in cui ha soggiornato in precedenza, alle domande di asilo eventualmente già presentate (v. CGUE 5 giugno 2014, causa C-146/14; nello stesso senso Cass. 8819/2020).
Ciò premesso si osserva che il Tribunale ha correttamente seguito le regole poste dall’art. 3, comma 5 cit., nella valutazione delle dichiarazioni del ricorrente.
Il Collegio bolognese ha rilevato contraddizioni e divergenze tra le dichiarazioni rese alla commissione territoriale e le dichiarazioni rese innanzi al Tribunale; ha evidenziato taluni profili di inverosimiglianza del racconto come il fatto di essere partito in aereo se pur se (asseritamente) ricercato per omicidio e ha esaminato e ritenuto inattendibili i documenti da lui esibiti.
Sono stati quindi correttamente utilizzati i criteri della valutazione dell’attendibilità intrinseca, della carenza di dettagli e di giustificazioni sull’assenza di elementi di riscontro e, una volta esclusa la credibilità intrinseca della narrazione offerta, non deve procedersi al controllo della credibilità estrinseca (Cass. n. 24575/2020).
Verificato il rispetto dei criteri procedimentali di cui all’art. 3 cit., la valutazione resa costituisce un apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito, non censurabile in sede di legittimità (Cass. n. 14674/2020) tantomeno con la mera apodittica affermazione che la storia è credibile e circostanziata.
3.- Con il terzo motivo del ricorso si lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), perché il giudice ha richiamato fonti non aggiornate in quanto risalenti mentre il Report di Amnesty evidenzia un quadro di insicurezza dell’area interessata da violenti scontri politici, sparizioni forzate, arresti arbitrari attacchi mirati contro minoranze religiose, nonché violazione dei diritti LGBT e delle donne, abusi da parte della polizia.
Il motivo è infondato.
Il Tribunale ha tratto le informazioni sul paese di origine, (Country of origin information, in acronimo COI) dai Report di affidabili agenzie internazionali che si occupano di diritti umani, quali EASO, Amnesty International, Human Rights Watch e dai Report del Dipartimento di Stato degli USA, debitamente citandole e riportando nel provvedimento anche il relativo il collegamento ipertestuale. Sono stati analizzati Report dell’anno 2017, ma anche degli anni 2018 e 2019, escludendo la sussistenza di una situazione di violenza generalizzata da conflitto sulla base di una ricerca completa ed anche aggiornata. Di contro, la nozione di violenza indiscriminata da conflitto armato proposta dal ricorrente non collima affatto con quella rigorosa data dalla CGUE nelle sentenze del 17 febbraio 2009 (Elgafaji, C-465/07) e del 30 gennaio 2014, (Diakite’ C- 285/12), fatta propria anche dalla giurisprudenza di questa Corte.
La determinazione del significato e della portata del concetto di conflitto armato va stabilita sulla base del significato abituale nel linguaggio corrente, prendendo in considerazione il contesto nel quale sono utilizzati e gli obiettivi perseguiti dalla normativa in materia di protezione internazionale (Diakite’, cit. p.27) e quindi “senza che l’intensità degli scontri armati, il livello di organizzazione delle forze armate presenti o la durata del conflitto siano oggetto di una valutazione distinta da quella relativa al livello di violenza che imperversa nel territorio in questione” (Diakite’, cit. p.35).
Ai fini della protezione internazionale il conflitto rileva se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Secondo questo indirizzo ormai consolidato, il grado di violenza indiscriminata deve aver raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 13858/2018, Cass. n. 11103/2019). La Corte Europea ha infatti precisato che tanto più il richiedente è eventualmente in grado di dimostrare di essere colpito in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale, tanto meno elevato sarà il grado di violenza indiscriminata richiesto affinché egli possa beneficiare della protezione sussidiaria (Elgafaji, cit., p. 39). Anche nella recente sentenza del 10 giugno 2021 (causa C-901/19, Bundesrepublik Deutschlandsul) la Corte Europea, se da un lato ha considerato contraria alla direttiva l’applicazione del criterio meramente quantitativo utilizzato dalla giurisprudenza tedesca (numero di vittime) e ribadito la necessità di una valutazione complessiva di tutte le circostanze, ha confermato che deve sussistere un conflitto, e che va considerata la aggressività dei belligeranti verso i civili e la estensione del confitto anche in relazione alla effettiva zona di destinazione.
La violenza indiscriminata derivante da conflitto, intesa in questi termini, è dunque cosa ben diversa dalle limitazione delle libertà individuali, dalle discriminazioni di genere, dalle tensioni sociali ed economiche, dalla povertà, dalla diffusione della criminalità comune e dal rischio di attacchi terroristici mirati contro soggetti predeterminati, di cui riferiscono le fonti citate dal ricorrente. Le criticità esposte dal ricorrente potrebbero avere rilievo ai fini della protezione internazionale ove pertinenti ad un rischio individuale specifico, che tuttavia nel caso di specie è da escludersi, per difetto di allegazione di una vicenda individuale attendibile e circostanziata.
4.- Con il quarto motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Il ricorrente deduce che il Tribunale non ha compiutamente esaminato la ricorrenza dei requisiti per la protezione umanitaria omettendo di verificare la sussistenza dell’obbligo costituzionale e internazionale di fornire protezione per le persone che fuggono da paesi in cui vi siano sconvolgimenti tali da impedire la vita senza pericoli per la propria incolumità, in relazione alle condizioni di violenza diffusa e indiscriminata sussistente nel paese.
Il motivo è inammissibile.
Premesso che il Tribunale ha escluso la sussistenza di violenza indiscriminata da conflitto che quindi non può invocarsi ai fini della protezione umanitaria, si tratta di censure estremamente generiche non correlate alla vicenda individuale se non nella parte in cui si chiede una revisione del giudizio di fatto operato dal Tribunale affermando che il richiedente ha tenuto un comportamento corretto e rispettoso delle norme e svolto attività lavorativa; la circostanza è stata tuttavia considerata e valutata dal Tribunale che ha ritenuto insufficiente integrare gli estremi di un radicamento del ricorrente sul territorio la saltuaria attività lavorativa, avendo i suoi legami familiari in patria e in assenza di condizioni di vulnerabilità e specifici indicatori di necessità di protezione. Del tutto inconferente è poi il richiamo alla sentenza di questa Corte n. 4890/2019 sulla irretroattività delle disposizioni del D.L. n. 113 del 2018, posto che esplicitamente il Tribunale ha fatto riferimento alla disciplina previgente, che prevedeva il rilascio di permesso di soggiorno per seri motivi di carattere umanitario non tipizzati o predeterminati dal legislatore.
Ne consegue il rigetto del ricorso.
Nulla sulle spese in difetto di regolare costituzione da parte del Ministero.
PQM
Rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio da remoto, il 18 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2021