LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –
Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –
Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 15534/2015 proposto da:
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati VINCENZO STUMPO, ANTONIETTA CORETTI, VINCENZO TRIOLO;
– ricorrente –
contro
M.O., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 58, presso lo studio degli avvocati BRUNO COSSU, e MARINA CAPPONI, che la rappresentano e difendono;
– controricorrente –
e contro
CONSIGLIERA DI PARITA’ DELLA PROVINCIA DI FIRENZE;
– intimata –
avverso la sentenza n. 184/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 19/03/2015 R.G.N. 283/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/04/2021 dal Consigliere Dott. GABRIELLA MARCHESE;
il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’
Stefano, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
FATTI DI CAUSA
1. Con ricorso proposto dinanzi al Tribunale di Firenze, secondo il rito sommario contro le discriminazioni di genere, del D.Lgs. n. 198 del 2006, ex artt. 36 e 38, M.E. e la Consigliera di parità della provincia di Firenze convenivano in giudizio l’INAIL, quale successore ex lege dell’IPSEMA, al fine di sentire accertare l’illegittimità e la natura discriminatoria del comportamento dell’istituto previdenziale in relazione ai criteri adottati per la liquidazione dell’indennità di maternità erogata alla dipendente, con richiesta di condanna dell’Istituto al pagamento della somma di Euro 11.688,90 o di quella diversa riconosciuta di giustizia; in via subordinata, chiedevano tale importo a titolo di risarcimento del danno patrimoniale subito; parte ricorrente chiedeva, altresì, la condanna dell’Istituto alla rifusione del danno non patrimoniale, da quantificarsi, in via equitativa, in Euro 10.000,00 o nella maggiore o minore somma ritenuta di giustizia.
1.1. In particolare, M.E., dipendente della società Meridiana S.p.A., con la qualifica e le mansioni di assistente di volo addetta a scali nazionali e internazionali, era stata assente per congedo per maternità dal 3.1.2008 al 16.4.2009 e aveva percepito l’indennità di maternità calcolata non sulla base della retribuzione media globale giornaliera, così come stabilito dal D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 22 e 23, ma sulla retribuzione assoggettata a prelievo contributivo e fiscale, conteggiando l’indennità di volo, sia per la parte fissa che per quella variabile, solo nella misura del 50%, così come stabilito dal T.U.I.R. n. 917 del 1986, art. 51.
2. La Corte d’appello di Firenze, pronunciando sull’appello interposto dall’INPS in qualità di successore ex lege dell’INAIL, ha respinto il gravame e confermato la sentenza del Tribunale di Firenze che, in accoglimento del ricorso in opposizione, accertata la discriminatorietà del comportamento dell’ente previdenziale nell’applicare la normativa di determinazione del trattamento di maternità, aveva condannato l’INAIL a corrispondere alla lavoratrice l’indennità di maternità nell’importo richiesto (di Euro 11.688,90).
2.1. Per quanto di rilievo in questa sede, la Corte territoriale ha in primo luogo disatteso le eccezioni di decadenza e prescrizione dell’INAIL in ragione della “natura e dell’oggetto della tutela azionata dalla lavoratrice”. A tale riguardo, ha osservato come la dipendente non avesse esercitato l’azione volta al riconoscimento del diritto alla prestazione previdenziale, ma avesse lamentato l’applicazione ai suoi danni di un trattamento economico, connesso al suo stato di gravidanza, oggettivamente discriminatorio, all’uopo esperendo un’azione non sottoposta a termini decadenziali o prescrizionali.
2.2. La Corte di merito ha, quindi, osservato come l’applicazione, da parte dell’Istituto, della disciplina del D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 22 e 23 (con il riconoscimento dell’indennità di volo solo nella misura del 50%), avesse, in concreto, prodotto una discriminazione, determinando nei confronti della lavoratrice madre, durante l’obbligatorietà dell’astensione lavorativa, un trattamento economico peggiorativo del tutto ingiustificato.
3. Avverso la decisione ha proposto ricorso l’INPS, affidato a due motivi.
3.1. Ha resistito, con controricorso, M.O..
3.2. Il P.M. ha depositato conclusioni scritte ai sensi del D.L. n. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176.
3.3. Il ricorrente INPS e la controricorrente M. hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Si dà preliminarmente atto che per la decisione del presente ricorso, fissato per la trattazione in pubblica udienza, questa Corte ha proceduto in Camera di consiglio, senza l’intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, perché nessuno di essi ha chiesto la trattazione orale.
2. Con il primo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – l’INPS deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 25, comma 2-bis e art. 38 (applicabile ratione temporis) del D.Lgs. n. 198 del 2006, con riferimento alla L. n. 138 del 1943, art. 6, u.c., per avere la Corte territoriale respinto l’eccezione di prescrizione annuale del diritto alla riliquidazione del trattamento di maternità, avendo ritenuto che la lavoratrice non avesse esercitato l’azione di riconoscimento del diritto alla prestazione previdenziale, ma quella (diversa) volta all’accertamento di un trattamento economico, connesso al suo stato di gravidanza, oggettivamente discriminatorio, i cui effetti avrebbero dovuto essere rimossi anche in via di risarcimento del danno.
L’INPS critica la decisione della Corte territoriale ed assume che, seppure qualificata come azione contro la discriminazione, la domanda giudiziale era comunque diretta ad ottenere la riliquidazione della prestazione previdenziale in esame (id est: dell’indennità di maternità) in virtù di una diversa interpretazione della normativa di riferimento, come reso evidente dalle conclusioni del ricorso introduttivo del giudizio e dell’atto di opposizione con cui la lavoratrice aveva chiesto di “(…) ordinare la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti, consistenti nella ricostruzione riliquidazione del trattamento economico di maternità spettante alla ricorrente secondo i, criteri di cui al T.U. n. 151 del 2001 (…)” e che pertanto doveva applicarsi la prescrizione annuale. Sotto diverso profilo, l’INPS assume l’insussistenza, nella fattispecie, di un’ipotesi di discriminazione, avendo l’Ente applicato norme di legge.
3. Con il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, art. 25, commi 1, 2, 2-bis, con riferimento del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, artt. 22 e 23, L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 12, commi 1, 2, 3, 4 e 10, così come sostituito dal D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 314, art. 6, comma 1, art. 51 (già del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 48), nonché degli artt. 1, 12 e 15 preleggi.
L’INPS critica la statuizione della Corte che ha definito discriminatoria l’interpretazione delle norme primarie relative alla determinazione della misura dell’indennità di maternità. Censura il passaggio motivazionale con cui la Corte di appello, in relazione al D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 25, comma 2, ha ritenuto sussistente un comportamento discriminatorio indipendentemente dall’illegittimità dell’atto.
Secondo l’INPS la Corte avrebbe confuso l’ambito operativo delle norme di tutela antidiscriminatoria, non riferibili ai trattamenti previdenziali, e non avrebbe considerato l’applicazione da parte dell’INPS di norme primarie non soggette a disapplicazione da parte di altrettante norme primarie vigenti contro la discriminazione di genere. Per l’INPS, l’interpretazione del combinato disposto del D.Lgs n. 151 del 2011, artt. 22 e 23, fornita dagli altri istituti previdenziali per determinare la misura dell’indennità di maternità da erogare alle assistenti di volo in congedo di maternità, potrebbe essere condivisibile o meno, ma non discriminatoria ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 25.
4. Il primo motivo è fondato.
4.1. E’ opportuno muovere dalla richiesta della lavoratrice.
4.2. Con ricorso proposto ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 36 e art. 38, comma 2, la lavoratrice e la Consigliera di Parità della Provincia di Firenze convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Firenze l’INAIL, quale successore del soppresso IPSEMA, chiedendo di “accertare l’illegittimità e la natura discriminatoria del comportamento dell’Inail (…) ed in specifico i criteri adottati per la liquidazione dell’indennità di maternità (…) ordinare la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti consistenti nella ricostruzione e riliquidazione del trattamento economico di maternità spettante alla ricorrente secondo i criteri di cui al T.U. n. 151 del 2001 (…) condannare l’Istituto convenuto al pagamento in favore della lavoratrice della somma di Euro 11.688,90 o di quella diversa somma conforme a giustizia, per i titoli di cui al presente ricorso, o, in subordine a titolo di risarcimento del danno patrimoniale subito (…) condannare, altresì, l’Istituto convenuto alla rifusione del danno non patrimoniale (…)”.
4.2 Il Tribunale di Firenze, provvedendo ai sensi della L. n. 198 del 2006, art. 38, comma 3, accertata la natura discriminatoria del comportamento dell’INAIL nella determinazione dell’indennità di maternità, ha ordinato all’Ente di cessare detto comportamento e di eliminare gli effetti e, per l’effetto, lo ha condannato al pagamento della somma di Euro 11.688,90 oltre rivalutazione ed interessi come per legge.
4.3. In particolare, il Tribunale ha ritenuto che, ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 23, concorressero a formare la retribuzione (per il calcolo dell’indennità di maternità) gli stessi elementi considerati, dalla normativa di riferimento, per la determinazione dell’indennità di malattia; tuttavia, il richiamo alla disciplina dell’indennità di malattia doveva intendersi riferito esclusivamente alle componenti della retribuzione da prendere in considerazione, a base del calcolo, non anche ai criteri di computo in relazione alle singole voci.
5. La Corte di appello ha respinto il gravame dell’INPS, successore ex lege dall’1.1.2014 (D.L. n. 76 del 2013, convertito in L. n. 99 del 2013) dell’INAIL, e confermato la decisione di primo grado.
5.1. In particolare, la Corte territoriale ha giudicato infondata la questione di prescrizione, eccepita dall’Istituto, per “la natura e l’oggetto della tutela azionata dalla lavoratrice con l’intervento della consigliera di parità”.
6. Il Collegio giudica non corretta la conclusione raggiunta.
7. Il fatto generatore della pretesa azionata in giudizio è identificato dalla lavoratrice nella “discriminazione di genere”, per l’effetto, oggettivo, che la liquidazione dell’indennità di maternità, in base ai criteri seguiti dall’ente previdenziale, ha prodotto nella sua sfera giuridica, di donna lavoratrice, cui è stato attribuito, durante il periodo di gravidanza obbligatorio, un trattamento economico deteriore.
8. A fronte di tale prospettazione, però, il petitum domandato, per rimuovere la situazione di svantaggio, e riconosciuto dai giudici di merito, è stato individuato nella differenza economica, tra quanto erogato a titolo di indennità di maternità dall’ente previdenziale in base a determinate modalità di calcolo, e quanto ritenuto dovuto, in base alla disciplina di legge, secondo diversi criteri di computo.
9. Così stando le cose, deve convenirsi con l’INPS nel ritenere che, a prescindere dal rito intrapreso, il bene della vita rivendicato è esattamente coincidente con quello che la dipendente (recte: un dipendente qualsiasi) avrebbe potuto ottenere intraprendendo un’azione di adempimento dell’obbligazione previdenziale.
10. Questa Corte, sia pure in ambito diverso, ha esaminato una questione analoga in cui veniva in rilievo la domanda, fondata sul principio di non discriminazione, di dipendenti assunti a tempo determinato che avevano richiesto di beneficiare della medesima progressione economica dei lavoratori comparabili ovvero di quelli assunti a tempo indeterminato. Era, dunque, in discussione l’applicazione del termine, decennale o quinquennale, di prescrizione da valutare in relazione alla natura, risarcitoria o retributiva, della proposta azione.
10.2. La Corte, dopo aver ricordato l’efficacia immediatamente precettiva, nell’ordinamento italiano, della clausola 4 dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla Direttiva 1999/70/CE del 18.3.1999 e richiamata a fondamento della domanda, ha osservato come la pretesa che il singolo aveva fatto valere, nel rivendicare le stesse condizioni di impiego previste per il lavoratore comparabile, “partecipa(va) della medesima natura della condizione (id est: del beneficio) al(la) quale l’azione si riferi(va)”.
Pertanto, essendo la denunciata discriminazione relativa a pretese retributive, la domanda con la quale si rivendicava il trattamento ritenuto di miglior favore andava pur sempre qualificata come domanda di adempimento contrattuale, in quanto tale assoggettata alle medesime regole previste per la domanda che l’assunto a tempo indeterminato avrebbe potuto, in ipotesi, azionare qualora quella stessa obbligazione non fosse stata correttamente adempiuta (v. Cass. n. 12443 del 2020, in motiv. p.p. 5 e ss.; seguita, tra le altre, da Cass. n. 12503 del 2020, p.p. 30 e ss., e Cass. n. 15352 del 2020, in motiv., p.p. 23 e ss).
10.3. Come logico corollario ha ritenuto applicabile il termine di prescrizione proprio dell’obbligazione non adempiuta.
11. Nel caso in esame, la denunciata discriminazione è riferita ad un trattamento previdenziale che, in base alle norme di diritto interno (v. Cass. n. 11414 del 2018, Cass. n. 27552 del 2020), è dovuto nell’esatta misura richiesta dalla lavoratrice, come rimedio alla denunciata condizione di svantaggio.
12. Pertanto, mutatis mutandis, la domanda, sia pure fondata sulla discriminazione, resta comunque diretta ad ottenere l’indennità di malattia nella misura di legge, ragion per cui non può che soggiacere alle medesime regole che valgono per l’azione di adempimento di detta prestazione previdenziale.
13. Non deve suggestionare il fatto che, per lo specifico fattore di protezione rappresentato dalla condizione di gravidanza, si è in presenza di una discriminazione diretta, basata sul sesso, in relazione alla quale non viene in rilievo il tertium comparationis (per l’evidente ragione che solo le donne sono in grado di rimanere incinte: v. CGUE, C-177/88, Dekker del 14 Novembre 1989 e CGUE, C-179/88 Hoejesteret dell’8 novembre 1990).
14. La tenuta del principio va infatti valutata comparando la posizione di chi rivendica l’adempimento di trattamenti previdenziali analoghi, seppure con contenuto e funzione parzialmente diversi, ma sottoposti ad altrettanti e precisi regimi prescrizionali e decadenziali (v., per esempio, l’indennità di malattia). Diversamente ragionando, risulterebbe alterata proprio la finalità della tutela contro la discriminazione, finalità che è quella di garantire al soggetto del gruppo sfavorito lo stesso trattamento riservato alle persone della categoria privilegiata, non certo di attribuirgli vantaggi che produrrebbero, a ben vedere, uno squilibrio al contrario.
16. In definitiva, la Corte di appello, seppure nell’ambito del procedimento attivato contro le discriminazioni di genere, avrebbe dovuto esaminare l’eccezione di prescrizione annuale, della L. n. 138 del 1943, ex art. 6, applicabile all’azione di adempimento dell’indennità di malattia: non facendolo, è incorsa nel denunciato errore di diritto.
17. L’eccezione di prescrizione, come risulta dagli atti, debitamente trascritti in ricorso nel rispetto degli oneri di completezza e di specificità imposti dall’art. 366 c.p.c., ed esaminati da questa Corte, era stata sollevata dall’INPS in sede di opposizione al decreto emesso dallo stesso Tribunale D.Lgs. n. 198 del 2006, ex art. 38 e ritualmente riproposta in appello.
18. E’ appena il caso di osservare che il procedimento delineato dal D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 38, ricalcato su quello tracciato dalla L. n. 300 del 1970, art. 28, è articolato in una prima fase, a cognizione sommaria; contro il decreto che la decide è data possibilità di opposizione davanti allo stesso Giudice entro 15 giorni dalla sua comunicazione alle parti, con applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 413 c.p.c. e segg. e con la relativa cognizione piena, che “abilita la parte alla proponibilità di eccezioni non proposte nella precedente fase sommaria” (principio risalente, affermato con riferimento all’art. 28 cit. da Cass. n. 5179 del 1987, Cass. n. 28081994, Cass. n. 3742 del 1995, ma attuale anche in relazione all’art. 38, per la medesima struttura).
19. Dunque, l’eccezione è stata sollevata tempestivamente. Essa e’, altresì, fondata.
19.1. Osserva in proposito il Collegio che sulla decorrenza del termine annuale di prescrizione dell’indennità di maternità (per tutte, v. Cass. n. 24031 del 2017) questa Corte ha più volte affermato il principio, che giova qui ribadire, secondo cui la prescrizione matura di giorno in giorno, risolvendosi in un complesso di diritti a ratei giornalieri, e decorre dal giorno in cui tali ratei sono dovuti, sicché una volta presentata la tempestiva domanda amministrativa, l’obbligo di pagamento dei ratei decorre, per l’Ente previdenziale, dal giorno di maturazione degli stessi (ex multis, Cass. n. 24031 del 2017 cit.), salvo l’effetto sospensivo del relativo decorso predicato dalle Sezioni unite della Corte con la sentenza n. 5572 del 2012, secondo cui in tema di prestazioni di previdenza e assistenza, la prescrizione è sospesa, oltre che durante il tempo di formazione del silenzio rifiuto sulla richiesta all’istituto assicuratore la L. n. 533 del 1973, ex art. 7, anche durante il tempo di formazione del silenzio rigetto sul ricorso amministrativo condizionante la procedibilità della domanda giudiziale ex art. 443 c.p.c., essendo ancora valido il principio di settore, enucleabile dal R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 97 e conforme ai principi costituzionali di equità del processo ed effettività della tutela giurisdizionale, per cui il decorso del termine di prescrizione è sospeso durante il tempo di attesa incolpevole dell’assicurato; ne consegue che la prescrizione del diritto all’indennità di maternità, soggetta al termine annuale, è sospesa per i centoventi giorni di formazione del silenzio rifiuto di cui alla L. n. 533 del 1973, art. 7 e per i centottanta giorni di formazione del silenzio rigetto previsto dalla L. n. 88 del 1989, art. 46.
20. Nel caso di specie, è pacifico che la lavoratrice, a seguito di domande presentate nel gennaio e nel febbraio 2008, abbia goduto dell’indennità di maternità dal 3 gennaio 2008 sino al 29 aprile 2009. Con lettera del 4 aprile 2011, ha contestato all’INAIL, subentrato all’IPSEMA, la misura dell’indennità percepita, in detto periodo, ed ha chiesto il pagamento della differenza, pari ad Euro 11.688,90.
21. L’atto interruttivo della prescrizione del 4 aprile 2011 risulta, dunque, tardivo perché successivo alla maturazione della prescrizione annuale in riferimento a tutti i ratei della percepita indennità.
22. Tanto premesso, si impone l’accoglimento del primo motivo, con conseguente cassazione della pronuncia impugnata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con il rigetto della domanda per intervenuta prescrizione del credito.
23. Resta assorbito il secondo motivo.
24. La novità delle questioni affrontate consiglia di compensare integralmente tra le parti le spese dell’intero processo.
PQM
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta l’originaria domanda.
Compensa le spese dell’intero processo.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2021