Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.25514 del 21/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 34029-2018 proposto da:

S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 23, presso lo studio dell’avvocato CINZIA DE MICHELI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CRISTIANA BACINO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA SALUTE, *****, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 690/2018 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 16/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/03/2021 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI.

RILEVATO

che:

S.M. convenne in giudizio il Ministero della Salute per ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali conseguenti ad epatite HCV correlata contratta a seguito della trasfusione di una unità di plasma che gli era stata praticata presso l’Ospedale *****;

dedusse che il Ministero della Salute aveva riconosciuto la sussistenza del nesso di causalità fra la somministrazione di plasma e la patologia epatica, negando tuttavia l’indennizzabilità, e precisò che l’indennizzo era stato successivamente riconosciuto con sentenza del Giudice del Lavoro di Torino, che aveva condannato la Regione Piemonte al relativo pagamento;

il Ministero della Salute resistette alla richiesta risarcitoria;

il Tribunale di Torino accolse la domanda del S. (rilevando che, benché lo stesso risultasse clinicamente guarito dall’infezione da HCV, residuava un’invalidità del 20%) e, detratto – a titolo di compensatio lucri cum damno – quanto liquidato per indennizzo, riconobbe all’attore un risarcimento di oltre 73.000,00 Euro;

pronunciando sul gravame proposto dal Ministero della Salute, la Corte di Appello di Torino ha riformato la sentenza di primo grado, rigettando la domanda del S. e compensando integralmente le spese di lite;

affrontando il profilo dell'”elemento soggettivo dell’illecito”, la Corte di Appello ha richiamato Cass., S.U. n. 581/2008 e ha osservato, anche sulla scorta della relazione di c.t.u., che:

“le prime evidenziazioni del virus B dell’epatite risalgono al 1965, mentre la disponibilità dei test per evidenziare nel sangue la presenza del virus B (c.d. antigene Australia) risale al *****. L’identificazione del virus C dell’epatite è invece del 1988”;

“”nel *****, epoca della trasfusione di plasma in questione, gli unici dati noti nel campo delle epatiti virali erano dunque che queste infezioni provocavano un aumento delle transaminasi e che forse certe epatiti si accompagnavano a presenza nel sangue dell’antigene Australia. Per quanto riguarda la normativa vigente a tale epoca, occorre fare riferimento a quanto riportato nella circolare del 28.3.1966 n. 50 del Ministero della Sanità, che così si esprimeva: “non si conosce attualmente nessuna prova di laboratorio che permetta di mettere in evidenza con sicurezza tutti i portatori di virus epatico. Tuttavia è da prescrivere la determinazione sistematica e periodica delle transaminasi sieriche dei donatori”. In definitiva “all’epoca della trasfusione in questione (*****) non era possibile l’identificazione nel sangue dei donatori né del virus B né del virus A. Esistevano, nella pratica clinica, dei c.d. markers surrogati, rappresentati in particolare dal dosaggio delle transaminasi plasmatiche””;

tanto premesso e considerata la necessità di “accertare il momento a partire dal quale il Ministero potesse in concreto dare direttive cogenti circa le modalità con cui doveva essere fatto lo screening dei donatori”, la sentenza impugnata ha affermato che, “come già rilevato da questa Corte nell’ambito di analoghe controversie (di cui infra) la scoperta del virus non è elemento sufficiente per ravvisare la colpa per omissione da parte del Ministero, atteso che fino a quando non sono stati messi a punto i test per l’identificazione dei virus sarebbe stato impossibile da parte del Ministero effettuare uno screening dei donatori (onde evitare il contagio) con un certo grado di affidabilità”; ha aggiunto che i test per l’individuazione dell’antigene Australia “erano diventati sufficientemente sensibili (…) e, dunque, affidabili solo dal 1975” e che, pertanto, prima di tale momento “era impossibile effettuare uno screening dei donatori. Ne’ si può imputare (al Ministero) di non aver utilizzato i marcatori surrogati, cioè le transaminasi (in particolar modo ALT), non essendovi ancora negli anni ‘70 studi clinici da cui si evinceva sotto il profilo della probabilità scientifica l’utilità di tali marcatori”;

la Corte ha concluso che “anche in questo procedimento in sede di relazione peritale è stato affermato che la dimostrazione di una correlazione tra elevata correlazione di ALT nel sangue del donatore e sviluppo di epatite post-trasfusionale NANB (non A – non B) nel ricevente è dei primi anni ‘80, con la conseguenza che negli anni ‘70 non vi erano ancora adeguate evidenze scientifiche che potessero dimostrare la correlazione tra transaminasi e danno epatico”; cosicché doveva ritenersi che alla data della trasfusione dedotta in giudizio (anno *****) “non erano ancora disponibili test per l’identificazione del virus e metodiche dotate di un certo grado di affidabilità per poter effettuare uno screening dei donatori (onde evitare il contagio)”; da ciò conseguendo “l’insussistenza dell’elemento soggettivo di cui all’art. 2043”.

Ha proposto ricorso per cassazione il S., affidandosi a tre motivi illustrati da memoria; ha resistito il Ministero con controricorso;

la trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c..

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., degli artt. 40 e 41 c.p., della Circolare n. 50 del 28.3.1966 del Ministero della Sanità e delle L. n. 296 del 1958 e L. n. 592 del 1967;

il S. censura la Corte territoriale per avere “inquadrato il problema della ricostruzione degli elementi idonei a fondare la responsabilità ex art. 2043 c.c. del Ministero, ed in particolare la questione riferita alla conoscenza del virus, esclusivamente nell’ambito dell’accertamento dell’elemento soggettivo, senza prendere previamente in considerazione l’accertamento del nesso causale”; assume, infatti, che l’applicazione del criterio della regolarità causale indicato da Cass., S.U. n. 581/2008 avrebbe consentito di ricavare “anche il criterio per la delimitazione temporale della responsabilità del Ministero, trattandosi di stabilire se, ai fini della regolarità causale, il virus dell’epatite C, il ***** (data della trasfusione somministrata al sig. S.), fosse un evento assolutamente eccezionale ed imprevedibile e quindi estraneo alla regolarità causale”; conclude che, se la Corte di Appello, avesse “compiuto in via preliminare l’accertamento del nesso causale, avrebbe necessariamente dovuto riscontrarne la sussistenza” e “avrebbe potuto e dovuto, quale inevitabile corollario, ritenere sussistente anche l’elemento soggettivo della colpa del Ministero, da ravvisarsi nel fatto che, posto che il Ministero aveva l’obbligo di controllare il sangue utilizzato per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazioni delle transaminasi, (…) l’omissione della condotta, integrando la violazione di un obbligo specifico, integra la colpa (…), spettando poi all’autorità sanitaria l’onere di dimostrare che il sangue utilizzato era stato oggetto di tutti i controlli imposti normativamente”;

il secondo motivo denuncia la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. “sotto altro profilo”, nonché della Circolare n. 50 del 28.3.1966 del Ministero della Sanità e delle L. n. 296 del 1958 e L. n. 592 del 1967 e censura la sentenza “anche laddove la stessa ha affermato l’insussistenza, nel caso di specie, dell’elemento soggettivo della colpa”;

il ricorrente assume che, “se la Corte avesse correttamente interpretato ed applicato (…) l’art. 2043 c.c., tenendo conto dell’elaborazione giurisprudenziale affermatasi in materia, nonché le risultanze della c.t.u. esperita in primo grado, essa avrebbe necessariamente dovuto affermare che già nel dicembre *****, anno in cui veniva praticata la trasfusione al sig. S., era stata scoperta l’esistenza del virus dell’epatite B, era nota la possibilità della sua trasmissione attraverso il sangue ed erano previsti esami che, se effettuati, avrebbero considerevolmente ridotto la diffusione del virus”; invero, prima che venissero messi a punto i test diagnostici specifici, “erano noti metodi alternativi ed indiretti di rilevazione che consentivano di identificare i soggetti da considerare a rischio di trasmissione di malattie virali”; in particolare, sussisteva la possibilità di determinazione delle transaminasi, che costituiva una metodica che era stata prescritta dallo stesso Ministero mediante la Circolare n. 50 del 28.3.1966, par. F; e l’emanazione di tale Circolare comprovava che il pericolo di contagio attraverso le trasfusioni era conosciuto dal Ministero della Sanità già a metà degli anni ‘60, “così come a partire da tale data il medesimo era a conoscenza di metodi di screening che, benché ancora empirici, ove applicati avrebbero consentito di ridurre notevolmente la diffusione del virus”; la colpa del Ministero risultava pertanto “integrata dalla violazione dei comportamenti dovuti di vigilanza e controllo, imposti dalle fonti normative richiamate dalla stessa sentenza impugnata (…), segnatamente, della L. n. 296 del 1958 e della L. n. 592 del 1967, alle quali si aggiunge la fonte normativa regolamentare costituita dalla citata circolare n. 50 del 28.3.1966, par. F”, e ciò “per aver omesso di adottare quelle cautele all’epoca esigibili al fine di scongiurare il pericolo di contrazione del virus per via ematica”;

sostiene il ricorrente che “ha altresì errato la Corte di merito laddove ha affermato che non sarebbe stato possibile imputare al Ministero di non aver fatto riferimento ai valori delle transaminasi, non essendovi ancora, all’epoca dei fatti, la certezza scientifica in merito all’attendibilità dei marcatori”; ciò che rileva e’, infatti, che “all’epoca della trasfusione esistesse la pratica dei c.d. markers surrogati e che tale pratica era stata correttamente prescritta dal Ministero della Sanità mediante la propria Circolare”, cosicché la colpa del Ministero risiede nel “non aver fatto tutto quanto sarebbe stato in suo potere fare, in base alle suindicate conoscenze scientifiche dell’epoca, (…) che avrebbe potuto comportare l’automatica esclusione del sangue non rispondente a determinate caratteristiche”;

col terzo motivo, viene dedotta la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 per avere la Corte di merito “assunto quali argomenti idonei a fondare il proprio convincimento, elementi di prova estranei al procedimento sottoposto al suo esame e provenienti da altri e diversi giudizi completamente estrani a quello intentato dal sig. S.”; in relazione alle affermazioni contenute a pag. 13 della sentenza, il ricorrente evidenzia che le stesse fanno riferimento a risultanze tecniche che “non hanno mai fatto ingresso nel presente giudizio e sono state introdotte arbitrariamente dalla Corte di merito a titolo di scienza privata”;

il primo motivo va rigettato, in quanto basato sull’assunto erroneo che la Corte dovesse previamente esaminare il profilo del nesso causale e che, per tale via, sarebbe pervenuta a ritenere dimostrata la colpa del Ministero;

va considerato, infatti, che:

l’elemento soggettivo integra – al pari della condotta, del nesso causale e del danno – uno degli elementi dell’illecito extracontrattuale, ognuno dei quali necessita di specifico accertamento e di autonoma valutazione, cosicché non può predicarsi che l’accertamento del nesso causale comporti, come naturale corollario, anche l’accertamento dell’elemento soggettivo;

va escluso, per altro verso, che la Corte territoriale fosse tenuta ad accertare previamente l’esistenza del nesso di causa, giacché stante l’autonomia dei due elementi – il giudice poteva esaminare per primo l’elemento soggettivo e, una volta ritenutolo non provato, escludere per tale assorbente ragione la responsabilità del Ministero;

il terzo motivo – che va scrutinato prima del secondo in quanto astrattamente idoneo a condizionarne l’esito – è infondato;

se è vero, infatti, che la Corte di Appello ha richiamato – a pag. 13 – propri precedenti giurisprudenziali che hanno datato all’anno 1975 l’affidabilità dei test per l’identificazione dell’antigene “Australia”, la sentenza ha tuttavia dato atto (a pag. 14) che anche nel presente procedimento era emerso che “negli anni ‘70 non vi erano ancora evidenze scientifiche che potessero dimostrare la correlazione tra transaminasi e danno epatico”, aggiungendo che, comunque, alla data della trasfusione dedotta in giudizio “non erano disponibili test per l’identificazione dei virus e metodiche dotate di un certo grado di affidabilità per poter effettuare uno screening dei donatori (per evitare contagi)”;

deve pertanto escludersi che la Corte abbia utilizzato, ai fini della decisione, elementi desunti da altri procedimenti giacché, pur a fronte del richiamo di propri “precedenti”, il giudice di appello ha ancorato la decisione alla valutazione di quanto emerso nel presente procedimento (segnatamente, in sede di consulenza tecnica d’ufficio);

il secondo motivo risulta, invece, fondato nei termini che seguono;

in linea generale, va rilevato che non risulta corretta l’affermazione della Corte di Appello circa il fatto che la giurisprudenza di legittimità faccia risalire ad epoca non anteriore al 1974 la configurabilità della colpa del Ministero; in senso contrario, va richiamato (ex multis) un recente arresto che ha ritenuto che possa essere ravvisata responsabilità anche per fatti risalenti all’anno 1968, sull’assunto che deve “ribadirsi il principio in base al quale in caso di patologie conseguenti ad infezione da virus HBV, HIV e HCV, contratte a seguito di emotrasfusioni o di somministrazione di emoderivati, sussiste la responsabilità del Ministero della salute anche per le trasfusioni eseguite in epoca anteriore alla conoscenza scientifica di tali virus e all’apprestamento dei relativi test identificativi (risalenti, rispettivamente, agli anni 1978, 1985, 1988), atteso che già dalla fine degli anni ‘60 era noto il rischio di trasmissione di epatite virale ed era possibile la rilevazione (indiretta) dei virus, che della stessa costituiscono evoluzione o mutazione, mediante gli indicatori della funzionalità epatica, gravando pertanto sul Ministero della salute, in adempimento degli obblighi specifici di vigilanza e controllo posti da una pluralità di fonti normative speciali risalenti già all’anno 1958, l’obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni e gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazione della transaminasi (v. Cass., 28/2/2019, n. 5800: Cass., 22/1/2019, n. 1566; Cass., 13/7/2018, n. 18520)” (Cass. n. 8495/2020);

con specifico riferimento al caso in esame, deve poi considerarsi che:

pur dandone atto, la Corte ha sostanzialmente privato di rilevanza la circostanza che la Circolare n. 50 del 1966 prevedesse la determinazione sistematica e periodica delle transaminasi sieriche nei donatori; ha invece valorizzato il fatto che il c.t.u., pur collocando alla metà degli anni ‘50 le prime segnalazioni di un nesso tra transaminasi e danno epatico, abbia evidenziato che la dimostrazione di una correlazione tra elevata concentrazione di ALT nel sangue del donatore e sviluppo di epatite post-trasfusionale NANB (non A – non B) nel ricevente risale ai primi anni ‘80; ha sostenuto, inoltre, che fino a quando non sono stati messi a punto i test per l’individuazione dei virus sarebbe stato impossibile per il Ministero effettuare uno screening dei donatori “con un certo grado di affidabilità”;

con ciò, la Corte ha tuttavia omesso di confrontarsi effettivamente con l’esistenza della prescrizione -contenuta nella circolare del 1966-concernente la determinazione “sistematica e periodica” del livello delle transaminasi nei donatori, che ha introdotto una norma di precauzione che dev’essere necessariamente valutata nell’ambito del giudizio volto ad accertare la colpa del Ministero;

una siffatta valutazione deve precedere quella – logicamente successiva – concernente l'”affidabilità” dello screening, ossia l’idoneità dell’osservanza della norma precauzionale (controllo sistematico e periodico dei valori delle transaminasi nei donatori) ad evitare il contagio; e ciò anche alla luce del dato (emergente sia dalla sentenza che dal ricorso) che, sulla base di studi retrospettivi, è emerso che il controllo sistematico del livello ALT nei donatori era in grado di ridurre la percentuale di epatiti C post trasfusionali soltanto del 30%;

va rimarcato, peraltro, che la valutazione circa l’efficacia che il rispetto della misura precauzionale avrebbe potuto concretamente esplicare in termini di impedimento del contagio esula dal terreno proprio della colpa per ricadere in quello dell’accertamento del nesso di causa fra l’omissione (del controllo sistematico) e l’infezione virale e concerne pertanto un accertamento che la Corte avrebbe dovuto compiere (e che dovrà effettuare in sede di rinvio) soltanto dopo aver accertato la ricorrenza della colpa; non avrebbe invece potuto – se non sovrapponendo erroneamente i piani dell’elemento soggettivo e del nesso di causa e invertendo l’ordine logico delle questioni – desumere senz’altro dalla postulata scarsa affidabilità dello screening (sulle transaminasi del donatore) la conclusione del difetto dell’elemento soggettivo;

la sentenza va pertanto cassata e la Corte di rinvio dovrà procedere a nuovo esame della vicenda alla luce dei principi richiamati e delle considerazioni sopra svolte;

la Corte di rinvio provvederà anche sulle spese di lite.

PQM

La Corte, rigettati gli altri motivi, accoglie il secondo, cassa in relazione e rinvia, anche per le spese di lite, alla Corte di Appello di Torino, in diversa composizione.

Dispone che, in caso di diffusione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati in sentenza.

Così deciso in Roma, il 18 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2021

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