LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIA Lucia – Presidente –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3684/2020 proposto da:
K.M., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ORNELLA FIORE;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Gorizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;
– resistente con mandato –
avverso la sentenza n. 1817/2019 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 12/11/2019 R.G.N. 2176/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 26/05/2021 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI.
RILEVATO
Che:
1. K.M., cittadino Ceceno entrato in Italia illegalmente il 16.6.2014, in data 21.7.2014 avanzò domanda di protezione internazionale, già negatagli in Belgio dove era stata previamente proposta. Dopo un primo diniego da parte della Commissione territoriale, in data 13.4.2015, la Commissione territoriale di Gorizia gli riconobbe il permesso di soggiorno in relazione alla protezione sussidiaria. Successivamente, tuttavia, con provvedimento della Commissione Nazionale per il diritto di Asilo di Roma del 13.4.2016, a lui notificato il successivo 27 maggio, tale permesso era revocato ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 18, comma 1, lett. a) e art. 16, comma 1, lett. d) e ss.mm., in relazione ad accertati indicatori di pericolosità per la sicurezza dello Stato essendo il suo nome comparso nel corso di monitoraggi mirati di realtà del radicalismo islamico.
2. Il Tribunale di Torino – investito dal ricorso del K. con il quale era chiesto il riconoscimento della protezione sussidiaria o umanitaria in relazione al pericolo per la sua incolumità fisica in caso di rientro nel paese di provenienza – riconosceva il diritto del richiedente alla protezione sussidiaria evidenziando che il parere della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione non era vincolante e che da un canto era credibile e fondato il rischio di persecuzione e di un danno grave denunciato, dall’altro non vi era alcuna prova, ma solo meri indizi, della pericolosità del richiedente sicché non sussistevano i presupposti per la revoca della protezione sussidiaria.
3. La Corte di appello di Torino, investita del gravame da parte del Ministero dell’Interno, all’esito di un’istruttoria anche officiosa accoglieva il ricorso osservando che dalla documentazione raccolta già in sede amministrativa era risultata confermata la pericolosità del K. e che la Commissione Nazionale per il diritto d’Asilo non poteva che adeguarsi a tali accertamenti. Inoltre riteneva che gli ulteriori documenti acquisiti avevano confermato i rapporti con soggetti coinvolti in azioni di reclutamento di volontari da istradare in Siria o comunque vicini all’integralismo islamico. Il giudice di appello escludeva che avesse qualsiasi rilevanza la circostanza che con sentenza n. 27692 del 2018 era stato dichiarato nullo dalla Cassazione il provvedimento del Questore che – a fronte dell’intervenuta sospensione dell’efficacia esecutiva del decreto di espulsione richiesta all’Italia dalla Corte Edu quale misura provvisoria ex art. 39 del regolamento, in virtù del principio del “non refoulement” – aveva revocato la misura del trattenimento disposta in esecuzione dell’espulsione del K. e tuttavia, ritenendo sussistenti esigenze primarie di pubblica sicurezza, aveva disposto l’applicazione delle misure alternative. Osservava infatti che la sentenza della Cassazione atteneva alla diversa procedura dell’allontanamento dal territorio nazionale e non scrutinava le ragioni poste a fondamento della revoca della protezione sussidiaria. Allo stesso modo poi riteneva irrilevante la sentenza della CEDU dell’8.2.2018, resa nel procedimento n. 31031 del 2016, poiché in quella sede non si discuteva della possibilità di rimpatrio ma piuttosto del diritto alla protezione sussidiaria. Infine la Corte torinese riteneva insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, domandata in via subordinata dal K., evidenziando che non ne sussistevano i presupposti atteso che gli elementi di rischio denunciati non erano risultati confermati ove si consideri che proprio la polizia Cecena, accertata l’estraneità del K. agli eventi che avevano indotto i militari a fermarlo, ne aveva disposto la liberazione e questi si era trattenuto in patria ancora a lungo con la famiglia senza alcun pericolo per la sua libertà e se ne era allontanato solo dopo molti anni per ragioni che non attenevano alla sua libertà personale o alla sua sicurezza.
4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso K.M. affidato a sei motivi. Il Ministero dell’Interno ha depositato memoria tardiva di costituzione al solo fine di partecipare all’udienza di discussione della causa.
CONSIDERATO
Che:
5. Il primo motivo di ricorso, con il quale è denunciata la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 158 c.p.c. e art. 106 Cost., comma 2, a fronte della presenza di un giudice ausiliario nel Collegio giudicante e si denuncia l’illegittimità costituzionale della L. n. 98 del 2013, artt. 62-72, in riferimento all’art. 106 Cost., comma 2, è prima ancora che infondato inammissibile poiché è diretto unicamente a prospettare una questione di legittimità costituzionale di una norma non potendo essere configurato a riguardo un vizio del provvedimento impugnato idoneo a determinarne l’annullamento da parte della Corte. Va ribadito infatti che è riservata al potere decisorio del giudice la facoltà di sollevare o meno la questione dinanzi alla Corte costituzionale ben potendo la stessa essere sempre proposta, o riproposta, dall’interessato, oltre che prospettata d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, purché essa risulti rilevante, oltre che non manifestamente infondata, in connessione con la decisione di questioni sostanziali o processuali ritualmente dedotte nel processo (cfr. Cass. 09/07/2020 n. 14666 e 26/11/2019n. 30738). In ogni caso va rilevato che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 41 del 2021 pur dichiarando “costituzionalmente illegittimi, per violazione dell’art. 106 Cost., commi 1 e 2, D.L. n. 69 del 2013, artt. 62,63,64,65,66,67,68,69,70,71 e 72, conv., con modif., in L. n. 98 del 2013, nella parte in cui non prevedono che essi si applichino fino a quando non sarà completato il riordino del ruolo e delle funzioni della magistratura onoraria nei tempi stabiliti dal D.Lgs. n. 116 del 2017, art. 32” tuttavia ha ritenuto necessario che affinché “la declaratoria di illegittimità lasci al legislatore un sufficiente lasso di tempo che assicuri la necessaria gradualità nella completa attuazione della normativa costituzionale (…) la reductio ad legitimitatem può farsi con la sperimentata tecnica della pronuncia additiva, inserendo nella normativa censurata un termine finale entro (e non oltre) il quale il legislatore è chiamato a intervenire” e dunque trattandosi di “una riforma in progress della magistratura onoraria (D.Lgs. n. 116 del 2017), la cui completa entrata in vigore è già differita per vari aspetti al 31 ottobre 2025 (art. 32 di tale D.Lgs.) e che è attualmente oggetto di iniziative di ulteriore riforma all’esame del Parlamento” ha ritenuto che fosse riconosciuta “alla disciplina censurata – per l’incidenza dei concorrenti valori di rango costituzionale – una temporanea tollerabilità costituzionale”. Pertanto si è ritenuto che “l’esercizio – da parte di un magistrato onorario, seppur in via eccezionale e transitoria – di attività giurisdizionale collegiale è compatibile con la prescrizione dell’art. 106 Cost., comma 2, nei limiti in cui lo svolgimento delle funzioni collegiali avvenga in via eccezionale e temporanea, dovendosi trattare pur sempre di un’assegnazione precaria e occasionale, riferita a singole udienze o singoli processi (n.d.r. come nel caso in esame), al fine di scongiurare il rischio dell’emergere di una nuova categoria di magistrati.” (cfr. Corte Cost n. 41 del 2021 cit.). E stato osservato, infatti, che “in generale, a fronte della violazione dei parametri evocati nel sindacato di legittimità costituzionale, è possibile che sussistano altri valori costituzionali di pari – e finanche superiore – livello, i quali risulterebbero in sofferenza ove gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale risalissero (retroattivamente, come di regola) fin dalla data di efficacia della norma oggetto della pronuncia. Il bilanciamento di questi valori è stato operato dalla Corte costituzionale in varie pronunce, anche eccezionalmente modulando nel tempo gli effetti della decisione; possibilità questa non preclusa dall’eventualità che, in un giudizio incidentale, una dichiarazione di illegittimità costituzionale, la quale di ciò tenga conto, risulti non essere utile, in concreto, alle parti nel processo principale, atteso che la rilevanza della questione va valutata, al fine della sua ammissibilità, al momento dell’ordinanza di rimessione (Precedenti citati: sentenze n. 152 del 2020, n. 246 del 2019, n. 10 del 2015, n. 13 del 2004, n. 50 del 1989, n. 266 del 1988 e n. 156 del 1963)”.
6. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 18, comma 1, lett. a) e art. 16, comma 1, lett. d), con riguardo al carattere vincolante attribuito al parere espresso dalla Direzione Centrale di Polizia e Prevenzione in tema di pericolosità ed alla conseguente revoca della protezione sussidiaria. Inoltre, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per essere nulla la sentenza fondata sul detto parere ritenuto vincolante trattandosi nella sostanza di una motivazione apparente e perciò in contrasto con l’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Sostiene il ricorrente che quelle provenienti dalla Direzione Centrale della Polizia sono informazioni che comunque devono essere sottoposte a verifica per accertare se effettivamente sono sintomatiche di pericolo ed il pericolo va desunto da un comportamento che integri una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare interessi fondamentali della società/stato membro.
7. Con il terzo motivo di ricorso il K. denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 16, comma 1, lett. d), con specifico riguardo al significato da attribuire al pericolo per la sicurezza dello stato che legittima la revoca della protezione sussidiaria. Nel richiamare la giurisprudenza della Corte di giustizia con riguardo alle diverse ipotesi legittimanti l’esclusione o la revoca della protezione il ricorrente rammenta che ciò che è necessario è che i comportamenti siano effettivamente riconducibili all’interessato. Deduce al riguardo che nel caso in esame non si è chiarito a quale organizzazione dell’Islam radicale il K. si sarebbe avvicinato e quali comportamenti in concreto gli sarebbero addebitabili. Sottolinea inoltre che tali elementi di fatto decisivi non sarebbero neppure evincibili dalla documentazione prodotta dalla P.G. comunque riferita ad un periodo risalente rispetto alla decisione poiché antecedente il 2017.
8. Con il quarto motivo di ricorso viene denunciata in relazione all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, la nullità della sentenza per la carenza assoluta della motivazione caratterizzata da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili derivante dal confronto tra le richieste di integrazione istruttoria, ritenute necessarie dalla Corte di merito e riportate in sentenza ed il mancato adempimento delle stesse da parte dell’amministrazione appellata che ne era onerata, e dall’impiego di circostanze di fatto che non erano state avvalorate dai detti approfondimento istruttori.
9. Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 116 c.p.c., per avere la Corte di merito attribuito valore di piena prova a elementi che avrebbero dovuto essere oggetto di valutazione critica. Dell’art. 115 c.p.c., comma 2, per non aver invece posto a fondamento della decisione elementi di fatto che rientrano nella comune esperienza; dell’art. 115 c.p.c., comma 1, per utilizzato, infine, prove che non erano state dedotte dalle parti. In sostanza si duole che gli elementi di fatto allegati dal Ministero dell’Interno erano stati posti a sostegno del giudizio di pericolosità senza sottoporli a verifica né ad alcun vaglio critico sebbene anche la Corte di Giustizia abbia ripetutamente affermato che tale giudizio deve essere corroborato da informazioni aggiornate al momento dell’adozione della decisione di revoca e deve avere riguardo a comportamenti ed azioni attribuibili direttamente all’interessato.
10. L’ultimo motivo di ricorso, infine, ha ad oggetto la protezione umanitaria e viene denunciata la violazione dell’art. 115 c.p.c., per non essere stati valutati fatti che non erano stati contestati dalle parti costituite; del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma, art. 6 e art. 16, comma 1, per avere la Corte di merito violato i criteri di legge per la concessione della protezione umanitaria; D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3 e art. 5, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, commi 2 e 3 e art. 27, comma 1 bis, D.P.R. n. 21 del 2015, art. 6, comma 6, con riguardo alla violazione dei doveri di cooperazione istruttoria che incombono sul giudicante per accertare l’esistenza di un rischio di essere assoggettato a tortura e trattamenti degradanti nel caso di rientro in patria. Sostiene, infatti, il ricorrente che la situazione descritta nel racconto non era stata contestata e che dunque nulla doveva essere da lui provato con riguardo all’esistenza dei presupposti di fatto posti a fondamento della domanda di protezione umanitaria avanzata. Inoltre sottolinea che la Corte avrebbe comunque dovuto fondare la sua decisione su valutazioni oggettive dei fatti dedotti e non filtrarli attraverso considerazioni del tutto soggettive, come invece ha fatto.
11. Le cinque censure possono essere esaminate congiuntamente e devono essere accolte nei termini di seguito esposti.
11.1. Rileva il Collegio che nel caso in esame l’odierno ricorrente, già ritenuto meritevole della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), si è visto revocare il suo status ai sensi dell’art. 18, lett. a) dello stesso D.Lgs. sul rilievo che successivamente era stata accertata l’esistenza di una causa di esclusione tra quelle previste dal Decreto 251 del 2007, art. 16 e, nello specifico, per costituire un pericolo per la sicurezza dello Stato o per l’ordine e la sicurezza pubblica (del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 16 comma 1 lett. d)). Ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 20, comma 2, costituisce motivo di ordine pubblico o di pubblica sicurezza “una minaccia concreta e attuale tale da pregiudicare l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica” e tale non e’, di per sé, neppure l’esistenza di condanne penali (cfr. Cass. 12/01/2018 n. 701, 07/06/2017n. 14159 quest’ultima con riguardo all’irrilevanza ai fini del procedimento di espulsione dello straniero della commissione di reati pur gravi ma comuni che non siano rivelatori dello specifico indice di pericolosità sociale quale condizione ostativa al rilascio del permesso di soggiorno). La Commissione Nazionale per il diritto di Asilo, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 5, è competente in materia di revoca e cessazione dello status di protezione internazionale riconosciuta nelle ipotesi previste dal D.Lgs. n. 251 del 2007. Istituzionalmente le è demandato perciò l’accertamento delle condizioni sulle quali fondare il provvedimento di revoca.
11.2. Una volta contestata con ricorso l’esistenza delle dette condizioni e quando, come nella specie, si ribadisca l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione già accordata in via amministrativa al giudice del merito è demandato l’accertamento dei presupposti per l’esclusione dalla protezione sussidiaria richiesta attraverso la verifica in concreto, e non sulla base di una mera prospettazione, dell’esistenza della causa ostativa al riconoscimento dello “status” di rifugiato e della protezione sussidiaria oltre che della persistenza delle ragioni poste a fondamento della richiesta di protezione sussidiaria e umanitaria. In tale contesto, perciò, il giudice territoriale è tenuto a verificare, anche previo utilizzo dei poteri di accertamento ufficiosi di cui del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, sulla base di quali elementi ritenga accertata la pericolosità del soggetto richiedente asilo al quale la già concessa protezione deve essere revocata e tale accertamento deve essere all’evidenza caratterizzato da una sua attualità rispetto al momento in cui il provvedimento viene revocato. L’onere della prova grava sull’amministrazione che revoca la protezione già accordata ed, in tale contesto, le note provenienti dalla Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione sono atti di parte che, se contestati nel loro contenuto, hanno valore indiziario e devono essere confortati da ulteriori elementi di riscontro perché si possa ritenere integrato il requisito della pericolosità per la sicurezza dello Stato nei termini sopra indicati di minaccia concreta ed attuale all’ordine ed alla sicurezza pubblica. A ciò si aggiunga che, anche sulla base dell’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con riguardo alle condizioni per l’esclusione dello status di rifugiato ai sensi dell’art. 12 paragrafo 2 lett. c) della direttiva 2004/83, è necessario che lo Stato membro proceda alla valutazione di fatti precisi per verificare che sussistono quei fondati motivi per ritenere che gli atti commessi rientrano nei casi di esclusione dalla concessione (cfr. CGUE sentenza 09/11/2010 n. 111 in particolare i punti da 87 a 94).
11.3. Tanto premesso, nel caso in esame la Corte territoriale, consapevole della necessità di verificare in concreto le informazioni sulla base delle quali l’autorità amministrativa aveva proceduto alla revoca della protezione già accordata, pur avendo sollecitato ripetutamente ed inutilmente il deposito di documentazione fotografica per riscontrare l’effettiva contiguità del K. con persone appartenenti a gruppi fondamentalisti, degli stessi accertamenti della Polizia di prevenzione dai quali evincere la vicinanza con soggetti espulsi perché sospettati di adesione alla Jihad islamica e all’Isis e delle stesse dichiarazioni rese dal K. nel corso del controllo di Polizia del 2016, ha poi fondato il suo convincimento sulla base dei rapporti della DIGOS di Torino elaborati sì nel 2019 ma con riguardo ad informazioni e note risalenti all’anno 2016 e privi di più recenti riscontri che confermino non solo l’esistenza di contatti con esponenti ritenuti contigui a gruppi fondamentalisti ma anche l’attualità della situazione affidando la valutazione di pericolosità del soggetto alla circostanza che questi abbia dichiarato di aver frequentato la Moschea “*****” per beneficiare della rete di assistenza e della solidarietà materiale offertagli.
11.4. E’ del tutto mancato uno specifico approfondimento sul tipo di rapporti intrattenuti dal K., di cui non risulta essere stato accertato alcun comportamento contra legem, con questi soggetti sospetti di contiguità con movimenti integralisti di cui, peraltro, non è specificata l’identità.
11.5. Peraltro, e sotto altro profilo, la Corte di merito trascura di considerare l’esistenza dei concreti profili di pericolosità per i diritti umani del richiedente in caso di rientro in patria e soprattutto omette ogni accertamento officiosamente dovuto per verificare la situazione attuale della Cecenia con riguardo a posizioni sovrapponibili a quella narrata dall’odierno richiedente ed ai rischi concreti ed attuali della perpetrazione da parte dell’esercito di trattamenti di tortura nei confronti dei dissidenti ceceni. Come è noto, infatti, “nei giudizi aventi ad oggetto domande di protezione internazionale e di accertamento del diritto al permesso per motivi umanitari, la verifica delle condizioni socio politiche del paese di origine non può fondarsi su informazioni risalenti ma deve essere svolta, anche mediante integrazione istruttoria ufficiosa, all’attualità” (cfr. Cass. 12/11/2018 n. 28990 e 28/06/2018n. 17075).
12. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere accolto e la sentenza cassata rinviata alla Corte di appello di Torino che, in diversa composizione, si atterrà ai principi sopra indicati e provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso. Accoglie gli altri nei sensi di cui in motivazione. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di appello di Torino in diversa composizione che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 26 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2021
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