LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – Presidente –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14587/2020 R.G. proposto da:
A.E., rappresentato e difeso dall’Avv. Fedeli Bruno, con domicilio eletto in Roma, via L. Pirandello, n. 67/a, presso lo studio dell’Avv. Belmonte Sabrina;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– intimato –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 796/20 depositata il 24 marzo 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 giugno 2021 dal Consigliere Mercolino Guido.
FATTO E DIRITTO
Rilevato che A.E., cittadino della Nigeria, ha proposto ricorso per cassazione, per due motivi, avverso la sentenza del 24 marzo 2020, con cui la Corte d’appello di Milano ha rigettato il gravame da lui interposto avverso l’ordinanza emessa il 10 ottobre 2017 dal Tribunale di Milano, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dal ricorrente;
che il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale.
Considerato che è inammissibile la costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale, dal momento che nel procedimento in camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione il concorso delle parti alla fase decisoria deve realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale postula che l’intimato si costituisca mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835);
che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, comma 1, lett. g), artt. 3 e 14, della direttiva 2004/83/CE, art. 4, par. 3, lett. d), e della direttiva 2005/85/CE, art. 13, par. 3, lett. a), censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, in virtù della ritenuta inattendibilità della vicenda personale allegata a sostegno della domanda e dell’esclusione della sua esposizione al rischio di un grave danno in caso di rimpatrio, nonché dell’insussistenza di una situazione di violenza indiscriminata nella sua regione di provenienza, senza tener conto della situazione generale d’instabilità politica, insicurezza e violenza diffusa esistente in Nigeria, attestata da accreditate fonti internazionali e dalla giurisprudenza di merito, dalle quali emerge anche l’incapacità delle autorità statali di fornire adeguata protezione;
che il motivo è infondato;
che, in tema di protezione sussidiaria, il giudizio negativo in ordine alla credibilità soggettiva del richiedente, espresso in conformità dei criteri stabiliti dal del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e rimasto nella specie incensurato, deve ritenersi di per sé sufficiente a dispensare il giudice dal compimento di approfondimenti officiosi in ordine alla situazione del Paese di origine, ai fini dell’accertamento delle fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), non trovando applicazione in tal caso il dovere di cooperazione istruttoria previsto dal D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, il quale non opera laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quanto meno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. tra le altre, Cass., Sez. II, 11/08/2020, n. 16925; Cass., Sez. I, 12/06/2019, n. 15794; Cass., Sez. VI, 27/06/2018, n. 16925);
che, ai fini dell’esclusione della configurabilità di una situazione di violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato interno, la sentenza impugnata ha invece richiamato informazioni fornite da fonti internazionali autorevoli ed aggiornate, puntualmente indicate in motivazione (rapporto di Amnesty International relativo agli anni 20:1L6/2017, rapporto Easo Coi relativo agli anni 2017/2018), dalle quali ha desunto che il rischio di attacchi terroristici di matrice islamica resta circoscritto all’area centrale e nordorien-tale della Nigeria, mentre nella regione di provenienza del ricorrente (Edo State) si registrano soltanto attività criminali;
che, nel censurare il predetto apprezzamento, il ricorrente invoca il rapporto di Amnesty International relativo agli anni 2017/2018, dalla cui trascrizione non si evincono tuttavia elementi di fatto diversi da quelli presi in considerazione del decreto impugnato, riferendosi anch’esso ad episodi di violenza verificatisi nell’area nordorientale del Paese, e quindi inidonei a dimostrare l’esistenza di una situazione di violenza indiscriminata nell’area meridionale;
che inappropriato deve ritenersi anche il richiamo a sentenze di merito riguardanti cittadini nigeriani ai quali, diversamente da quanto accaduto nel caso in esame, è stata riconosciuta la protezione sussidiaria, dal momento che, avuto riguardo al carattere non vincolante dei precedenti giurisprudenziali nel nostro ordinamento, i motivi della decisione in tanto possono considerarsi viziati, in quanto risultino di per sé erronei, in fatto o in diritto, in relazione alla fattispecie concreta, e non in quanto si pongano eventualmente in contrasto con quelli addotti in decisioni riguardanti altre fattispecie analoghe, simili o addirittura identiche (cfr. Cass., Sez. II, 26/06/2017, n. 15846; Cass., Sez. lav., 17/03/1980, n. 1772);
che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. 28 gennaio 2008, art. 32, comma 3, e del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, sostenendo che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, Va sentenza impugnata ha aprioristicamente escluso la sussistenza di una condizione di vulnerabilità personale, senza tener conto delle gravi violazioni dei diritti fondamentali cui egli resterebbe esposto in caso di rimpatrio, a causa della sua omosessualità, nonché del significativo percorso d’integrazione da lui avviato in Italia, ed in particolare dell’avvenuta instaurazione di un rapporto di lavoro;
che il motivo è infondato;
che la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria, pur comportando che il rigetto della relativa domanda non possa conseguire automaticamente a quelle delle domande di riconoscimento delle altre forme di protezione c.d. maggiori, ma debba costituire il frutto di una valutazione autonoma, avente ad oggetto la sussistenza dei relativi presupposti, non esclude infatti la possibilità di tener conto, anche a tal fine, del giudizio d’inattendibilità espresso in ordine alle dichiarazioni rese dal richiedente, ove a sostegno della domanda di applicazione della misura in esame non siano stati allegati fatti diversi ed ulteriori, ma gli stessi fatti dedotti a sostegno delle altre domande (cfr. Cass., Sez. I, 24/12/2020, n. 29624);
che nella specie, pertanto, la ritenuta inattendibilità della vicenda personale allegata a sostegno della domanda deve ritenersi sufficiente a giustificare l’omessa valutazione della condizione di omosessuale del ricorrente ai fini della concessione della protezione umanitaria, essendo stata la predetta condizione fatta valere sia quale motivo di persecuzione o di esposizione al rischio di trattamenti inumani o degradanti, a sostegno delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, che quale condizione di particolare vulnerabilità, e quindi come fatto costitutivo del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari;
che, ai fini dell’accertamento del livello d’integrazione sociale ed economica raggiunto dal ricorrente in Italia, la sentenza impugnata non ha affatto omesso di valutare la sua situazione occupazionale, avendo dato espressamente atto del rapporto di lavoro da lui instaurato, ma avendo ritenuto insufficiente la documentazione prodotta, in quanto risalente all’anno 2017, ed avendo reputato generiche le dichiarazioni relative alla sua attuale occupazione;
che il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo all’irrituale costituzione dell’intimato.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 15 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2021