LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –
Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 15151/2015 proposto da:
C.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CASSIA 175, presso lo studio dell’avvocato SERAFINO CONFORTI, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
CITTA’ METROPOLITANA DI BARI, già PROVINCIA DI BARI, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PREFETTI 17, presso lo studio dell’avvocato CARLO PANDISCIA, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2399/2014 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 10/12/2014 R.G.N. 5248/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/03/2021 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;
il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte d’Appello di Bari, con la sentenza n. 2399 del 2014, ha rigettato l’appello proposto da C.D. nei confronti della Provincia di Bari, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Bari.
2. Con il ricorso introduttivo del giudizio il lavoratore, già dipendente della Provincia di Bari ed in stato di quiescenza dal 20 gennaio 2020, aveva dedotto quanto segue.
Esso ricorrente aveva convenuto la Provincia di Bari dinanzi al TAR.
In detta sede aveva chiesto l’annullamento del provvedimento di esclusione dal concorso interno bandito per la copertura di 3 posti di segretario economo di 7a q.f..
Nel frattempo, la Provincia di Bari aveva espletato detto concorso interno, che era stato vinto dall’unica candidata partecipante, la quale veniva inquadrata nella 7a q.f. dal 1 agosto 1988.
Il giudice amministrativo, con ordinanza del 6 luglio 1988, accoglieva l’istanza di tutela cautelare del ricorrente; ciò portava l’Amministrazione provinciale a riaprire la procedura e ad ammettere il C..
Il ricorrente risultava vincitore e veniva inquadrato nella 7a q.f. sotto condizione risolutiva costituita dall’esito del giudizio amministrativo. Quest’ultimo terminava con l’annullamento del provvedimento impugnato, e ciò rendeva definitiva l’acquisizione di detta qualifica.
Assumeva il lavoratore che illegittimamente il raggiungimento del nuovo livello veniva disposto a far data dal 28 agosto 1989 e non dal 1 agosto 1988, ovverosia non equiparandolo cronologicamente alla precedente vincitrice del concorso.
Pertanto, al fine di ottenere la corretta ricostruzione del proprio percorso lavorativo, aveva promosso tentativo di conciliazione, conclusosi apparentemente con bonaria composizione.
Veniva così stabilito: l’inquadramento del C., ai soli fini giuridici nella 7a q.f., a far tempo dal 1 agosto 1988, e nel livello LED dal 15 gennaio 1992; la rinuncia del lavoratore alla corresponsione degli importi a titolo di differenze economiche, nonché di ogni altra pretesa risarcitoria.
Prospettava di aver rinunciato a quanto gli spettava da un punto di vista economico per il solo arco temporale compreso tra il 1 agosto 1988 ed il 28 agosto 1989, periodo per il quale gli era stato corrisposto il trattamento economico da 6 livello, anziché da 7a, ma di non aver rinunciato alla ricostruzione della propria carriera in modo speculare a quella della collega, prima, e di altri 92 colleghi, dopo. In particolare, non aveva rinunciato a tutti quei vantaggi e a quelle chances, che concessi nel corso delle rispettive carriere agli altri dipendenti della Provincia, non erano invece stati concessi ad esso ricorrente non per sua colpa ma per le mancanze dell’Amministrazione.
L’Ente locale, nonostante ciò con determinazione n. 134 del 2002 non aveva dato seguito all’impegno assunto, non rispettando i criteri dell’accordo, di talché il lavoratore si era visto attribuire all’atto del collocamento a riposo una diversa e deteriore posizione economica (D3 anziché D5), che comportava una pensione ridotta rispetto ai 92 colleghi che avevano uguale mansioni ed anzianità.
La determinazione dell’Amministrazione non aveva tenuto conto delle deliberazioni del Consiglio e della Giunta provinciale con le quali, nel provvedere alla razionalizzazione della struttura organizzativa ed organica dell’ente locale, si stabiliva, tra l’altro, che tutto il personale in possesso della 7a q.f. da almeno tre anni avrebbe avuto accesso alla 8a q.f., previa frequenza di un semplice corso di aggiornamento, frequenza concessa ai suddetti 92 dipendenti, mentre la mancata frequenza del corso da parte del C. era scaturita dal censurabile comportamento del datore di lavoro.
2.1. Pertanto il lavoratore aveva agito in giudizio chiedendo il riconoscimento del diritto all’inquadramento e alla progressione di carriera in modo speculare e non deteriore rispetto a quella della collega, iniziale unica partecipante al concorso interno, fino al 1992, e da questa data in poi, a quella dei 92 dipendenti che avevano ottenuto l’inquadramento nella 8a q.f. grazie alla partecipazione al corso di aggiornamento. Chiedeva, altresì, la condanna dell’Amministrazione al pagamento della somma di Euro 55,000,00 complessivi a titolo di arretrati, oltre accessori, nonché la condanna dell’Amministrazione alla regolarizzazione previdenziale e al risarcimento dei danni che aveva patito, a causa del comportamento della stessa, danni da valutarsi in via equitativa.
3. Il Tribunale rigettava la domanda atteso che, con l’accordo di conciliazione sottoscritto il 25 maggio 2002, il lavoratore aveva esplicitamente e senza alcuna riserva accettato l’inquadramento nella 7a q.f. ai soli fini giuridici a decorrere dal 1 agosto 1998, senza alcun dies ad quem, termine che se fosse stato previsto avrebbe dovuto essere esplicitamente indicato, senza alcun riferimento al proprio diritto alla ricostruzione della carriera, tantomeno in modo speculare a quello della sua collega, e soprattutto con espressa rinuncia a qualsiasi azione derivante dal fatto per cui era stata proposta l’istanza di conciliazione, ossia l’erroneo inquadramento alla 7a q.f. alla data del 28 agosto 1989.
Il Tribunale comunque riteneva infondata la pretesa nel merito.
4. La Corte d’Appello ha confermato la statuizione del giudice di primo grado condividendo il convincimento espresso dal Tribunale in merito al contenuto dell’accordo di conciliazione sottoscritto in data 25 maggio 2002.
Il lavoratore aveva accettato l’inquadramento nella 7a q.f. ai fini solo giuridici a decorrere dal 1 agosto 1988 in poi e non, come sostenuto nel ricorso introduttivo, per il solo arco temporale tra il 1 agosto 1988 e il 28 agosto 1989.
La conciliazione era priva della previsione del dies ad quem, né il C. aveva fatto salvo il proprio diritto alla ricostruzione della carriera, tantomeno in modo speculare alla collega.
Il lavoratore aveva rinunciato a qualsiasi azione derivante dal fatto per cui era stata proposta l’istanza di conciliazione, ossia l’errato inquadramento alla 7a q.f. alla data del 28 agosto 1989.
Dal verbale di conciliazione del 24 maggio 2002 emergeva che il C. rinunciava ad ogni ulteriore pretesa risarcitoria pure prospettata nell’istanza di conciliazione, quindi anche alla richiesta di ricostruzione della sua carriera, e ad ogni ulteriore azione che poteva derivare dall’erroneo inquadramento alla data del 28 agosto 1989.
Pertanto, ha affermato la Corte d’Appello che la Provincia aveva dato corretta esecuzione al verbale di conciliazione, riconoscendo all’appellante la 7a q.f. a soli fini economici dal 1 agosto 1988, e il livello LED dal 15 gennaio 1992.
Ne’ poteva convenirsi sul richiamo di attenzione che avrebbe dovuto esserci per il lavoratore sulla eccessiva onerosità della rinuncia, atteso che lo stesso era assistito dal proprio legale.
Infine, la Corte d’Appello ha rilevato che l’attribuzione dell’8a qualifica funzionale al personale in possesso della settima qualifica da almeno tre anni era avvenuta previa frequenza di un corso di aggiornamento e che, di conseguenza, la mancata frequenza del corso costituiva circostanza impeditiva all’accoglimento della domanda di riconoscimento della qualifica superiore proposta dal ricorrente.
5. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore prospettando due motivi di ricorso.
6. Resiste con controricorso la Città metropolitana di Bari.
7. Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte.
8. Il ricorso è stato trattato con il rito cartolare ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 8-bis, convertito, con modificazioni dalla L. n. 176 del 2020.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, art. 2113, c.c., D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 65 e 66, artt. 1362 c.c. e segg., nonché, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, è prospettato il vizio di omesso esame circa l’interpretazione dell’accordo transattivo.
Il lavoratore deduce che il contenuto dell’accordo transattivo, che trascrive nel ricorso, è stato travisato dal giudice di appello. Dal tenore dello stesso si evinceva che il lavoratore aveva rinunciato solo a quanto spettantegli da un punto di vista economico, compresi interessi e rivalutazione, per il solo arco temporale compreso tra il 1 agosto 1988 ed il 28 agosto 1989, senza rinunciare alla ricostruzione della carriera.
L’amministrazione avrebbe dovuto riconoscergli tutti i vantaggi che da quell’inquadramento derivavano, come l’inquadramento nella 8a q.f., mentre con la determina n. 134 del 2002, anch’essa riprodotta nel ricorso, si era resa colpevole di gravi mancanze, attribuendogli all’atto del collocamento a riposo la posizione economica D3 e non D5.
La censura è articolata in più punti, di seguito in sintesi richiamati.
Sussistenza del diritto alla 8a q.f. quale conseguenza dell’inquadramento a fini giuridici dal 1 agosto 1988 nella 7a q.f., e del possesso del requisito di permanenza triennale in tale qualifica, previsti dalle Delib. Consiglio 19 luglio 1991, n. 55 e Delib. Consiglio 25 ottobre 1991, n. 2856 (arrotondandosi al mese intero le frazioni di mesi superiori a 15 giorni);
l’espressione: con rinuncia… alla corresponsione delle differenze economiche e dei conseguenti importi a titolo di interessi e rivalutazione monetaria, nonché ad ogni altra pretesa risarcitoria, contenuta nel verbale di conciliazione, non escludeva il diritto alla corretta ricostruzione della carriera sotto il profilo giuridico;
trovava applicazione la giurisprudenza secondo la quale per aversi validità della transazione o della rinuncia occorre che il lavoratore abbia avuto la chiara consapevolezza degli specifici diritti ai quali intendeva rinunciare;
nel verbale in esame nulla si diceva in ordine a eventuali rinunce relative alla progressione nella carriera.
La Corte d’Appello aveva violato il criterio ermeneutico dell’interpretazione letterale delle parole e delle espressioni usate, che avrebbe dovuto essere esteso all’intero contesto contrattuale.
Ma il proprio assunto risultava fondato anche facendo applicazione dell’art. 1363, c.c., e del criterio ermeneutico per cui le clausole si interpretano le une mediante le altre, atteso che dal confronto tra la proposta iniziale e quella approvata risultava la rinuncia alle sole differenze economiche maturate e l’impegno a proprio carico al pagamento della contribuzione previdenziale.
L’interpretazione prospettata da esso ricorrente era l’unica conforme a buona fede, in quanto idonea ad assicurare un equo contemperamento degli interessi delle parti.
1.1. Il motivo non è fondato.
Per costante giurisprudenza di legittimità (cfr., fra le più recenti, Cass., n. 24392 del 2020, n. 20683 del 2020, n. 13595 del 2020), a cui si intende dare continuità, facendone applicazione nella fattispecie, nell’interpretazione del contratto, a cui va assimilato il verbale di conciliazione, il carattere prioritario dell’elemento letterale non deve essere inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell’art. 1362 c.c., alla comune intenzione delle parti impone di estendere l’indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici, anche laddove il testo dell’accordo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti.
Pertanto, assume valore rilevante anche il criterio logico-sistematico di cui all’art. 1363 c.c., che impone di desumere la volontà manifestata dai contraenti da un esame complessivo delle diverse clausole aventi attinenza alla materia in contesa, tenendosi, altresì, conto del comportamento, anche successivo, delle parti.
Dunque, la comune volontà delle parti deve essere ricostruita sulla base di due elementi principali, ovvero il senso letterale delle espressioni usate e la ratio del precetto contrattuale, e tra questi criteri interpretativi non esiste un preciso ordine di priorità, essendo essi destinati ad integrarsi a vicenda ed ancora che il criterio letterale e quello del comportamento delle parti, anche successivo al contratto medesimo ex art. 1362 c.c., concorrono, in via paritaria, a definire la comune volontà dei contraenti Nella fattispecie in esame, la Corte territoriale, con una interpretazione non implausibile e, pertanto, in assenza di violazioni delle disposizioni di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., ha ritenuto che, come peraltro emerge prima facie dal regolamento transattivo, l’intenzione delle parti fosse quella di convenire sull’inquadramento nella 7a q.f. ai soli fini giuridici a decorrere dal 1 agosto 1988 in poi, e non come sostenuto dal ricorrente per il solo arco temporale dal 1 agosto 1988 al 28 agosto 1989.
Ed infatti, questa Corte ha chiarito (ex aliis, Cass. 5241 del 2020) che per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica possibile o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni: sicché in tema di sindacato sulla interpretazione dei contratti, la parte che ha proposto una delle opzioni ermeneutiche possibili di una clausola contrattuale non può contestare, quindi, in sede di giudizio di legittimità la scelta alternativa alla propria effettuata dal giudice di merito se non con le condizioni sopra indicate.
Inoltre, la Corte d’Appello ha ritenuto sussistere il carattere transattivo nei sensi indicati con la chiara e piena consapevolezza della parte di abdicare o transigere su propri diritti, non solo per il concorso di particolari elementi di interpretazione contenuti nello stesso verbale, quale la mancata indicazione di un dies ad quem, ma anche desumibili aliunde e cioè dalla sede della conciliazione (Collegio di conciliazione del Ministero del lavoro) e dall’assistenza qualificata prestata al lavoratore dal proprio legale (cfr., Cass., n. 28448 del 2018).
Peraltro, come afferma la Corte d’Appello, il riconoscimento della 8a qualifica funzionale agli altri lavoratori avveniva a seguito della frequenza di un corso di aggiornamento e, di conseguenza, la mancata frequenza del corso, costituiva, comunque, circostanza impeditiva all’accoglimento della domanda di riconoscimento della qualifica superiore.
Come osserva la Corte d’Appello, in proposito il C. avrebbe potuto proporre domanda di risarcimento del danno, ma tale domanda sarebbe stata inammissibile in quanto coperta dalla transazione intercorsa tra le parti, con la quale il lavoratore ha rinunciato “ad ogni altra pretesa risarcitoria”.
2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, art. 115 c.p.c., nonché, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame del primo motivo di gravame.
La Corte d’Appello nel trattare il primo motivo di appello, con il quale il lavoratore si doleva dell’omessa valutazione del materiale probatorio da parte del Tribunale, aveva riprodotta sostanzialmente la decisione di quest’ultimo, senza rinnovarne il ragionamento alla luce delle censure formulate e ponendosi in contrasto con le risultanze istruttorie e di CTU.
2.1. Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente, nel dolersi di una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, nella sostanza chiede un riesame delle risultanze probatorie.
Va osservato che nel giudizio di legittimità una questione di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (si v., Cass., n. 27000 del 2016).
In realtà, dunque, la censura tende a fare valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso convincimento soggettivo della parte.
Al riguardo, va osservato che non può essere proposto un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento giacché, diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e cioè di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura e alla finalità del giudizio di legittimità.
3. Il ricorso deve essere rigettato.
4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
5. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 23 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2021