LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIA Lucia – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 1816/2015 proposto da:
T.J.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato LUIGI MANZI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORENZO PICOTTI;
– ricorrente –
contro
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BERGAMO, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso il cui Ufficio domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;
– controricorrente –
e contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, CARLA D’ALOISIO, ESTER ADA SCIPLINO, EMANUELE DE ROSE, GIUSEPPE MATANO;
– resistente con mandato –
avverso la sentenza n. 82/2014 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 03/11/2014 R.G.N. 25/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/04/2021 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;
il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MUCCI Roberto, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
I. Con la sentenza n. 535 del 2013, la Corte di cassazione ha accolto il settimo e il nono motivo del ricorso proposto da T.J.P. nei confronti dell’Università degli Studi di Bergamo e dell’INPS, avverso la sentenza emessa tra le parti dalla Corte d’Appello di Brescia il 22 settembre 2006, e ha cassato la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti rinviando, anche per le spese, alla Corte di Appello di Trento.
2. Con riguardo all’accoglimento del settimo motivo di ricorso, questa Corte con la sentenza n. 535 del 2013 ha affermato: “Il D.L. n. 2 del 2004, art. 1, convertito nella L. n. 63 del 2004, in esecuzione della sentenza pronunciata dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee in data 26 giugno 2001, nella causa C – 212/99, ha attribuito, proporzionalmente all’impegno orario assolto, ai collaboratori linguistici, ex lettori di madre lingua straniera di talune Università (ma la norma è applicabile anche ai collaboratori linguistici, ex lettori, dipendenti da Università degli Studi diverse da quelle contemplate da tale disposizione: cfr., tra le altre, Cass. 21856/04; Cass. 4147/07), un trattamento economico corrispondente a quello del ricercatore confermato a tempo definito, con effetto dalla data di prima assunzione, fatti salvi eventuali trattamenti più favorevoli. La Corte territoriale, ritenendo che le mansioni svolte dal ricorrente, in relazione alla loro qualità e quantità, non fossero state sufficientemente remunerate ex art. 36 Cost., ha riconosciuto al medesimo il “diritto alla retribuzione corrispondente al ricercatore confermato a tempo indeterminato”, senza null’altro aggiungere.
In particolare non ha fornito chiarimenti in ordine a tale figura professionale; non ha precisato le ragioni per le quali le retribuzioni corrisposte al ricorrente, ritenute insufficienti, avrebbero dovuto essere adeguate a quelle corrisposte al ricercatore confermato a tempo indeterminato; non ha fornito elementi per la identificazione di tali ultime retribuzioni; non ha indicato alcun parametro retributivo di riferimento ai fini dell’adeguamento stipendiale; non ha precisato le retribuzioni percepite dal ricorrente e quelle che viceversa avrebbero dovuto essergli corrisposte ai fini di tale adeguamento, finendo per condannare l’Università al pagamento delle “eventuali” differenze retributive. Tutto ciò rende privo di rilevanza l’accertamento svolto, tanto più che per il collaboratore linguistico il D.L. n. 2 del 2004, art. 1, convertito nella L. n. 63 del 2004, prevede un trattamento economico corrispondente a quello del ricercatore confermato a tempo definito. La sentenza impugnata deve pertanto sul punto essere cassata”.
3. In relazione al nono motivo di ricorso questa Corte con la citata sentenza n. 535 del 2013 ha statuito: “La Corte d’Appello, nel riconoscere al ricorrente le eventuali differenze retributive con decorrenza dal primo novembre 1994, ha dichiarato prescritte quelle relative al periodo anteriore al 22 febbraio 1995, osservando che la prescrizione era stata interrotta con la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione, ricevuta il 22 febbraio 2000. Senonché, con precedente raccomandata del 9 marzo 1998, ricevuta il 13 marzo successivo – il cui contenuto è stato trascritto in ricorso e che l’Università non ha contestato di avere ricevuto – il ricorrente aveva già interrotto la prescrizione, richiedendo il pagamento delle differenze retributive sin dalla data di stipula del primo contratto a termine. Anche su tale punto la sentenza impugnata deve essere cassata”.
4. La Corte ha cassato la sentenza di appello impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Trento, in relazione ai suddetti motivi accolti.
5. La Corte d’Appello di Trento, davanti alla quale l’appello è stato riassunto dal ricorrente, ha affermato che non potevano essere messe in discussione le mansioni svolte dal lavoratore, sia perché le stesse erano state equiparate dalla sentenza della Corte di Appello di Brescia a quelle del ricercatore confermato, senza che sul punto vi fosse impugnazione, sia perché il giudice di legittimità aveva fatto espresso riferimento alla modifica normativa (art. 1, D.L. del 2004) che aveva determinato l’equiparazione retributiva del collaboratore esperto linguistico al ricercatore confermato a tempo definito. Tale normativa aveva superato il vaglio della CGUE.
Affermava, quindi, che la verifica della corrispondenza del trattamento economico, in concreto applicato al lavoratore, alla normativa di riferimento, effettuata tramite CTU, era pervenuta alla conclusione che l’Università aveva erogato un trattamento retributivo superiore rispetto a quello derivante dall’applicazione del D.L. del 2004 e della L. n. 240 del 2010, art. 26.
Rigettava le censure di nullità della CTU, non essendovi stato vulnus al diritto di difesa e al principio del contraddittorio.
La Corte d’Appello ha dichiarato inammissibile la riproposizione di questioni attinenti alla progressione stipendiale atteso che il motivo di ricorso per cassazione era stato rigettato Pertanto, il giudice di appello rigettava la domanda di condanna dell’Università al pagamento di differenze retributive, e dichiarava assorbita la domanda di condanna dell’Università alla regolarizzazione della posizione previdenziale.
6. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore prospettando nove motivi di impugnazione.
7. Resiste l’Università degli Studi di Bergamo con controricorso.
8. L’INPS ha depositato procura alle liti in calce al ricorso notificato.
9. Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte con cui ha chiesto rigettarsi il ricorso.
10. In prossimità dell’udienza pubblica il lavoratore ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., con riferimento all’applicazione di un parametro peggiorativo rispetto a quello riconosciuto in base alla sentenza della Corte d’Appello di Brescia, non impugnato dalla resistente Università (art. 360 c.p.c., n. 4).
Assume il ricorrente che la Corte d’Appello di Brescia aveva riconosciuto il diritto di esso ricorrente alla retribuzione corrispondente a ricercatore confermato a tempo indeterminato. sia esso a tempo pieno o a tempo definito. Pertanto, vi era stata statuizione sull’adeguamento della retribuzione, ex art. 36 Cost., oltre il livello contrattuale in godimento, lasciando incerta la questione se il parametro da applicare fosse quello minimo del ricercatore confermato a tempo definito, ovvero a tempo pieno.
Il ricorso per cassazione era stato svolto per ottenere l’accertamento del trattamento più favorevole, e cioè del ricercatore confermato a tempo pieno e non a tempo definito.
L’Università non aveva promosso impugnazioni.
Nonostante ciò, la Corte d’Appello avrebbe applicato un parametro peggiorativo aderendo agli accertamenti della CTU, violando il principio della reformatio in peius.
2. Il motivo è inammissibile.
2.1. A norma dell’art. 384 c.p.c., comma 2, l’enunciazione del principio di diritto vincola il giudice di rinvio che ad esso deve uniformarsi, con conseguente preclusione della possibilità di rimettere in discussione questioni, di fatto o di diritto, che siano il presupposto di quella decisione, e di tenere conto di eventuali mutamenti giurisprudenziali della stessa Corte, anche a Sezioni Unite, non essendo consentito in sede di rinvio sindacare l’esattezza del principio affermato dal giudice di legittimità (cfr., Cass. n. 11290/1999; Cass. n. 16518/2004; Cass. n. 23169/2006; Cass. n. 17353/2010; Cass. n. 1995/2015).
2.2. Dall’irretrattabilità del principio di diritto discende che la Corte di Cassazione. nuovamente investita del ricorso avverso la sentenza pronunziata dal giudice di merito, deve giudicare muovendo dalla regula iuris in precedenza enunciata, perché l’efficacia vincolante. che si estende anche alle premesse logico-giuridiche della decisione adottata oggetto di giudicato implicito interno (Cass., n. 17353/2010 e Cass., n. 20981/2015), viene meno solo qualora la norma, in epoca successiva alla pubblicazione della pronuncia rescindente, sia stata dichiarata costituzionalmente illegittima ovvero sia divenuta inapplicabile per effetto di ius superveniens (cfr., Cass., n. 20128/2013; Cass., n. 13873/2012; Cass., n. 17442/2006).
2.3. Tali ultime condizioni non ricorrono nel caso di specie, perché il quadro normativo è rimasto immutato rispetto a quello apprezzato dalla sentenza rescindente, che ha con chiarezza indicato i limiti del giudizio di rinvio, subordinando l’accoglimento dell’originaria domanda all’esito dell’accertamento di fatto, effettuato dalla Corte territoriale in termini negativi per l’originario ricorrente, indicando quale trattamento retributivo quello del ricercatore confermato a tempo definito.
3. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata la violazione falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., artt. 371 e 394 c.p.c., in relazione al D.P.R. n. 382 del 1980, artt. 31, 32 e 38 (art. 360 c.p.c., n. 3).
In subordine, il ricorrente espone che la sentenza della Corte d’appello di Trento violerebbe il giudicato formatosi sul parametro del ricercatore confermato sia da intendere a tempo pieno o a tempo definito, parametro che non poteva essere peggiorativo rispetto a quello minimo del ricercatore confermato a tempo definito. L’aver derogato al parametro stesso del ricercatore confermato per applicarne uno peggiorativo quale quello contrattuale preso esplicitamente a base della CTU integra la violazione delle suddette disposizioni.
4. Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente pur dolendosi della decisione assunta dalla Corte d’Appello in adesione della CTU, non trascrive il contenuto di quest’ultima né nel corpo del motivo né nella illustrazione dello svolgimento dei precedenti gradi di giudizio, atteso che a pag. 18 del ricorso il lavoratore, dopo aver affermato che il CTU provvedeva a trasmettere ai CT di parte la bozza della sua consulenza, cui seguivano i rilievi critici dell’8 luglio 2014 del proprio CTP, riporta i rilievi del CTP (pagg. 18-23), indicando alla fine che depositata, quindi, la relazione finale, la causa veniva discussa all’udienza del 9 ottobre 2014, dopo il deposito delle note di parte.
5. Con il terzo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 Cost., art. 2909 c.c. e della L. n. 53 del 2004, art. 1 (art. 360 c.p.c., n. 3).
E’ censurata la statuizione che ritiene applicabile al lavoratore il trattamento del lavoratore confermato a tempo definito in luogo di quello a tempo pieno a cui doveva ritenersi equivalente l’indicazione “a tempo indeterminato”.
In tal modo la Corte d’Appello aveva violato la salvezza dei trattamenti più favorevoli.
6. Il motivo non è fondato atteso che la Corte di cassazione ha indicato come criterio quello del ricercatore confermato a tempo definito.
L’eventuale trattamento più favorevole non consiste nella verifica di congruità del trattamento retributivo ex art. 36, ma quelli più favorevoli di fatto goduti in concreto dal lavoratore.
Il CTU ha riscontrato che il trattamento economico del lavoratore era superiore rispetto a quello del D.L. del 2004 e della L. n. 240 del 2010, art. 26. La questione ha formato oggetto di compiuto accertamento da parte della Corte d’Appello, in ragione delle statuizioni della sentenza di questa Corte n. 535 del 2013, quale sentenza rescindente, in ragione dei principi richiamati al punto 2.
Si può, altresì, rilevare che la giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 18897 del 2019, punti 14.1. e 14.2) ha affermato che il legislatore ha chiarito la questione, obiettivamente incerta, del rapporto fra la previsione contenuta nel D.L. n. 2 del 2004 e la disciplina dettata dalla contrattazione collettiva, a ciò autorizzata dal D.L. n. 120 del 1995, precisando che a far tempo dalla sottoscrizione del contratto di collaborazione linguistica l’eventuale trattamento più favorevole viene conservato a titolo individuale nella misura corrispondente alla differenza fra quanto percepito a detta data come lettore di madrelingua straniera, ai sensi del richiamato D.L. n. 2 del 2004 e la retribuzione dovuta al collaboratore linguistico sulla base della contrattazione collettiva nazionale e decentrata; (…) in tal modo il legislatore, da un lato, ha impedito che il passaggio dal lettorato alla collaborazione linguistica potesse risolversi in una reformatio in peius del livello retributivo raggiunto, dall’altro ha ribadito la specificità propria del collaboratore linguistico, non equiparabile al docente, specificità che giustifica la differenziazione retributiva rispetto a quest’ultimo ed il conferimento del potere alle parti collettive di individuare la retribuzione proporzionata alla qualità e quantità della prestazione. a prescindere dal raffronto con il trattamento economico riservato al personale docente.
7. Con il quarto motivo di ricorso è denunciato omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5).
Assume il ricorrente che il giudice di appello non aveva considerato che egli non era mai stato destinatario di un rapporto di lavoro come lettore al fine di escludere l’applicazione della L. n. 240 del 2010, art. 26, norma applicabile solo agli ex lettori divenuti CEL.
8. Il motivo è inammissibile.
Va premesso che la sentenza della Cassazione ha dato atto che il T. era collaboratore linguistico (ex lettore di lingua straniera) e ha poi sancito l’applicabilità alla fattispecie del trattamento retributivo del ricercatore confermato a tempo definito.
La sentenza della Corte d’Appello tiene conto della statuizione della sentenza rescindente.
Trova, nella specie, applicazione l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo modificato dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.
Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., S.U., n. 19881 del 2014, e Cass., S.U., n. 8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di Cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di -sufficienza” della motivazione”, sicché quest’ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perché non si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi. Questa Corte ha chiarito che il “fatto” ivi considerato è un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza in senso storico-naturalistico (Cass., n. 21152 del 2014).
Il fatto in questione deve essere decisivo: per potersi configurare il vizio è necessario che la sua assenza avrebbe condotto a diversa decisione con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, in un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data (Cass., n. 24035 del 2018).
Nella specie, l’omesso esame di un fatto decisivo è dedotto con riferimento alla qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, che non concreta un fatto nel senso storico-naturalistico di cui ai principi sopra richiamati.
9. Con il quinto motivo è illustrata la violazione e falsa applicazione della L. n. 240 del 2010, art. 26 e dell’art. 2909 c.c. (art. 360, n. 3).
La censura già proposta con il quarto motivo ex art. 360, n. 5, è prospettata, sotto altro profilo, ai sensi art. 360, n. 3.
Espone il ricorrente che la sentenza della Corte d’Appello di Brescia (poi oggetto del ricorso per cassazione deciso con la sentenza n. 535 del 2013) aveva accertato con effetto di giudicato che il lavoratore era stato assunto direttamente come CEL, senza considerare il primo contratto come lettore supplente.
10. Osserva il Collegio che la Corte di Cassazione dopo aver qualificato il rapporto di lavoro come CEL ex lettore ha disposto farsi applicazione della disciplina relativa a tale categoria; dunque il motivo è inammissibile in quanto cerca di reintrodurre temi già definiti dalla sentenza rescindente.
11. Con il sesto motivo di ricorso il ricorrente espone che nell’applicare la L. n. 240 del 2010, art. 26, la CDA avrebbe violato i principi di diritto comunitario, come interpretati dalla CGUE, sentenze Allue’ I e II, Delay, e gli artt. 3,36 e 117 Cost., come illustrato nello svolgimento del motivo di ricorso.
12. Il motivo è inammissibile.
Oltre a svolgere considerazioni non direttamente riferibili al decisum, sovrappone e confonde questioni che attengono alla ricostruzione dei fatti oggetto di causa e profili giuridici, sicché finisce per assegnare inammissibilmente al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (Cass., n. 26790/2018).
Va ricordato, infatti, che l’orientamento secondo cui un singolo motivo può essere articolato in più profili di doglianza, senza che se ne debba affermare l’inammissibilità (Cass., S.U., n. 9100/2015), trova applicazione solo nel caso, che qui non ricorre, di formulazione che permetta di cogliere con chiarezza quali censure siano riconducibili alla violazione di legge e quali, invece, all’accertamento dei fatti, contestato, tra l’altro, nella fattispecie senza il rispetto dei limiti fissati dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 8053/2014.
13. Con il settimo motivo è dedotta la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 112 c.p.c., laddove ha ritenuto inammissibile la richiesta del ricorrente di riconoscimento della progressione in carriera per scatti di anzianità e classi stipendiali fin dalla prima assunzione, intrinseca ai parametri retributivi di cui si era richiesta l’applicazione in causa (art. 360 c.p.c., n. 4).
14. Con l’ottavo motivo di ricorso è prospettate la violazione e falsa applicazione della L. n. 63 del 2004 e dei principi comunitari di cui alle sentenze CGUE 26 giugno 2001, 18 luglio 2006 e 15 maggio 2008.
Assume il ricorrente, nell’illustrare la giurisprudenza della CGUE e la disciplina richiamata, che doveva trovare applicazione il trattamento minimo del ricercatore confermato e censura il criterio della cd. retribuzione per esperienza acquisita applicato dall’Università di Bergamo in quanto contrastante con la L. n. 63 del 2004 e con il principio di non discriminazione, derivando dall’applicazione del trattamento retributivo previsto nel CCNL comparto università per il CEL.
15. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione, Gli stessi sono inammissibili.
La censura è formulata senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, perché il ricorrente non riporta nel ricorso, quanto meno nelle parti essenziali, la sentenza della Corte d’Appello di Brescia, richiamata dalla Corte d’Appello di Trento, nonché i motivi proposti con il ricorso per cassazione, e ciò impedisce alla Corte, a prescindere da ogni altro rilievo, di valutare ex actis la critica mossa alla sentenza impugnata, che ha affermato che la questione degli scatti e anzianità era già stata esaminata e respinta dalla Corte d’Appello di Brescia e che il relativo motivo di ricorso per cassazione, Lottavo, era stato respinto dalla sentenza di questa Corte n. 535 del 2013.
Il requisito imposto dal richiamato art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, ve essere verificato anche in caso di denuncia di errores in procedendo, rispetto ai quali la Corte è giudice del “fatto processuale”, perché l’esercizio del potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità (Cass., S.U., n. 8077/2012). La parte, quindi, non è dispensata dall’onere di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito il rinvio per relationenz agli atti del giudizio di merito, perché la Corte di Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (cfr., Cass., S.U., n. 20181/2019; Cass., n. 20924/2019).
16. Con il nono motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione alla L. n. 218 del 1952, artt. 19 e 23.
E’ censurata la statuizione con cui la Corte d’Appello ha rigettato la domanda relativa alla esclusione della rivalsa nei confronti del lavoratore, in quanto domanda nuova. Assume il ricorrente che non si tratterebbe di domanda nuova, ma di semplice richiesta di applicazione di un dettato normativo che opera a prescindere da specifica domanda, ai sensi della L. n. 218 del 1952, artt. 19 e 23.
17. Il motivo è inammissibile per le ragioni già esposte nella trattazione dei motivi che precedono, atteso che anche nella specie, il ricorrente non riproduce la domanda rispetto alla quale interveniva la pronuncia della Corte di Appello di Brescia, nonché la statuizione di quest’ultima, che afferma la Corte d’Appello di Trento non costituiva oggetto di ricorso per cassazione, nonché le conclusioni del ricorso di appello in riassunzione.
18. In via conclusiva il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo in favore della sola Università degli Studi di Bergamo, in assenza di attività difensiva dell’INPS.
19. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate, in favore dell’Università degli Studi di Bergamo, in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2021