Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.26311 del 29/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1360/2019 proposto da:

P.G., e D.C.I., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA S. VALENTINO 24, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO AFELTRA, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

TIEMME SPA, e GENERALI ITALIA SPA, *****, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA C. COLOMBO 440, presso lo studio dell’avvocato FRANCO TASSONI, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

B.R.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2248/2018 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 02/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 11/05/2021 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI.

RILEVATO

che:

D.C.I. e P.G., L., C. ed E. convennero in giudizio B.R., la Rama s.p.a. e la Rama Mobilità s.c.r.l. (successivamente confluite, per fusione, nella TIEMME s.p.a.), nonché l’Ina Assitalia s.p.a. (poi Generali Italia s.p.a.) per ottenere il risarcimento dei danni patiti per il decesso del loro congiunto P.M., avvenuto a seguito dell’impatto violento dell’autovettura dallo stesso condotta contro l’autobus Rama (guidato dal B. ed assicurato presso Ina Assitalia) che lo precedeva e era fermo per consentire la salita di passeggeri;

il Tribunale di Grosseto rigettò la domanda;

pronunciando sul gravame proposto dalla D. e da P.E. e G., la Corte di Appello di Firenze ha confermato la sentenza di primo grado, rilevando – fra l’altro – che:

il tamponamento pone a carico del conducente del veicolo tamponante una presunzione “de facto” di inosservanza della distanza di sicurezza, di talché, esclusa l’applicabilità della presunzione di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, egli resta gravato dall’onere di fornire la prova liberatoria, mediante dimostrazione che il mancato tempestivo arresto del mezzo e la conseguente collisione sono stati determinati da cause in tutto o in parte a lui non imputabili;

competeva pertanto ai congiunti della vittima la prova dell’inevitabilità dell’urto, che gli appellanti avevano ascritto alla non regolarità della fermata della Rama e alla non visibilità del mezzo per avere lo stesso le luci posteriori spente;

la denunciata irregolarità della fermata, “assunta in modo dubitativo dalla stessa parte appellante”, “non emerge da alcun elemento oggettivo in atti”, trattandosi di “fermata lungo la strada principale, presente, per quello che si arguisce dagli atti, da tempo e non luogo di ulteriori incidenti a testimonianza della sua non pericolosità”;

quanto alla dedotta non visibilità del mezzo, sulla base delle deposizioni assunte doveva reiterarsi “la valutazione del Giudice di I grado sulla sussistenza positiva della prova della accensione dei fari” dell’autobus;

“in tale situazione, come ritenuto dal c.t.u., l’autobus su cui è andato a sbattere il P. era visibile a 35 metri e doveva essere da lui avvistato con gli anabbaglianti che doveva avere accesi, stante la luce ancora notturna, sia che percorresse la strada a 50 Km/h che a 28/30 come ritenuto dal ctp: a tale distanza egli avrebbe potuto mettere in atto manovre di emergenza;

per di più, era risultato provato che il P. non indossava la cintura di sicurezza (rispetto al cui utilizzo non godeva di alcuna esenzione) e che – per quanto affermato dai consulenti d’ufficio, sia in sede penale che civile – l’uso della cintura avrebbe evitato l’evento morte;

“vi è pertanto in atti non solo la prova della evitabilità dell’evento (ed a contrario manca la prova a carico degli eredi P. della sua inevitabilità), ma anche la prova della attribuzione a titolo di colpa alla vittima del fatto, atteso che nelle medesime circostanze, e dato il medesimo urto da tergo, attribuibile a sua distrazione, se egli avesse fatto uso della cintura di sicurezza, l’evento non si sarebbe verificato o almeno si sarebbe verificato con minori conseguenze”;

hanno proposto ricorso per cassazione D.C.I. e P.G., affidandosi a tre motivi; hanno resistito, con unico controricorso, Generali Italia s.p.a. e TIEMME s.p.a.;

la trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis. 1. c.p.c..;

le controricorrenti hanno depositato memoria.

CONSIDERATO

che:

premesso che in atti non v’e’ prova dell’avvenuta notifica del ricorso al B., ritiene il Collegio che, a fronte dell’evidente inammissibilità del ricorso, non debba disporsi la preventiva integrazione del contraddittorio, alla luce del principio secondo cui, nel giudizio di cassazione, il rispetto del principio della ragionevole durata del processo impone, in presenza di un’evidente ragione d’inammissibilità del ricorso, di definire con immediatezza il procedimento, senza la preventiva integrazione del contraddittorio nei confronti di litisconsorti necessari cui il ricorso non risulti notificato, trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio (cfr., per tutte, Cass., S.U. n. 6826/2010);

il primo motivo deduce la violazione dell’art. 149 C.d.S., comma 1, dell’art. 382 reg. att. C.d.S. e art. 2054 c.c.: premesso che la questione della pericolosità della fermata e della sua incidenza sulla determinazione dell’incidente era stata ampiamente trattata in sede di merito, i ricorrenti rilevano (“per chiarire subito il fulcro della presente censura”) che “la norma in materia di tamponamento non prevede che “eventuali dubbi in merito all’impossibilità di arrestarsi in tempo devono andare in danno del tamponante” e aggiungono che “la circolazione o la sosta di un veicolo su strada pubblica in violazione di una norma del C.d.S. lo rende imprevedibile ed anomalo automaticamente” e che dagli atti processuali “sono emerse due certezze(…): i fari posteriori dell’autobus erano spenti, l’indicatore di direzione destro era spento; sarebbero essi soli sufficienti ad identificare quelle cause del sinistro almeno in parte non imputabili al conducente” dell’autovettura; lamentano, infine, che la Corte di Appello non abbia utilizzato come fonte di prova le dichiarazioni del teste Mo. “sulla presenza in loco di un sito nel quale RAMA, nel rispetto della distanza prevista dall’art. 352 reg. att. C.d.S. (…) poteva collocare l’area della fermata”;

il motivo è inammissibile, in quanto:

non illustra adeguatamente alcuna violazione in iure che sarebbe stata compiuta dalla Corte in relazione alle norme indicate in rubrica, venendo pertanto meno all’onere di specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni e da consentire a questa Corte di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento delle denunziate violazioni (cfr., per tutte, Cass. n. 16038/2013);

il motivo si limita, invero, a postulare del tutto genericamente la sussistenza di errori in cui sarebbe incorsa la Corte di Appello, svolgendo richiami ad elementi fattuali e a valutazioni di merito che, oltre a non trovare riscontro nella sentenza impugnata (che, contrariamente all’assunto dei ricorrenti, non ha evidenziato elementi di dubbio sulla possibilità del P. di evitare l’impatto e che ha accertato che al momento dell’urto i fari dell’autobus erano accesi), sono volti a sollecitare una inammissibile rivalutazione di merito;

il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 116 c.p.c., sul rilevo che la Corte territoriale avrebbe “travisato le testimonianze dei testi S. e F.; sminuito quella dei testi P., T. e Mo.” e “rilevato apoditticamente che il teste D.M. avesse affermato che il de cuius non fosse esonerato dall’indossare le cinture di sicurezza”;

il motivo è manifestamente inammissibile, poiché:

la violazione dell’art. 116 c.p.c., non risulta dedotta in conformità ai parametri individuati dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 11892/2016, Cass. n. 27000/2016 e Cass. n. 1229/2019): infatti, un’eventuale erronea valutazione del materiale istruttorio non determina, di per sé, la violazione o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., che ricorre solo allorché si deduca che il giudice di merito abbia disatteso (valutandole secondo il suo prudente apprezzamento) delle prove legali oppure abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione;

la censure hanno umsonnotazione eminentemente fattuale e sono volte, come per il primo motivo, a sollecitare non consentite revisioni del merito in sede di legittimità;

parimenti inammissibile è il terzo motivo, che denuncia la violazione degli artt. 195 e 196 c.p.c., per non avere la Corte di Appello accolto la richiesta di rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio ovvero quella di chiamare a chiarimenti il c.t.u. (entrambe disattese sul rilievo della “completezza della istruttoria compiuta ai fini della corretta ricostruzione dei fatti”);

invero, richiamate sinteticamente alcune delle conclusioni cui erano pervenute la “consulenza M.”, la “consulenza Bi.” e la “perizia G.”, i ricorrenti si sono limitati a lamentare che “la Corte di appello non ha proprio tenuto conto di tali censure” (ossia parrebbe – delle note critiche svolte dal ctp Bi. all’elaborato del c.t.u.); in tal modo incorrendo tuttavia in difetto di specificità, quanto all’indicazione delle ragioni poste a sostegno dei tre elaborati e quanto alla localizzazione degli stessi nell’ambito degli atti di causa, ed omettendo, altresì, di argomentare sulle inadeguatezze della c.t.u. (non rinvenibili ovviamente nella mera difformità rispetto alle conclusioni del c.t.p.) che avrebbero reso necessaria la rinnovazione delle operazioni o la chiamata del consulente a chiarimenti; il tutto a prescindere dal rilievo che il potere del giudice di esercitare la facoltà di rinnovare le operazioni di consulenza o di chiamare a chiarimenti il c.t.u. costituisce una facoltà discrezionale il cui mancato esercizio non è sindacabile sotto il profilo della violazione di legge (cfr. Cass. n. 14774/2014);

le spese di lite seguono la soccombenza;

sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 7.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in Euro 200,00) e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 11 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2021

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