LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –
Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –
Dott. PERRINO Angel – Maria –
Dott. CATALLOZZI Paolo – rel. Consigliere –
Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24270/2014 R.G. proposto da:
M.P., rappresentato e difeso dall’avv. Stefano Grolla e dall’avv. Valentino Antonio Sacco, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Valentino Antonio Sacco, sito in Roma, viale delle Milizie, 96;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto, n. 634/19/14, depositata l’11 aprile 2014.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’11 maggio 2021 dal Consigliere Paolo Catallozzi.
RILEVATO
CHE:
– M.P. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto, depositata l’11 aprile 2014, che, in accoglimento dell’appello erariale, ha dichiarato la legittimità dell’avviso di accertamento con cui era stata rettificata la dichiarazione resa per l’anno 2006 in relazione alla partecipazione detenuta nella Mepla s.r.l., società di capitali a ristretta base societaria di cui esso ricorrente era titolare di una quota di partecipazione non inferiore al 95% del capitale;
– dall’esame della sentenza impugnata si evince che con l’atto impositivo l’Ufficio aveva contestato alla società l’indebita deduzione di costi, in quanto relativi ad operazioni oggettivamente inesistenti, e l’omesso versamento dell’I.v.a. esposta in fatture emesse e aveva recuperato le imposte non versate, ritenute utili extrabilancio non tassati, in proporzione alla quota di partecipazione detenuta;
– il giudice di appello, disattesa l’eccezione di inammissibilità dell’appello, sollevata sul fondamento dell’asserito difetto di specificità dei relativi motivi, e premessa l’assenza di vizi formali dell’atto impositivo eccepiti dal contribuente, ha ritenuto fondato il gravame erariale in ragione dell’operatività della presunzione di distribuzione ai soci del maggior reddito accertato nei confronti della società;
– il ricorso è affidato a tre motivi;
– resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate;
– il ricorrente deposita memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..
CONSIDERATO
CHE:
– con il primo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, ovvero la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha disatteso l’eccezione di inammissibilità dell’atto di appello;
– evidenzia, in proposito, che l’Ufficio aveva concluso chiedendo accertarsi la legittimità del suo operato e non già la legittimità dell’avviso di accertamento oggetto del giudizio;
– il motivo è inammissibile, per aver il ricorrente riferito la doglianza all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 benché la censura si risolva, nella sostanza, nella censura di extrapetizione, in relazione alla pronuncia su un motivo di appello non proposto, e, dunque, nella prospettazione di un vizio rilevante ai fini del n. 4 del medesimo comma;
– infatti, benché ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso non è richiesta l’esatta indicazione numerica della specifica disposizione normativa espressiva del vizio di legittimità fatto valere, con conseguente dovere del giudice di riqualificare il vizio in altre fattispecie di censura di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, e’, tuttavia, necessario che dall’articolazione motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato e la denuncia corrisponda ad una delle ipotesi tassativamente previste;
– nell’illustrazione del motivo formulato, il ricorrente ha allegato l’erronea interpretazione del motivo di appello da parte della Commissione regionale, sottolineando, come rilevato in precedenza, che l’appellante si era limitato a chiedere l’accertamento della correttezza del suo operato e non anche la legittimità del provvedimento impositivo notificato;
– poiché il ricorrente, nel prospettare la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, non ha effettuato alcun riferimento alle conseguenze che l’errore (sulla legge) processuale comporta, vale a dire alla nullità della sentenza e/o del procedimento, non risulta essere rispettato l’onere della specificità del motivo di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 (cfr. Cass., sez. un., 24 luglio 2013, n. 17931; successivamente, in tal senso, Cass., ord., 28 settembre 2015, n. 19124);
– in ogni caso, la parte omette di riprodurre, quanto meno nella parte rilevante, l’atto di appello, non consentendo a questo giudice di valutare l’ammissibilità e la fondatezza della doglianza;
– con il secondo motivo il contribuente deduce la violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 1, e, in subordine, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56, comma 5, e D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, comma 2, nonché la contraddittorietà della motivazione, per aver il giudice di appello disatteso l’eccezione di nullità dell’avviso di accertamento;
– sottolinea, sul punto, che il processo verbale di constatazione era stato notificato alla sola Mepla s.r.l. e non era stato allegato all’atto impositivo;
– il motivo è inammissibile;
– in tema di contenzioso tributario, l’avviso di accertamento soddisfa l’obbligo di motivazione ogni qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l’an ed il quantum debeatur (cfr., ex multis, Cass. 30 dicembre 2019, n. 27800; Cass., ord., 8 novembre 2017, n. 26431; Cass. 25 luglio 2012, n. 13110);
– la Commissione regionale ha affermato che “dall’esame comparato dell’avviso di accertamento il contribuente è stato posto nella condizione di poter esperire un’adeguata difesa”, ritenendo, pertanto, che l’apparato motivazionale dell’atto impositivo fosse idoneo a consentire al contribuente di comprendere le ragioni, in fatto e in diritto, poste dall’Ufficio a fondamento della ripresa erariale;
– orbene, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo del giudizio espresso in ordine alla adeguatezza della motivazione dell’avviso di accertamento, è necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso (cfr. Cass., ord., 6 novembre 2019, n. 28570; Cass., ord., 28 giugno 2017, n. 16147);
– poiché il ricorso è privo di tali elementi non può procedersi all’esame della doglianza;
– con l’ultimo motivo il ricorrente si duole dell’omessa pronuncia ovvero della carenza di motivazione in ordine alla questione relativa alla deducibilità dei costi, sostenuta in ragione della loro connessione con i maggiori ricavi accertati;
– il motivo è inammissibile;
– nella parte in cui lamenta l’omessa pronuncia su tale punto, la censura non prospetta il vizio sotto il profilo dell’error in procedendo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e, dunque, della nullità della sentenza per tale motivo;
– in ogni caso, la doglianza pecca per mancata osservanza del requisito della necessaria specificità, in quanto risulta priva della riproduzione del motivo che sarebbe stato oggetto del ricorso originario e riproposto in appello, necessaria al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare l’ammissibilità e la fondatezza del motivo di ricorso prospettato in cassazione, essendo precluso l’esame dei fascicoli di ufficio o di parte;
– nella parte in cui lamenta la carenza di motivazione sulla questione dedotta, il motivo presuppone che il giudice di merito si sia pronunciato, sia pure senza argomentare, in senso negativo rispetto all’eccepita deducibilità dei costi, in quanto connessi ai maggiori ricavi accertati, laddove la sentenza impugnata risulta essere priva di alcuna statuizione in proposito;
– per le suesposte considerazioni, pertanto, il ricorso non può essere accolto;
– le spese processuali seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
– sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-bis se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 11 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2021