Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.26351 del 29/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. ANTEZZA Fabio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 18457/2015 R.G. proposto da:

Veneroni Srl, rappresentata e difesa dall’Avv. Fabrizio Pavarotti, presso il quale è domiciliata in Roma via Archimede, 112, giusta procura speciale in calce al controricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia sez. staccata di Brescia n. 24/67/15, depositata il 12 gennaio 2015.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 maggio 2021 dal Consigliere Giuseppe Fuochi Tinarelli.

RILEVATO

CHE:

Veneroni Srl impugnava l’avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle entrate recuperava l’Iva per l’anno 2006 in relazione a due cessioni intracomunitarie (rispettivamente verso un cliente olandese e un cliente ungherese) effettuate con codici identificativi Iva cessati o inesistenti.

L’impugnazione era respinta dalla CTP di Cremona. La sentenza era confermata dalla CTR della Lombardia – sez. staccata di Brescia.

Veneroni Srl propone ricorso per cassazione con tre motivi, poi illustrato con memoria, cui l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

CONSIDERATO

CHE:

1. Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.L. n. 331 del 1993, artt. 41, 46 e 50 conv. nella L. n. 427 del 1993, nonché degli artt. 4, 22, 28-quater e 28 nonies, dir. n. 77/388/CEE per aver la CTR ritenuto fondata la ripresa, e il disconoscimento del regime di non imponibilità, in base alla sola indicazione di codici identificativi Iva degli acquirenti comunitari errati o cessati, costituendo tale indicazione requisito meramente formale, inidoneo a mettere in discussione il diritto all’esenzione in presenza delle condizioni sostanziali per fruirne.

2. Il secondo motivo denuncia nuovamente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.L. n. 331 del 1993, artt. 41, 46 e 50 conv. nella L. n. 427 del 1993, artt. 4, 22, 28-quater e 28 nonies, dir. n. 77/388/CEE, nonché degli artt. 2727-2729 c.c. per aver la CTR, quanto alla cessione al cliente ungherese, ritenuto legittima la ripresa sul solo fatto che il codice identificativo del cliente indicato in fattura era inesistente, mentre, con riguardo al cliente olandese, che, con erronea inferenza presuntiva, dalla cessazione del codice identificativo derivasse anche la cessazione dell’attività.

3. Il terzo motivo denuncia, con un primo profilo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 (o n. 3), violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1, e art. 116 c.p.c., comma 1, per aver la CTR ritenuto la documentazione prodotta non idonea a fornire la prova dell’effettività della natura ed esistenza del soggetto passivo perché di origine privata e non consistente in attestazioni di pubbliche amministrazioni.

Con un secondo profilo – irritualmente enucleato nel corpo del motivo, senza indicazione del vizio e delle norme in concreto violate-denuncia la nullità dell’atto impositivo perché firmato dal direttore provinciale asseritamente privo dei poteri di firma.

4. Il primo e il secondo motivo e il primo profilo del terzo motivo, da esaminare unitariamente per evidenti ragioni di connessione logica, sono in parte infondati, in parte inammissibili.

4.1. Costituisce principio consolidato, da cui non vi è ragione di discostarsi, che, nel caso di cessioni intracomunitarie, la mera erronea indicazione del codice identificativo del cessionario, ovvero l’indicazione di un codice cessato al momento dell’operazione, ovvero, ancora, l’omessa indicazione nell’elenco riepilogativo Istat (Intrastat), non costituiscono ragioni sufficienti a far venir meno la possibilità di applicazione del regime di non imponibilità di cui al D.L. n. 331 del 1993, art. 50, commi 1 e 2, trattandosi di requisiti formali e non sostanziali, dovendosi, peraltro, dimostrare, con onere a carico del contribuente, che, pur a fronte della indicazione erronea che non consente l’ordinario funzionamento del sistema di gestione degli scambi intracomunitari sotto il profilo fiscale, le operazioni siano effettive e ricorra, in capo al destinatario, la qualità di soggetto passivo d’imposta nello Stato d’appartenenza, (Cass. n. 16756 del 09/08/2016; Cass. n. 10006 del 24/04/2018; Cass. n. 25651 del 15/10/2018; da ultimo, in motivazione, Cass. n. 29498 del 24/12/2020).

4.2. A tali principi la CTR si è attenuta atteso che ha sì rilevato la correttezza della ripresa per l’avvenuta indicazione di codici cessati o inesistenti, idonei a fondare la presunzione di non effettività della cessione intracomunitaria, ma ha pure rilevato che la contribuente, che poteva fornire la prova contraria della effettività dell’operazione e della qualità dei soggetti passivi, non aveva soddisfatto l’onere su essa incombente (“la ricorrente non ha fornito la prova che le cessioni fossero effettivamente avvenute nei confronti operatori comunitari soggetti ad Iva”).

4.3. Quanto alla censurata violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. – ossia che il giudice d’appello da un lato non avrebbe applicato il principio di non contestazione e, dall’altro, in relazione alla cessione al cliente olandese, non avrebbe operato secondo il suo prudente apprezzamento attribuendo alle singole prove un altro e diverso valore – il motivo, prima ancora che infondato (avendo la CTR, in realtà, precisato che la prova “può essere fornita con ogni mezzo purché essa abbia carattere di certezza e incontrovertibilità”, caratteri che, in concreto, aveva apprezzato come assenti per la documentazione bancaria di pagamento), è inammissibile per difetto di autosufficienza.

La ricorrente, infatti, nel corpo del motivo non ha riprodotto gli atti che sarebbero stati oggetto di un errato legale apprezzamento, né ha fornito alcun specifico elemento idoneo a identificarli, né il punto dell’atto o del documento cui la questione si riferisce, né, infine, il tempo e la fase di deposito degli stessi; neppure soccorrono le indicazioni contenute nello svolgimento del processo del ricorso, in evidenza insufficienti risolvendosi nella riproduzione di un estratto del registro delle imprese olandese (in sé privo di decisività poiché relativo ad altro soggetto di cui la parte si limita a sostenere l’identità rispetto a quello sua controparte) e in indicazioni del tutto generiche (“tutte le fatture emesse al cliente olandese con i relativi CMR”; “dal CMR” per le fatture emesse al cliente ungherese).

4.4. Va ricordato, infine, che nel processo tributario il principio di non contestazione deve essere coordinato con quello, correlato alla specialità del contenzioso, secondo cui la mancata specifica presa di posizione dell’Ufficio sui motivi di opposizione alla pretesa impositiva svolti dal contribuente non equivale ad ammissione dei fatti posti a fondamento di essi, né determina il restringimento del thema decidendum ai soli motivi contestati, posto che la richiesta di rigetto dell’intera domanda del contribuente consente all’Ente impositore, qualora le questioni da questo dedotte in via principale siano state rigettate, di scegliere, nel prosieguo del giudizio, tra tutte le possibili argomentazioni difensive rispetto ai motivi di opposizione (Cass. n. 7127 del 13/03/2019).

Ne deriva che a carico dell’Amministrazione finanziaria, a fronte dei motivi di impugnazione proposti dal contribuente, non sussiste un onere di allegazione ulteriore rispetto a quanto contestato mediante l’atto impositivo – qui neppure riprodotto in carenza di autosufficienza – in quanto detto atto costituisce nel suo complesso, nei limiti delle censure del ricorrente, l’oggetto del giudizio (v. Cass. n. 19806 del 23/07/2019).

5. Inammissibile, infine, è il secondo profilo del terzo motivo e ciò sia per la genericità della doglianza, neppure chiaramente riconducibile ad uno dei vizi ex art. 360 c.p.c. e, quindi, carente ex art. 366 c.p.c., n. 4, sia per la novità della questione, introdotta per la prima volta in sede di legittimità.

6. Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese, liquidate come in dispositivo, sono regolate per soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la contribuente al pagamento delle spese a favore dell’Agenzia delle entrate, che liquida in complessive Euro 2.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 24 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2021

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