LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
Dott. LEONE Margherita Maria – rel. Consigliere –
Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 35897/2018 proposto da:
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI 12;
– ricorrente –
contro
D.V.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 32, presso lo studio degli avvocati MICHELE ROSARIO LUCA LIOI, e MICHELE MIRENGHI, che lo rappresentano e difendono;
– controricorrente –
avverso l’ordinanza n. 31164/2018 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 03/12/2018 R.G.N. 26819/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/04/2021 dal Consigliere Dott. MARGHERITA MARIA LEONE;
il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
FATTI DI CAUSA
La Presidenza del Consiglio dei Ministri (PCM) proponeva ricorso ex art. 391 bis c.p.c. avverso l’ordinanza n. 31164/2018 con cui la Corte di legittimità aveva dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla stessa Presidenza avverso la sentenza con cui la Corte di appello di Roma (n. 1760/2013) aveva riconosciuto il diritto di D.V.D., dipendente della Regione Piemonte distaccato presso la Conferenza Stato-Regioni, a percepire l’indennità di specificità organizzativa di cui all’art. 18 del CCNI del 15 settembre 2004 previsto per i dipendenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L’ordinanza oggetto dell’attuale ricorso per revocazione aveva ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione in quanto carente di specificazione con riferimento alla mancata trascrizione ed allegazione dell’accordo integrativo collettivo e del successivo Accordo del 29 luglio 2010, sui quali erano fondati i motivi di censura.
Avverso tale statuizione è stato proposto ricorso per revocazione dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, affidato ad un solo motivo, cui ha resistito con controricorso D.V.D..
La Procura Generale ha depositato le proprie conclusioni ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito con modifiche dalla L. n. 176 del 2020, chiedendo l’accoglimento del ricorso per revocazione ed il rigetto dell’originario ricorso proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri avverso la sentenza n. 1760/2013 della Corte di appello di Roma.
RAGIONI DELLA DECISIONE
A) Ricorso per revocazione.
1) Con unico motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 395 c.p.c., n. 4, richiamato dall’art. 391 bis c.p.c (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per essere, la Corte di legittimità, incorsa in errore di fatto per una mera svista, consistente nell’aver ritenuto non allegati ed inseriti nel ricorso i documenti richiamati e posti a fondamento delle censure, quale il testo dell’art. 18 dell’Accordo Integrativo e dell’Accordo 29 luglio 2010. Tali documenti, contrariamente a quanto statuito, erano stati allegati e depositati ed il loro contenuto di rilievo rispetto alla controversia, era stato inserito nel testo del ricorso.
2)- Preliminarmente va dato atto che “L’avvenuta fissazione della trattazione di un ricorso per revocazione in udienza pubblica, anziché, come prescritto dall’art. 391 bis c.p.c., in Camera di consiglio,, è pienamente legittima, in quanto non determina alcun pregiudizio ai diritti di azione e difesa delle parti, considerato che l’udienza pubblica rappresenta, anche nel procedimento davanti alla Corte di cassazione, lo strumento di massima garanzia di tali diritti, consentendo ai titolari di questi di esporre compiutamente i propri assunti; in tal caso, ove il ricorso sia ammissibile e fondato non occorre il rinvio all’udienza pubblica per la fase rescissoria, potendo nella stessa udienza decidersi il ricorso per revocazione ed eventualmente – in caso di suo accoglimento – anche il ricorso in precedenza deciso con la pronunzia oggetto di revocazione” (Cass. n. 14400/2018).
2)- In ragione del principio esposto, a cui si intende dare continuità, in questa sede di pubblica udienza si deve procedere, in prima battuta, con l’esame del motivo di revocazione sopra evidenziato.
Nella valutazione dei vizi revocatori occorre partire dalla premessa che, come evidenziato dalle Sezioni Unite del Giudice di legittimità “Il combinato disposto dell’art. 391 bis c.p.c. e dell’art. 395 c.p.c., n. 4, non prevede come causa di revocazione della sentenza di cassazione l’errore di diritto, sostanziale o processuale, e l’errore di giudizio o di valutazione” (Cass. SU n. 8984/2018). Soggiunge la Corte che “La giurisprudenza di legittimità ha perimetrato l’errore di fatto, tracciandone, in primo luogo, il confine rispetto alla violazione o falsa applicazione di norme di diritto sostanziali o processuali, laddove l’errore di fatto riguarda solo l’erronea presupposizione dell’esistenza o dell’inesistenza di fatti considerati nella loro dimensione storica di spazio e di tempo, non potendosi far rientrare nella previsione il vizio che, nascendo ad esempio da una falsai percezione di norme che contempli la rilevanza giuridica di questi stessi fatti e integri gli estremi dell’error iuris, sia che attenga ad obliterazione delle norme medesime, riconducibile all’ipotesi della falsa applicazione, sia che si concreti nella distorsione della loro effettiva portata, riconducibile all’ipotesi della violazione (vadasi tra le tante Cass., Sez. U., 27/12/2017, n. 30994 e sent. ivi cit. a p. 3.4; conf. Cass., Sez. U., 27/12/2017, nn. da 30995 a 30997). Resta, quindi, esclusa dall’area del vizio revocatorio la sindacabilità di errori formatisi sulla base di una pretesa errata valutazione o interpretazione di fatti, documenti e risultanze processuali che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico, perché siffatto tipo di errore, se fondato, costituirebbe un errore di giudizio, e non un errore di fatto (Cass., Sez. U., n. 30994/2017, cit.)”.
Il principio richiamato fissa il discrimine tra vizio revocatorio ed error iuris, escludendo dal primo ogni asserita errata valutazione, sia in fatto che in diritto, svolta dal Giudice di legittimità.
3)- Nel caso di specie nella ordinanza oggetto di revocazione la Corte ha effettivamente basato il proprio giudizio, incorrendo in errore di percezione, su circostanze di fatto, quali la mancata allegazione e trascrizione dei documenti posti a fondamento della decisione, contrastanti con il dato reale, invece attestativo della presenza, correttamente disposta, sia dell’Accordo integrativo ed in particolare del testo dell’art. 18, che dell’Accordo del 29 luglio 2010. A tale errore percettivo è conseguito l’errato giudizio.
Pertanto il ricorso per revocazione deve essere accolto e revocata l’ordinanza n. 31164/2018 emessa da questa Corte.
4)- Come già sopra illustrato (con il richiamo a Cass. n. 14400), in caso di fondatezza del ricorso per revocazione si procede,anche per ragioni di evidente economia processuale, nella medesima sede processuale, alla valutazione dell’originario ricorso già oggetto di revocazione.
B) Ricorso avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 1760/2013.
5)- La Corte di appello di Roma con la sentenza n. 1760/2013 aveva riconosciuto il diritto del D.V.D., dipendente della Regione Piemonte distaccato presso la Conferenza Stato-Regioni, a percepire l’indennità di specificità organizzativa, di cui all’art. 18 del CCNI del 15 settembre 2004, prevista per i dipendenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Avverso tale statuizione la PCM aveva proposto i seguenti motivi di ricorso:
6)- Violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del disposto del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 30, commi 1, 2, con riguardo alla nozione dell’istituto del distacco, in ragione della quale la Corte d’appello, con interpretazione sostanzialista, avrebbe assimilato la posizione del D.V. ad un “comando”, così riconoscendogli il diritto a fruire dell’indennità in questione.
7)- Violazione e falsa applicazione dell’art. 18 del Contratto Collettivo Integrativo del comparto Presidenza del Consiglio dei Ministri nonché dell’Accordo del 29.7.2010, punto 1, per le parti in cui riferiscono l’indennità in questione al solo personale comandato e fuori ruolo e non, come invece valutato dal giudice d’appello, al personale in distacco funzionale, come il D.V..
8)- Con precedente analogo (identici anche i motivi) a quello in esame (Cass. n. 32875/2018) questa Corte ha statuito con riguardo al primo motivo di censura:
Parte ricorrente “Assume che non può essere effettuata alcuna equiparazione delle posizioni di comando, fuori ruolo e distacco in quanto il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 30, configura il distacco nelle sole ipotesi in cui un datore di lavoro, al fine di realizzare un proprio interesse pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività. Addebita alla sentenza impugnata di avere errato nel ritenere che il distacco funzionale disposto dalla Regione dovesse essere qualificato come comando.
Questa Corte ha più volte affermato che il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 1, comma 2, nel prevedere che “il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale” è chiaro nell’individuare il destinatario della esclusione, riferita all’intero decreto, innanzitutto nell’ente pubblico (Cass. n. 9741/2018, Cass. n. 20327/2016).
Il Collegio ritiene di dare continuità ai principi affermati nelle sentenze sopra richiamate perché condivide le ragioni esposte, da intendersi qui richiamate ex art. 118 disp. att. c.p.c., non contrastate da argomenti decisivi che impongano la rimeditazione dell’orientamento giurisprudenziale innanzi richiamato”.
9)- Con riguardo al secondo motivo di censura il precedente richiamato rileva che:
“La denuncia, con ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, della violazione o falsa applicazione del contratto collettivo integrativo (nella specie contratto collettivo integrativo della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 2004) è inammissibile.
Tale disposizione si riferisce ai soli contratti collettivi nazionali di lavoro, mentre i contratti integrativi, attivati dalle amministrazioni sulle singole materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono, se pure parametrati al territorio nazionale in ragione dell’amministrazione interessata, hanno una dimensione di carattere meramente integrativo della negoziazione nazionale di comparto.
In relazione a tali contratti l’interpretazione di tali contratti è censurabile, in sede di legittimità, soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione (Cass. 16954/2018, 10094/2018, 4921/2016, 6748/2010), nella specie non dedotti.
Analoghe considerazioni vanno svolte con riguardo all’Accordo del 29.7.2010.20”.
Come si evince dal testo riportato il precedente già deciso da questa Corte di legittimità (Cass. n. 32875/2018) è sovrapponibile al ricorso in esame e pertanto, stante l’identità delle questioni, devono richiamarsi integralmente le decisioni già assunte, che si intendono condivise, e conseguentemente rigettare il ricorso proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Le spese seguono il principio della soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
PQM
La Corte accoglie il ricorso per revocazione e rigetta l’originario ricorso proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, condannandola alle spese liquidate in Euro 4.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per spese, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, all’udienza, il 13 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2021