Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.26472 del 29/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21504-2019 proposto da:

D.F., rappresentato e difeso dagli Avvocati ALESSANDRO ORSINI, e GIUSEPPE GRASSOTTI, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio del primo in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 71;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro-tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 209/2019 della CORTE d’APPELLO di MILANO depositata il 17/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/01/2021 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

CENNI DEL FATTO D.F. proponeva appello avverso l’ordinanza del 22.2.2017 del Tribunale di Milano, con la quale era stato rigettato il ricorso avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale emesso dalla competente Commissione Territoriale, chiedendo il riconoscimento dello status di rifugiato o, in subordine, della protezione sussidiaria o, in ulteriore subordine, della protezione umanitaria.

Sentito innanzi al Tribunale di Milano, confermate le dichiarazioni rese innanzi alla Commissione Territoriale, il ricorrente aveva dichiarato di essere cittadino del *****; di non aver frequentato la scuola e di aver lavorato nel suo Paese presso una caffetteria; di sentire i propri familiari una volta al mese; di avere una figlia di un anno che viveva con la madre e di non essere sposato; di aver lasciato il ***** nel dicembre 2012, raggiungendo l’Algeria (dove era rimasto 6 mesi), per poi recarsi in Libia fino a giungere in Italia il 14.9.2014; che aveva deciso di fuggire a causa della gravidanza di una ragazza e di aver subito dai parte della famiglia di lei minacce di denuncia se non si fosse occupato della stessa e della figlia, con conseguente rischio di carcerazione. All’udienza dell’11.5.2018 l’appellante dichiarava di non aver mai avuto una figlia avendo scoperto successivamente di non essere il padre biologico.

Con sentenza n. 209/2019, depositata in data 17.1.2019, la Corte d’Appello di Milano rigettava l’appello, ritenendo che il racconto fosse lacunoso e riguardasse una vicenda personale, che nulla aveva a che vedere con i motivi (di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinione politica) che danno diritto al riconoscimento dello status di rifugiato. Inoltre, condividendo quanto sostenuto dal Giudice di primo grado, l’appellante non aveva neppure fornito la prova dell’esistenza di una minaccia grave e individuale che potesse giustificare la concessione della protezione sussidiaria. In particolare, dalle fonti internazionali consultate, risultava che il ***** stesse attraversando una fase di stabilizzazione politica in seguito all’accordo di pace siglato nel maggio 2015 tra il governo ***** e diverse formazioni di ribelli e che il conflitto armato tra contingenti ***** e francesi e forze ribelli insisteva esclusivamente nell’area centro-settentrionale del Paese, mentre nel centro e nel sud del Paese la presenza di un governo stabile conferiva maggiore sicurezza e capacità di contrastare gli episodi terroristici; la zona sud-ovest del *****, compresa quella di ***** da cui proveniva l’appellante, non era scossa da vicende politiche significative e/o da scontri violenti o caratterizzati da conflitto armato. Non ricorreva pertanto l’ipotesi di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c) (violenza indiscriminata in una situazione di conflitto armato). Anche la domanda di protezione umanitaria non poteva essere accolta: sia avuto riguardo alla situazione socio-politica della zona di provenienza dell’appellante, che non presentava criticità particolari, sia avuto riguardo alle condizioni personali del richiedente, che aveva una rete affettiva e familiare ben presente nel proprio Paese, non erano rilevabili situazioni di particolare vulnerabilità personale. Si aggiungeva anche la scarsa attendibilità dell’appellante che era caduto in contraddizione fino al punto di smentire il motivo per il quale avrebbe lasciato il *****, ovvero la gravidanza di una ragazza (del tutto in contraddizione con le difese svolte in precedenza, all’udienza dell’11.5.2018, aveva dichiarato di non aver avuto mai una figlia e di averlo scoperto solo successivamente). Inoltre, non era stato documentato un valido percorso di integrazione sociale in Italia: solo dopo 4 anni dall’arrivo in Italia, l’appellante aveva intrapreso un’attività lavorativa come aiuto cameriere della durata di 4 mesi.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione D.F. sulla base di tre motivi. L’intimato Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente si difende “In relazione alla domanda principale di riconoscimento dello status di rifugiato sulla carenza dell’onere probatorio, con violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”; censurando la parte della sentenza nella quale la Corte d’Appello riteneva che il racconto riguardasse una vicenda personale e che la vicenda non fosse connotata da atti di persecuzione diretta e personale (in ragione degli atteggiamenti persecutori dei genitori della ragazza, che aveva riferito del suo stato di gravidanza, di fatto a lui non attribuibile) costretto a fuggire e a rifugiarsi nella regione del ***** e poi a *****. A tale proposito non era stata opportunamente considerata la circostanza per cui il ricorrente si era venuto a trovare nel mezzo di un violento conflitto, alimentato dalle iniziativi dei gruppi ribelli; e tale difficile situazione lo aveva costretto alla fuga in Algeria, poi in Libia e infine in Italia.

1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente si duole “In relazione al mancato riconoscimento della protezione sussidiaria, con violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, del grado di violenza indiscriminata in ***** che ha raggiunto un livello tale da far ritenere che il medesimo, in caso di rimpatrio, rischi effettivamente di subire detta minaccia.

1.3. – Con il terzo motivo, il ricorrente si lamenta “In relazione al mancato riconoscimento della protezione umanitaria, con violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5” giacché il giudizio sulla credibilità non esclude l’esame degli ulteriori profili esterni alla vicenda personale del richiedente, in quanto il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria deve essere frutto di valutazione autonoma, svincolata dal rigetto delle altre domande di protezione internazionale.

2. – In considerazione della loro stretta connessione logico-giuridica e formulazione, i motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente.

2.1. – Essi sono inammissibili.

2.2. – Questa Corte (Cass. sez. un. 8053 del 2014) ha affermato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella novellata formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle pronunce impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 29 marzo 2019) consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ma, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non v’e’ specifica adeguata indicazione.

Laddove, poi, si presenta altrettanto inammissibile l’evocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 con riferimento non già ad un “fatto storico”, come sopra inteso, bensì a questioni o argomentazioni giuridiche (Cass. n. 22507 del 2015; cfr. Cass. n. 21152 del 2014; ciò in quanto nel paradigma ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 non è inquadrabile il vizio di omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018).

2.3. – A ciò va aggiunto che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato possa rientrare nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c.; essendo, pertanto, inammissibile la critica generale (e inevtabilemente generica) della sentenza impugnata, formulata con una articolazione di doglianze non riferibili al provvedimento impugnato, e quindi non chiaramente individuabili (Cass. n. 11603 del 2018). Le proposte censure, come rapsodicamente articolate, appalesano piuttosto lo scopo del ricorrente di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione impugnata, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018); così, inammissibilmente, rimettendo al giudice di legittimità il compito di isolare le singole doglianze teoricamente proponibili, onde ricondurle a uno dei mezzi di impugnazione enunciati dal citato art. 360 c.p.c. per poi ricercare quali disposizioni possano essere utilizzabili allo scopo; in sostanza, dunque, cercando di attribuire al giudice di legittimità il compito di dar forma e contenuto giuridici alle generiche censure del ricorrente, per poi decidere su di esse (Cass. n. 22355 del 2019; Cass. n. 2051 del 2019).

3. – Giova, poi, ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte (Cass. n. 24414 del 2019), in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e’, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Cass. n. 3340 del 2019).

Va dunque ribadito (peraltro in termini generali) che costituisce principio pacifico quello secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 6259 del 2020; cfr., ex multis, Cass. n. 22717 del 2019 e Cass. n. 393 del 2020, rese in controversie analoghe a quella odierna).

3.1. – Le censure si risolvono, dunque, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, così mostrando il ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 3638 del 2019; Cass. n. 5939 del 2018).

Invero, compito della Cassazione non è quello di condividere o meno la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è ampiamente dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

4. – A ciò va aggiunto che questa questa Corte ha chiarito che “in materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona”, cosicché “qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori” (Cass. n. 16925 del 2018).

Come, inoltre precisato (Cass. n. 14006 del 2018) con riguardo alla protezione sussidiaria dello straniero, prevista dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), “l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale implica o una contestualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di poter essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale, ovvero la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire detta minaccia”.

4.1. – Tanto premesso, va rilevato che il Tribunale ha analiticamente motivato (con il dovuto specifico riferimento e richiamo a quanto affermato da fonti internazionali accreditate: cfr. Cass. n. 15794 del 2019) le ragioni per cui si debba escludere che il richiedente provenga da una zona in cui si registri un clima di tensione tale da far presumere che in caso di suo rientro possa andare incontro a torture o altre forme di trattamento inumano e degradante (decreto impugnato pag. 6); deducendo viceversa che la situazione politica quantomeno di tale zona del Paese risulta, al momento, sufficientemente stabile.

La nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), dev’essere interpretata in conformità della fonte Eurounitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, 18 dicembre 2014, C-542/13, par. 36), secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sé una minaccia individuale da definirsi come danno grave (v. 26 Considerando della direttiva n. 2011/95/UE), sicché “l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 15 direttiva, lett. c), a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia” (v., in questo senso, Corte Giustizia UE 17 febbraio 2009, Elgafaji, C465/07, e 30 gennaio 2014, Diakite’, C285/12; v. Cass. n. 13858 del 2018; Cass. n. 30105 del 2018).

Nel caso, il giudice di merito ha puntualmente valutato la situazione del paese di origine del richiedente, giungendo ad escludere la ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 14, lett. c) all’esito di un’articolata analitica valutazione desunta (come detto) da siti internazionali accreditati, senza peraltro che il ricorrente abbia, in senso contrario, addotto altre idonee fonti, essendosi limitato a richiamare il medesimo rapporto EASO dell’agosto 2017 (oltre che tra altre fonti attendibili come Amnesty International, UNHCR, ***** (Watch List 2017), Human Rights Watch oltre che dal Ministero degli Affari Estari) da cui sono state tratte dal giudicante le espresse considerazioni in ordine alla situazione del paese.

Anche tale accertamento implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il cui risultato (come sopra detto) può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5.

4.2. – In ordine, infine, alla verifica delle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria – al pari di quanto avviene per il giudizio di riconoscimento dello status di rifugiato politico e della protezione sussidiaria – incombe sul giudice il dovere di cooperazione istruttoria officiosa, così come previsto dal D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8 in ordine all’accertamento della situazione oggettiva relativa al Paese di origine. Nella specie, il Tribunale territoriale non ha violato il suddetto principio né è venuto meno al dovere di cooperazione istruttoria, avendo semplicemente ritenuto, a monte, che i fatti lamentati non costituiscano un ostacolo al rimpatrio né integrino un’esposizione seria alla lesione dei diritti fondamentali alla luce della disciplina antecedente al D.L. 4 ottobre 2018, n. 113 convertito nella L. 1 dicembre 2018, n. 132 (non applicabile ratione temporis alla fattispecie, non avendo tale normativa efficacia retroattiva secondo quanto affermato dalle sezioni unite di questa Corte: Cass., sez. un., n. 29459 del 2019).

4.3. – Quanto infine al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero questa Corte (Cass. n. 4455 del 2018; e successivamente Cass., sez. un., n. 29460 del 2019) ha precisato che “In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.”

A tal riguardo il motivo appare ulteriormente inammissibile anche alla luce della valutazione comparativa espressa dal giudice di merito con esaustiva indagine circa le condizioni descritte dello straniero con riguardo al suo paese di origine ed all’integrazione in Italia acquisita, valutazione in sé evidentemente non rivalutabile in questa sede.

5. – Il ricorso va dichiarato inammissibile. Nulla per le spese nei riguardi del Ministero dell’Interno, che non ha svolto attività difensiva. Va emessa la dichiarazione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2021

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