Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.26624 del 30/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 10455/2019 proposto da:

C.E., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la cancelleria civile della Corte di cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Federico Lera per procura speciale estesa in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del ministro pro tempore intimato;

avverso la sentenza n. 2109/2018 della Corte di Appello di Firenze, depositata il 19 settembre 2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 4 novembre 2020 dal relatore Vannucci Marco.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza emessa in 19 settembre 2018 la Corte di appello di Firenze confermò l’ordinanza pronunciata il 16 novembre 2017 dal Tribunale di Firenze, dispositiva del rigetto delle domande di accertamento dello status di rifugiato, di concessione di protezione sussidiaria ovvero di permesso di soggiorno per motivi umanitari da C.E. (di nazionalità nigeriana) proposte in sede di impugnazione di provvedimento di diniego adottato in sede amministrativa.

1.1 Questa è la sintesi del racconto fatto dall’appellante, alla base di dette domande, per come indicato nella sentenza:

il Sig. C., a seguito di una festa a cui veniva invitato da un amico, entrava a far parte di un gruppo chiamato Bukania;

egli narrava di un episodio nel quale un socio dell’associazione denunciava il fatto che una persona stava importunando la sua ragazza; il 29 settembre 2011, cinque membri, compreso il ricorrente, si recavano ad E. (ove viveva quel ragazzo) per ucciderlo; all’uccisione il ricorrente si era limitato a presenziare, senza partecipare;

a seguito di tale fatto, il ricorrente decideva di non recarsi più alle riunioni del gruppo, di non rispondere più alle loro insistenti chiamate e di aver spiegato all’amico che lo aveva introdotto di non voler far più parte dell’associazione;

successivamente egli iniziava a frequentare la Chiesa e un giorno, di ritorno da questa con altre due persone, veniva picchiato da altri componenti dell’associazione che non conosceva, fino allo svenimento; veniva poi portato all’ospedale dai suoi genitori e, uscito, decideva di lasciare il villaggio per andare dalla sorella a *****;

molte erano state le minacce di morte da parte del gruppo; così decideva di lasciare il paese, arrivando in Niger il 3 aprile e raggiungendo la Libia il 1 maggio 2012, ove, rimasto per due anni, aveva lavorato presso un autolavaggio;

Il 15 agosto 2012 egli era approdato in Italia.

1.2. La motivazione della sentenza può, per quanto qui ancora interessa, essere così sintetizzata: non vi sono i presupposti per concedere all’Appellante la protezione sussidiaria in quanto, anche “supponendo che il racconto sia vero”, non è possibile impedire alla giustizia nigeriana di procedere “nell’accertamento ed eventualmente nella repressione delle responsabilità connesse all’uccisione del ragazzo di E.”, non potendo l’Italia “diventare il ricettacolo di chi delinque altrove”; inoltre, il pericolo che lo straniero allega non integra gli estremi previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ai fini della concessione di tale protezione; nel caso di specie, il pericolo deriverebbe da particolari vicende personali e non da una situazione di violenza indiscriminata diffusa nel Paese a causa di un conflitto armato, come sarebbe necessario secondo l’interpretazione del requisito accolta comunemente in giurisprudenza; infatti, non ogni preoccupazione personale può assumere rilevanza ai fini della protezione internazionale, per ottenere la quale è necessaria una connotazione sociale del pericolo ovvero una sua diffusione indiscriminata, “nel senso che deve investire ogni singolo abitante civile a prescindere dalla sua identità e storia personale, in un contesto di violenza così pervasivo e generalizzato da far supporre che chiunque finirebbe per subirlo non appena fatto ingresso in quel territorio”; è infine da escludere la presenza dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, forma di tutela residuale apprestata nei casi in cui, pur mancando i requisiti delle forme tipiche di tutela dello straniero, emergano condizioni tali da far avvertire la sua espulsione come crudele e contraria al senso di umanità; l’appellante è persona giovane, capace di lavorare e badare a sé stesso e “non sono stati documentati e non sono emersi radicamenti particolarmente significativi nella società italiana, mentre l’aver frequentato un corso di apprendimento della lingua può essere considerato il minimo esigibile da chiunque voglia vivere in Italia”; “il rimpatrio comporterebbe delle difficoltà all’appellante, ma sicuramente inferiori a quelle sopportate nella fase dell’emigrazione”.

2. Per la cassazione di tale sentenza C. ha proposto ricorso affidato a tre motivi;

3. L’intimato Ministero dell’Interno non ha svolto attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denunzia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., n. 5).

In particolare, egli ritiene che la Corte di appello abbia omesso di considerare alcuni elementi essenziali.

Relativamente alla vicenda personale narrata il ricorrente sostiene che non ci siano dubbi in merito alla veridicità del suo racconto: egli era infatti “l’ultimo arrivato” e per una sorta di rito di iniziazione era stato costretto a partecipare all’agguato, senza essere peraltro a conoscenza di cosa si trattasse, del grado di violenza che avrebbe connotato l’intervento della confraternita e soprattutto senza poter far nulla se non assistere passivamente agli eventi; sì che è fuori luogo l’affermazione della Corte di appello per cui il ricorrente sarebbe “un delinquente comune che cerca protezione in Italia”, poiché anzi la sua fuga era giustificata proprio dalla volontà di non divenire tale e di non morire per mano del gruppo.

L’affermazione della Corte, secondo cui ” l’Italia non può diventare il ricettacolo di chi delinque altrove ed è paradossale che illeciti commessi all’estero vengano qui proposti come un lasciapassare, tanto più che la giustizia nigeriana non è forcaiola, bensì risente positivamente delle tradizioni di common law assorbite in periodo coloniale”, è per il ricorrente emblematica del mancato approfondimento giudiziale non solo della sua vicenda personale, ma anche della situazione della giustizia e delle carceri nigeriane (tragica come testimoniato da alcuni rapporti internazionali, nel ricorso menzionati).

In merito al fatto che la Corte ritiene non esistente un pericolo che integri gli estremi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), poiché deriverebbe da vicende personali e non da una situazione di violenza indiscriminata diffusa nel Paese di origine a causa di un conflitto armato, il ricorrente deduce che il giudice di appello ha completamente omesso la verifica della situazione oggettiva caratterizzante la regione del “Delta State”, di provenienza di esso ricorrente, compiendo un grave errore “di gestione della procedura”.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce che la sentenza è caratterizzata da violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) e c), in combinato disposto con il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, relativamente alla protezione sussidiaria.

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), prevede che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, si considera come un grave danno “la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine” e possono essere considerati responsabili della persecuzione o del grave danno, ai sensi dell’art. 5, lett. c), del medesimo decreto legislativo, anche “soggetti non statuali, se i responsabili di cui alle lett. a) e b), comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione, ai sensi. dell’art. 6, comma 2, contro persecuzioni o danni gravi”.

Inoltre, lo stesso art. 14 alla lett. c) prevede che può essere considerato grave danno “la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.

Il ricorrente segnala diversi aspetti di rischio, in caso di suo rientro in Nigeria.

In primo luogo vi è il rischio costituito dall’esistenza della stessa confraternita, che configura l’ipotesi della lett. b) dell’art. 14 del suddetto decreto legislativo, posto che minacce e violenze subite da culti o confraternite nigeriane, per la violenza delle stesse, per l’organizzazione criminale, per le aderenze delle stesse con il mondo politico e con le forze di polizia nigeriane, costituiscono elementi non trascurabili e non riconducibili a mera “violenza privata”; nel caso di specie, il fatto che il ricorrente sia finito nel mirino della setta per il fatto di non volerne più far parte, costituisce un fattore di rischio non qualificabile come privato e quindi riconducibile alla lett. b) dell’art. 14.

E’ evidente, pertanto, che, avendo la Corte di appello di Firenze ritenuto veritiero il suo racconto, la sentenza si caratterizza da errore di valutazione alla base del mancato riconoscimento della protezione sussidiaria.

Inoltre, il ricorrente evidenzia l’ulteriore rischio della sua sottoposizione ad un processo penale alla luce dei fatti narrati: detta circostanza potrebbe esporre egli al pericolo di subire nelle carceri nigeriane “trattamenti disumani e degradanti” poiché, come testimoniato da alcuni documenti internazionali e confermato anche da alcune pronunce di merito, il regime carcerario e il sistema giudiziario nigeriani non sono rispettosi dei diritti umani.

Anche per tale circostanza, la Corte avrebbe dovuto riconoscere la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, ex art. 14, lett. b).

Infine, il ricorrente, proveniente dalla zona meridionale dello Stato della Nigeria (regione denominata “Delta State”), evidenzia che tale area geografica è una zona “ad altissimo rischio a causa del verificarsi di costanti episodi di violenza collegati anche a neo formatisi gruppi armati (quali i cd. “NDA”)”; a tal fine allega anche molti documenti e fonti da cui desumere un quadro generale preoccupante, tanto che ultime e recenti pronunce giurisprudenziali riguardanti casi di cittadini nigeriani provenienti dalle regioni meridionali del Paese hanno riconosciuto la protezione sussidiaria a causa della concreta situazione di pericolo presente caratterizzata da un clima di violenza generalizzata e “indiscriminata”, come richiesto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce che, per le ragioni nell’atto illustrate, la sentenza impugnata è caratterizzata da violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, in combinato disposto con il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in merito alla protezione umanitaria.

4. Il primo e il secondo motivo, da trattare congiuntamente in ragione della loro stretta connessione, risultano meritevoli di accoglimento per le ragioni di seguito illustrate.

La sentenza impugnata è caratterizzata: dall’implicitamente accertata attendibilità della narrazione fatta dal ricorrente (“ammesso che sia vero”); dalla qualificazione dei fatti narrati siccome attinenti alla sola sfera privata del ricorrente (“preoccupazione personale”); dall’assenza di qualunque riferimento a fonti internazionali recenti relative alla situazione interna allo Stato della Nigeria.

In primo luogo, la sentenza, nella parte in cui nega la sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), sul rilievo della natura meramente “privata” della vicenda dal ricorrente narrata (e implicitamente accertata), contrasta con il principio di diritto recentemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità per cui le minacce di morte subite da componenti di organizzazione criminale, integrano gli estremi del danno grave ai sensi della citata disposizione di legge (in questo senso, cfr., Cass. n. 3758 del 2018).

L’essere il ricorrente finito nel mirino della organizzazione criminale, abbandonata per non dover nuovamente partecipare ad attività di violenza alla persona, costituisce dunque un fattore di rischio non “privato” e, come tale, sussumibile nella fattispecie sopra indicata.

Sotto un ulteriore profilo, la Corte esclude la sussistenza di una situazione di violenza indiscriminata e diffusa in Nigeria (“la situazione della generale della Nigeria sotto il profilo della sicurezza appare meno favorevole di quella italiana, ma l’appellante è in grado di affrontarla, come tutti i connazionali che vi sono rimasti”) alla base della protezione sussidiaria secondo il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c): ciò però afferma omettendo qualsiasi accertamento sulla situazione della regione di provenienza del ricorrente sulla base di informazioni contenute nelle fonti menzionate dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e, pertanto, non ottemperando al obbligo di cooperazione istruttoria mediante l’esercizio di poteri officiosi di indagine e acquisizione documentale richiesto dalla disposizione di legge da ultimo citata per come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità.

Le Sezioni Unite della Corte hanno invero chiarito che “in tema di riconoscimento dello status di rifugiato (…) i principi che regolano l’onere della prova, incombente sul richiedente, devono essere interpretati secondo le norme di diritto comunitario contenute nella Direttiva 2004/83/CE, recepita con il D.Lgs. n. 251 del 2007”; “secondo il legislatore comunitario, l’autorità amministrativa esaminante ed il giudice devono svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, oltre che fondato sulla possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione necessaria”, tanto da ritenere che debba “ravvisarsi un dovere di cooperazione del giudice nell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato e una maggiore ampiezza dei suoi poteri istruttori officiosi” (in questo senso, cfr. Cass. S.U. n. 27310 del 2008).

Più nello specifico, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di precisare che l’approfondimento istruttorio in discorso deve essere compiuto con riguardo alla situazione sociale e politica del Paese di origine del richiedente sulla base di un accertamento che deve essere aggiornato al momento della decisione, non potendo basarsi su informazioni risalenti, ma dovendo essere svolto, anche mediante integrazione istruttoria ufficiosa, con riguardo all’attualità (in questo senso, cfr.: Cass. n. 17576 del 2010; Cass. n. 13897 del 2019; Cass. n. 08819 del 2020).

In tale ordine di concetti, la motivazione della sentenza impugnata, nella parte relativa alla affermazione di non sussistenza di pericoli di consistenza tale da giustificare il riconoscimento dei presupposti per la protezione sussidiaria il D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. b) ovvero lett. c), non si conforma ai principi in questa sede ribaditi.

La sentenza impugnata è dunque da cassare con rinvio alla Corte di appello di Firenze che, in diversa composizione, riesaminerà le domande di protezione sussidiaria e di concessione di permesso di soggiorno per ragioni umanitarie sulla base dei principi di diritto sopra ribaditi.

5. L’accoglimento dei primi due motivi nel senso teste’ precisato determina l’assorbimento del terzo, relativo alla protezione umanitaria.

6. Al giudice di rinvio è rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso e, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione, cui rimette anche la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione Civile, il 4 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2021

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