LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –
Dott. FERRO Massimo – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 13845/2020 proposto da:
E.O., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Lotti Mario giusta procura speciale in calve al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’interno (C.F. *****), in persona del Ministro pro tempore elettivamente domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;
– resistente –
avverso la sentenza n. 4593/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 18/11/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/04/2021 dal Consigliere VELLA Paola.
RILEVATO IN FATTO
CHE:
1. La Corte d’appello di Milano ha rigettato l’appello proposto dal cittadino nigeriano E.O., nato a ***** e vissuto a Benin City, avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di Milano aveva rigettato le domande di protezione internazionale o umanitaria da questi avanzate in quanto ingiustamente incolpato della morte della propria madre adottiva e perciò minacciato e aggredito dai familiari di quest’ultima.
2. Il ricorrente ha impugnato la decisione con tre motivi di ricorso per cassazione. Il Ministero intimato ha depositato un mero “atto di costituzione” per l’eventuale partecipazione alla pubblica udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
CHE:
2.1. Con il primo motivo si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e/o b), – Omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio che è stato oggetto di discussione – il rischio di “grave danno” nella forma della tortura, della condanna a morte o dell’esecuzione della pena di morte o del trattamento inumano o degradante”, per avere la corte d’appello escluso la stessa allegazione di fatti integranti il riconoscimento dello status di rifugiato o la protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b), quando invece il ricorrente aveva allegato: 1) di aver subito gravi maltrattamenti da parte del padre adottivo, che lo ritiene responsabile della morte della moglie; 2) di aver ricevuto dalla famiglia adottiva minacce alla propria incolumità e alla stessa vita dalle quali le autorità nazionali non erano in grado di proteggerlo adeguatamente; 3) di essere di religione cristiana di aver documentato le violenze di matrice religiosa esistenti in Nigeria sia per il dilagare dei fondamentalisti di Boko Haram sia per lo scontro in atto tra pastori nomadi, di religione musulmana, e agricoltori stanziali, di religione cristiana.
2.2. Il secondo mezzo lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 lett. c) e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, per non avere la corte d’appello indicato le fonti (cd. COI) dalle quali sarebbero state tratte le informazioni riportate in sentenza, comunque in contrasto con i “siti www.coi.net, www.refworld.org e la Farnesina” che “consentono di ritenere che la Nigeria, nel suo complesso, è sconvolta da una violenza indiscriminata e presenta una situazione di conflitto interno tale da ingenerare un danno nella forma della minaccia grave e individuale alla vita o alla persona dei civili per il solo fatto di trovarsi sul territorio nazionale”.
2.3. Il terzo motivo deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, nonché “omesso e/o comunque erroneo giudizio comparativo effettivo tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine e il livello di integrazione raggiunto in Italia – mancato assolvimento obbligo cooperazione istruttoria”, per non avere la corte d’appello adeguatamente considerato i profili di vulnerabilità soggettiva allegati dal ricorrente, in relazione ai gravi traumi patiti dapprima in Nigeria e poi in Libia (ove aveva soggiornato dal dicembre 2013 al luglio 2015), nonché il livello di integrazione raggiunto in Italia, dove è stato assunto come parrucchiere per un anno, dal 19/09/2017 (con contratto poi prorogato al 30/09/2020) e di avere avuto in data 07/11/2019 un figlio dalla cittadina nigeriana, con la quale intende contrarre matrimonio anche secondo il rito italiano.
3. Tutti i motivi sono affetti da profili di inammissibilità.
3.1. Il primo non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, poiché la corte territoriale non ha omesso di considerare i maltrattamenti e le minacce subite dal padre adottivo del ricorrente, ma ha condivisibilmente ritenuto che si trattasse di fatti non integranti i presupposti per il riconoscimento né dello status di rifugiato (avuto riguardo alla tipologia degli atti e dei motivi di persecuzione, anche nella loro idoneità ad ingenerare un fondato timore di persecuzione personale e diretta, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007 art. 2, comma 2, lett. e) e art. 8) né della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), non essendo emersa l’esposizione del ricorrente al rischio di condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte o della tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, a fronte del rappresentato “timore di subire ulteriori maltrattamenti e persecuzione da parte del padre adottivo” (che gli avevano lasciato “cicatrici sulle gambe e sulla spalla destra”), stanti le “difficoltà di avere tutela e protezione da parte delle autorità locali”; il tutto a causa di una lettera ricevuta a luglio del 2013 in cui il padre adottivo lo avvertiva che “sarebbe stato ucciso se fosse stato trovato”, dopo la morte della madre adottiva a gennaio 2013 e la celebrazione dei funerali a maggio 2013. Del tutto generica e priva di riscontri individuali risulta poi l’allegazione relativa alla religione cristiana del ricorrente 3.2. Anche il secondo motivo è generico, poiché le COI indicate in ricorso non hanno una specifica attinenza alla situazione della città di provenienza del ricorrente (Benin City), ed è evidentemente ad esse che si riferisce la corte territoriale quando a pag. 8 della sentenza afferma che “dai resoconti più recenti” emerge che “nella zona di provenienza dell’appellante (Edo State) si registra un’attività criminale che tuttavia non integra atti di violenza indiscriminata contro i civili tale da mettere a rischio la vita del ricorrente per il fatto stesso di trovarsi in quel territorio”.
3.3. Il terzo motivo, oltre a non rispettare i canoni delle censure motivazionali di cui al novellato art. 360 c.p.c., n. 5), – che onerano il ricorrente di indicare, nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.p., comma 2, n. 4) il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti, nonché la sua “decisività” (ex multis Cass. Sez. U, 8053/2014; Cass. 19987/2017, 27415/2018, 6735/2020) – veicola censure meritali, come tali sottratte al sindacato di legittimità (Cass. 11863/2018, 29404/2017, 16056/2016).
3.4. In particolare, con riguardo alla riferita permanenza in Libia, rilevano ai fini della protezione umanitaria solo eventi idonei ad ingenerare un forte grado di traumaticità, tale da incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona (Cass. 13096/2019), poiché il fatto che in un paese di transito si sia consumata una violazione dei diritti umani non comporta di per sé l’accoglimento della domanda di protezione umanitaria, dovendosi accertare che lo straniero venga ad essere perciò privato della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, per effetto del rimpatrio nel Paese di origine, di cui cioè si abbia la cittadinanza, non già di un Paese terzo (cfr. Cass. 4455/2018, 2861/2018, 13858/2018, 29875/2018).
3.6. Le ulteriori circostanze allegate – di alcune delle quali non vi è traccia nel provvedimento impugnato (si veda la nascita di un figlio dopo la pubblicazione della sentenza impugnata) – non risultano decisive, tenuto conto che lo stesso ricorrente ha dichiarato che in Nigeria aveva frequentato la scuola secondaria ed aveva lavorato come barbiere e musicista.
3.7. Invero, la protezione umanitaria – astrattamente riconoscibile ratione temporis (Cass. Sez. U, 29459/2019) – richiede il riscontro di “seri motivi” (non tipizzati) diretti a tutelare situazioni di vulnerabilità individuale (Cass. 23778/2019, 1040/2020), escludendo che il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari possa essere riconosciuto solo in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza, ovvero considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia (Cass. Sez. U, nn. 29459, 29460, 29461 del 2019; Cass. 4455/2018, 630/2020).
4. In ultima analisi, il ricorso va dichiarato inammissibile poiché, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, mira ad una rivalutazione dei fatti storici o delle risultanze probatorie operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U, 34476/2019).
5. L’assenza di difese dell’intimato esonera dalla pronuncia sulle spese. Sussistono i presupposti processuali per il cd. raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (cfr. Cass. Sez. U, 23535/2019 e 4315/2020).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 21 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2021