LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L. G. S. – Consigliere –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 7476/2019 proposto da:
M.N., rappresentato e difeso dall’Avv. Rosa Vignali, come da procura in calce al ricorso per cassazione;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica, domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato;
– intimato –
avverso il decreto del Tribunale di BRESCIA, n. 400/2019, pubblicato il 23 gennaio 2019.
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/09/2021 dal Consigliere Caradonna Lunella.
RILEVATO IN FATTO
CHE:
1. Con decreto del 23 gennaio 2019, il Tribunale di Brescia ha respinto la domanda presentata da M.N., nato a Tapal Kandi, in Bangladesh, di riconoscimento della protezione internazionale, confermando il provvedimento di diniego della competente Commissione territoriale.
Il ricorrente ha dichiarato di avere lasciato il paese di origine a causa di alcuni problemi dovuti alla religione induista professata dalla madre e di essere stato picchiato per alcuni lavori fatti male per i quali non era stato neppure pagato.
Per la cassazione di tale decreto ha proposto ricorso M.N. affidato a quattro motivi.
Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.
CONSIDERATO IN DIRITTO
CHE:
1. Deve osservarsi, preliminarmente, che, con ordinanza interlocutoria del 23 giugno 2021, n. 17970, questa Corte ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, per contrasto con gli artt. 3,10,24,111 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 28 e 46, p. 11, della direttiva 2013/32/UE (Procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca della protezione internazionale), nonché agli artt. 18, 19, p. 2 e 47 della Carta dei diritti UE e agli artt. 6, 7, 13 e 14 della CEDU, la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35 bis, comma 13, nella parte in cui, secondo l’interpretazione adottata nell’esercizio della funzione nomofilattica dalle Sezioni Unite, con sentenza 1 giugno 2021, n. 15177, da ritenersi diritto vivente, prevede che la mancanza della certificazione della data di rilascio della procura da parte del difensore, limitatamente ai procedimenti di protezione internazionale, determini la inammissibilità del ricorso.
1.1 Nel caso di specie la procura speciale conferita il 20 febbraio 2019 al difensore in calce al ricorso per cassazione non rispetta il citato il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 13, così come interpretato dalle Sezioni Unite, perché totalmente priva della necessaria certificazione della data di rilascio successiva alla pronuncia del decreto impugnato.
1.2 Ciò posto, deve osservarsi che la questione di legittimità costituzionale rimessa alla Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 17970/2021 non assume rilievo decisivo ai fini della definizione della lite, alla stregua del principio della ragion più liquida conforme al generale principio di economia processuale, desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost.; in tal modo la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, anche se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare previamente le altre, imponendosi, a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica.
Il ricorso in questione appare, infatti, inammissibile anche nel suo contenuto, con totale equivalenza dell’epilogo decisorio, della statuizione adottata e dei suoi effetti giuridici.
2. Con il primo motivo si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità del provvedimento finale per la violazione dell’art. 112 c.p.c., perché il decreto argomenta sulla non verosimiglianza delle dichiarazioni, circostanza non contenuta nel diniego della Commissione territoriale, né dedotta in giudizio dalla stessa in sede di costituzione.
2.1 Il motivo è inammissibile, perché non si confronta con l’iter argomentativo del Tribunale, laddove ha affermato che la reale motivazione che ha indotto il ricorrente a lasciare il Bangladesh era legata esclusivamente a ragioni di natura economica, sia perché la madre viveva ancora a Dhaka senza subire alcuna discriminazione religiosa, sia perché il richiedente si era sempre professato musulmano.
Poiché questa affermazione che, integra un’autonoma ratio decidendi ed è idonea a sorreggere di per sé sola la decisione sul punto, non è stata fatta oggetto di alcuna contestazione, ne deriva, come questa Corte ha più volte osservato, che il ricorrente non ha interesse a dolersi del profilo qui impugnato, poiché, quand’anche se ne riscontrasse la fondatezza, l’impugnata decisione si suffragherebbe pur sempre in base all’affermazione non censurata (Cass., 12 ottobre 2007, n. 21431).
3. Con il secondo motivo si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame del fatto che la persecuzione della madre indù si era riverberata sul figlio allora minorenne.
4. Con il terzo motivo si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, errando il Tribunale nel ritenere che il figlio minorenne, musulmano, non avesse subito gli effetti pregiudizievoli delle condotte contro la madre e che le condotte persecutorie nei confronti degli appartenenti alla religione indù non erano state represse dall’ordinamento.
4.1 Anche questi motivi, che vanno trattati insieme perché connessi, sono inammissibili per difetto del requisito dell’attinenza della censura alla ratio decidendi della sentenza impugnata, poiché il Tribunale, dopo avere escluso, come già detto, l’esistenza di una persecuzione nei confronti della madre per motivi religiosi, ha affermato, a pag. 3 del provvedimento impugnato, che il ricorrente, in quanto di religione musulmano, non era il reale destinatario delle asserite condotte persecutorie.
I giudici di merito, inoltre, hanno pure evidenziato, con autonome ragioni del decidere che non sono state minimamente censurate dal ricorrente, che quest’ultimo, anche a seguito di specifica interlocuzione sollecitata sul punto dal Tribunale, non aveva riferito di comportamenti discriminatori subiti, rispondendo genericamente di “sentirsi offeso” dai commenti negativi sulla religione della madre e che era stato picchiato solo quando aveva richiesto il pagamento della propria retribuzione ai suoi datori di lavoro.
Peraltro, il motivo è pure inammissibile, atteso che il denunciato vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 concerne esclusivamente l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, che abbia carattere decisivo, ovvero è necessario che la sua assenza conduca, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, ad una diversa decisione, in un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data, vale a dire un fatto che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass., 8 ottobre 2014, n. 21152; Cass., 14 novembre 2013, n. 25608).
5. Con il quarto motivo si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2005, art. 32, in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per non avere il Tribunale valutato la situazione di vulnerabilità del ricorrente, che trovava origine nella persecuzione religiosa in danno della madre.
5.1 Il motivo, che sovrappone profili di censura già svolti, è inammissibile, avendo il Tribunale affermato, con una motivazione non censurata minimamente, che gli elementi emersi non offrivano alcuna evidenza in ordine ad una peculiare situazione di vulnerabilità del ricorrente e che non assumeva valore decisivo l’inserimento familiare, sociale, culturale e lavorativo in Italia, non essendo Da l’assunzione a tempo determinato ottenuta nei mesi compresi tra la richiesta di protezione internazionale ed il suo rigetto e che nel paese d’origine viveva ancora la madre, che non aveva mai smesso di occuparsi del figlio; il tribunale, inoltre, ha evidenziato che le criticità, pure esistenti in Bangladesh, non erano tali da dare luogo ad una vera e propria emergenza generalizzata (cfr. pagine 7 e 8 del decreto impugnato).
6. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Nulla sulle spese, poiché l’Amministrazione intimata non ha svolto difese.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.
Così deciso in Roma, il 21 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2021