Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.26977 del 05/10/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 29043/19 proposto da:

-) U.J., elettivamente domiciliato a Genova, via Dante Alighieri n. 2, presso l’avvocato Damiano Fiorato che lo difende in virtù di procura speciale apposta in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

-) Ministero dell’Interno;

– resistente –

avverso il decreto del Tribunale di Milano 16.8.2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10 settembre 2020 dal Consigliere relatore Dott. Rossetti Marco.

FATTI DI CAUSA

1. U.J., cittadino bengalese, chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 7 e ss.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).

A fondamento della domanda dedusse di avere lasciato il Bangladesh per mancanza di lavoro, e per il bisogno di denaro necessario per assistere la madre ed il fratello, ambedue infermi.

La Commissione Territoriale rigettò l’istanza.

2. Avverso tale provvedimento U.J. propose, ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35 bis, ricorso dinanzi alla sezione specializzata, di cui al D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, art. 1, comma 1, del Tribunale di Milano, che la rigettò con decreto 15.6.2019.

Il Tribunale ritenne che:

-) lo status di rifugiato non potesse essere concesso, perché i fatti riferiti dal richiedente non dimostravano alcuna persecuzione;

-) la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), non potesse essere concessa, perché il richiedente non era esposto ad alcun rischio di condanna a morte o tortura;

-) la protezione sussidiaria per l’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), non potesse essere concessa perché nella zona di provenienza del ricorrente non era in atto alcuna situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato;

-) la protezione umanitaria, infine, non potesse essere concessa perché il richiedente, nel caso di rimpatrio, non sarebbe stato esposto ad alcuna situazione di grave violazione dei diritti inviolabili; né aveva dimostrato di avere conseguito un effettivo radicamento in Italia.

Ha aggiunto che non poteva considerarsi un “elemento di vulnerabilità” la circostanza che il richiedente, disponendo di un podere, avesse deciso di impiegare il denaro ricavato dalla vendita per finanziarsi il viaggio in Italia, invece che per assistere i familiari.

3. Il suddetto decreto è stato impugnato per cassazione da U.J. con ricorso fondato su tre motivi.

Il Ministero dell’Interno non si è difeso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo il ricorrente censura il rigetto della domanda di protezione sussidiaria.

Il motivo – secondo l’unica interpretazione che a questa Corte pare plausibile, tenuto conto della confusa tecnica scrittoria adottata nell’illustrazione di esso – sostiene che il Tribunale avrebbe errato nel non considerare che in Bangladesh i debitori insolventi sono ridotti in schiavitù e costretti a lavorare.

1.1. Il motivo è inammissibile, in quanto estraneo alla ratio decidendi. Il Tribunale ha ritenuto che nei fatti narrati dal richiedente non fosse ravvisabile né una persecuzione, né il rischio di condanna a morte o tortura.

Il ricorrente, nel censurare tale decisione – corretta, stando a quanto dichiarato dallo stesso ricorrente nel rispondere all’interrogatorio svolto dinanzi al Tribunale – sostiene che nel suo Paese sarebbe esposto al rischio di “schiavitù per debiti”: ma non indica da parte di chi, per quali debiti, per quali importi. Nemmeno indica dove ed in che termini abbia mai prospettato, nel grado di merito, il rischio di essere “ridotto in schiavitù per debiti”, né se abbia mai prospettato che le autorità bengalesi non siano in grado di contrastare questo fenomeno.

2. Col secondo motivo il ricorrente censura il rigetto della sua domanda di protezione umanitaria.

Sostiene che nel caso di rimpatrio sarebbe “vulnerabile” sia per il proprio credo religioso (non è dato sapere quale), sia perché sarebbe esposto a “plurime cause di vulnerabilità”.

2.1. Il motivo è manifestamente inammissibile per la totale mancanza di illustrazione.

3. Non è luogo a provvedere sulle spese, a causa della indefensio della Amministrazione.

P.Q.M.

(-) dichiara inammissibile il ricorso;

(-) ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, il 10 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2021

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