Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.27088 del 06/10/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

C.P., rappresentato e difeso per procura speciale alle liti per atto notaio C. P. del ***** dall’Avvocato Angelo Colucci, elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, via Italo Carlo Falbo n. 22;

– ricorrente –

contro

Fallimento ***** s.a.s., in persona del curatore avv. L.F., e G.G., rappresentati e difesi per procura in calce al controricorso dagli Avvocati Fabio Francesco franco, e Tiziana Stefanelli, elettivamente domiciliati presso lo studio del primo in Roma, via Giovanni Pierluigi da Palestrina n. 19;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 149 della Corte di appello di Lecce, depositata il 2 febbraio 2018;

Viste le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Mistri Corrado, che ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile o comunque infondato.

FATTI DI CAUSA

Con sentenza del 1994 la Corte di appello di Lecce pronunciò la risoluzione del contratto di permuta intervenuto tra C.P. e la società ***** s.a.s., in forza del quale il C. aveva trasferito a quest’ultima un proprio immobile composto da fabbricato e terreno edificabile e la società si era obbligata a trasferirgli alcune unità immobiliari facenti parte dell’edificio da costruire nella suddetta area. La sentenza risolse il contratto per inadempimento della società *****, per avere essa costruito le unità immobiliari oggetto di trasferimento in modo difforme dal pattuito e condannò la suddetta società al risarcimento dei danni da liquidarsi in altro giudizio.

A seguito di tale pronuncia con distinti atti di citazione, nel 1998 e nel 2003, il C. convenne dinanzi al Tribunale di Brindisi la società *****, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni sofferti, costituiti sia dalla demolizione dell’originario fabbricato esistente sul terreno ceduto, che dal mancato conseguimento dei beni che avrebbero dovuto essergli trasferiti.

La società ***** si oppose alle domande e chiese in via riconvenzionale la condanna del C. al pagamento del valore delle costruzioni realizzate e da questi trattenute.

Riunitele cause, subentrato in giudizio il fallimento della società ***** e costituitosi altresì in giudizio G.G. in qualità di assuntore del concordato fallimentare, con sentenza n. 562 del 2013 il Tribunale, in parziale accoglimento delle richieste delle parti, determinò in Euro 71.107,00, oltre interessi e rivalutazione dall’ottobre 2000, il danno subito dal C. e in Euro 331.048,87 l’incremento di valore del suo fondo per effetto delle opere eseguite dalla controparte; previa compensazione dei rispettivi crediti e detratto altresì il conguaglio versato dalla società al momento della stipula, condannò quindi il C. a corrispondere al Fallimento o a G.G., nella predetta qualità, la somma di Euro 270.271,28, oltre interessi e rivalutazione dalla domanda al saldo.

Per la riforma di questa decisione proposero appello principale il C. e appello incidentale il Fallimento e G.G..

Con sentenza n. 149 del 2 febbraio 2018 la Corte di appello di Lecce respinse gli appelli. La Corte rigettò, per quanto qui interessa, l’appello principale del C., affermando, quanto al danno lamentato per il mancato conseguimento del valore dei beni della permuta che avrebbero dovuto essergli trasferiti, che, come accertato dal primo giudice, vi era una sostanziale equivalenza di valore tra i beni di cui al contratto e quelli ricevuti; che nel caso di specie non era applicabile la disciplina di cui all’art. 936 c.c., secondo cui il proprietario del suolo acquista automaticamente la proprietà delle opere in esso realizzate dal terzo, atteso che il fenomeno dell’accessione opera nei soli casi in cui il terzo che costruisce non abbia alcun rapporto giuridico con il proprietario, mentre nel caso concreto l’attività costruttiva era stata realizzata in forza di un contratto, con la conseguenza che, essendo stato detto contratto risolto per inadempimento, la disciplina degli effetti della risoluzione sui rapporti tra le parti andava ricercata nella specifica disposizione di cui all’art. 1458 c.c., la quale prevede gli obblighi di restituzione delle prestazioni ricevute indipendentemente dall’imputabilità dell’inadempimento; che nella specie, avendo il C. trattenuto gli immobili costruiti, aveva l’obbligo di corrisponderne il valore; che, con riguardo all’accoglimento solo parziale della domanda di risarcimento del danno relativo alla perdita dei frutti civili che avrebbe tratto dagli immobili che dovevano essergli trasferiti, non era stata dal C. contestata la circostanza di avere ricevuto l’offerta dell’immobile già nel 1987, per cui la mancata presa in consegna del bene era imputabile allo stesso; che, al riguardo, l’offerta anche non formale da parte del debitore vale ad escludere a suo carico gli obblighi risarcitori per la ritardata consegna; che, con riferimento al danno per ritardato ed omesso rilascio dei beni realizzati dalla società *****, il primo giudice aveva correttamente riconosciuto tale risarcimento dal 1997, ossia dalla data del passaggio in giudicato della sentenza che aveva risolto il contratto di permuta, e non dal 1987, data di completamento dell’edificio, tenuto conto della rilevata inapplicabilità dell’istituto dell’acquisto automatico per accessione; che la precedente pronuncia della Corte di appello di risoluzione non aveva statuito sull’esistenza del diritto al risarcimento a tale titolo, risultando motivata dal fatto che i beni consegnati erano diversi da quelli pattuiti e non dal mancato rispetto del termine per la consegna; che il C. non aveva fatto alcun cenno nei propri atti di citazione a tale causa di danno, sicché la doglianza doveva considerarsi inammissibile perché nuova; che anche a ritenere applicabile l’art. 936 c.c., il risarcimento del danno spetta al proprietario del suolo nel solo caso in cui abbia chiesto la rimozione dell’opera, non anche quando l’abbia ritenuta; che in caso di risarcimento del danno per inadempimento gli interessi decorrono dalla domanda giudiziale, che nella specie è stata avanzata nel 1998; che l’eccezione di difetto di legittimazione attiva di G.G., quale assuntore del concordato, era infondata, atteso che la sentenza del Tribunale che aveva annullato il concordato era stata riformata dalla Corte di appello di Lecce; che con riguardo alla domanda riconvenzionale della società parte convenuta di condanna del C. al pagamento del valore dei beni costruiti, l’eccezione sollevata dall’appellante di inammissibilità per indeterminatezza del petitum, non era fondata avendo essa un oggetto individuato; che correttamente la sentenza appellata aveva considerato ai fini del calcolo del valore dei beni trattenuti dal C. anche gli immobili che la stessa società ***** aveva ceduto a terzi, atteso che la relativa contestazione era stata formulata in primo grado in modo generico, senza indicare l’importo corrispondente da detrarre dal complessivo indennizzo, che i suddetti acquirenti non erano parti del giudizio, che i relativi atti di acquisto erano stati risolti giudizialmente dal Tribunale di Brindisi e che gli stessi atti di acquisto da loro stipulati prevedevano una clausola di caducazione del trasferimento in caso di accoglimento della domanda di risoluzione del contratto di permuta proposta dal C.; che, con riguardo alla valutazione della somma oggetto della domanda riconvenzionale, la sentenza di primo grado non poteva ritenersi viziata per non avere considerato la situazione di inagibilità delle rimesse vincolate a parcheggio e di taluni appartamenti, tenuto conto che non risultavano elementi per paventare un ordine di demolizione dei beni e che le irregolarità edilizie riscontrate dal consulente tecnico d’ufficio erano state tenute debitamente in conto dal Tribunale, che aveva per tale ragione abbattuto l’indennizzo di una percentuale variabile tra il 30 ed il 60%; che l’omessa considerazione, ai fini del danno lamentato, del valore del suolo era giustificata in quanto il vantaggio acqui9to dall’appellante con la ritenzione delle opera aveva carattere prioritario ed assorbente rispetto a tale eventuale pregiudizio; che, quanto al valore del fabbricato ai fini dell’ammontare dell’indennizzo, la valutazione compiuta dal Tribunale appariva corretta in quanto fondata sulle condivisibili risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, che aveva risposto in modo analitico alle osservazioni critiche del consulente di parte; che, con riferimento alla decorrenza della rivalutazione applicabile all’indennizzo, correttamente essa era stata prevista dalla domanda giudiziale; che parimenti appariva esatta la corresponsione da tale momento degli interessi.

Per la cassazione di questa sentenza, notificata il 14 marzo 2018, ha proposto ricorso C.P., con atto notificato il 14 maggio 2018, deducendo 14 motivi.

Hanno resistito con un unico controricorso la Curatela del fallimento ***** s.a.s. e G.G., quale assuntore del concordato fallimentare.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

La trattazione del ricorso si è svolta, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito con la L. 18 dicembre 2010, n. 176, in camera di consiglio senza l’intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, non essendo stata presentata richiesta di discussione orale.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c. e, sotto più profili, dell’art. 183 c.p.c., comma 4, e art. 329 c.p.c. in relazione agli artt. 934,936 e 1458 c.c. nonché degli artt. 24 e 111 Cost.

Nello specifico il mezzo lamenta la violazione del principio della domanda, per avere il giudice di appello dichiarato applicabile al rapporto dedotto in giudizio la disciplina dell’art. 1458 c.c., in luogo di quella dell’accessione dettata dall’art. 936, che pure era stata ritenuta pacifica tra le parti, non era mai stata posta in discussione ed era stata applicata dal giudice di primo grado. Ne’ la decisione sul punto può ricondursi, ad avviso del ricorrente, all’esercizio del potere che compete senz’altro al giudice di qualificare la domanda e di individuare la disciplina applicabile al rapporto giuridico dedotto in giudizio, atteso che tale potestà incontra pur sempre il limite dell’osservanza delle allegazioni delle parti, con specifico riguardo alla causa petendi, tenuto conto della diversità dei presupposti e della natura giuridica delle azioni promuovibili ai sensi dell’art. 1458 c.c. rispetto a quelle scaturenti dall’accessione prevista dall’art. 936, su cui la stessa società ***** aveva fondato le sue pretese.

Si assume inoltre che un così radicale mutamento dell’inquadramento giuridico della fattispecie concreta avrebbe imposto al giudicante, a tutela del diritto di difesa delle parti, l’obbligo di indicare alle stesse la relativa questione, al fine di provocare su di essa il contraddittorio e di consentire di formulare specifiche deduzioni.

Il motivo è infondato.

Dall’esposizione dei fatti del processo dedotta in ricorso risulta invero che C.P. aveva svolto negli atti di citazione delle cause poi riunite dal giudice di primo grado domande di condanna della società convenuta di risarcimento dei danni da lui subiti a causa della risoluzione per inadempimento della controparte del contratto di permuta. Del resto tali pretese risultavano fondate da parte dell’attore proprio sulla sentenza della Corte di appello di Lecce n. 800 del 1994, che aveva risolto detto contratto per inadempimento della società ***** ed aveva pronunciato nei confronti di quest’ultima condanna generica al risarcimento dei danni.

In tale contesto la questione dell’applicabilità al rapporto controverso dell’art. 936 c.c., secondo cui il proprietario del suolo acquista automaticamente la proprietà delle opere in esso realizzate dal terzo, non costituiva fatto costitutivo della domanda, che traeva titolo pur sempre dalla risoluzione del contratto per colpa della società, ma incideva unicamente sulla entità e misura dei danni risarcibili, investendo la questione di quando il C., proprietario del suolo, avesse acquisito la proprietà dell’edificio realizzato da controparte e poteva quindi dirsi privato del suo godimento, se al momento della sua costruzione, in virtù del principio dell’accessione presupposto dalla disciplina dell’art. 936, ovvero dal momento della risoluzione del contratto e dal successivo effetto acquisitivo rappresentato dalla rinuncia delle parti agli effetti restitutori delle prestazioni già eseguite.

Il giudice di appello, pertanto, nell’affermare che il caso di specie sfuggiva alla disciplina prevista dall’art. 936 c.c., non è incorso nella violazione del principio della domanda, ma si è limitato, nell’esercizio del suo potere decisorio, ad applicare la disciplina giuridica ritenuta più confacente al caso concreto.

In tali rilievi trova soluzione la doglianza del ricorrente che denunzia la violazione del diritto di difesa, per non avere il giudicante sollevato d’ufficio la relativa questione sottoponendola al potere di interlocuzione delle parti. Il tema de quo, attenendo alla scelta della norma di diritto sostanziale applicabile alla fattispecie concreta, non può infatti configurarsi come questione rilevabile d’ufficio su cui il giudicante abbia il dovere di provocare il contraddittorio, essendo diretta estrinsecazione del potere di giudicare, vale a dire del potere del giudice di individuare la norma di legge per la risoluzione del conflitto.

Il secondo motivo di ricorso, denunziando violazione o falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 934, 936 e 1458 c.c., assume l’erroneità della soluzione giuridica fatta propria dalla Corte di appello, dal momento che, si sostiene, la disciplina dettata dall’art. 936 c.c. trova applicazione non solo quando l’opera del terzo sul suolo altrui è eseguita in assenza di alcun vincolo contrattuale, ma anche nel caso in cui il contratto sia venuto meno per invalidità o per risoluzione.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha precisato che la disciplina dell’accessione di cui all’art. 936 c.c. è applicabile esclusivamente quando le opere siano state realizzate da un soggetto che non abbia con il proprietario del fondo nessun rapporto giuridico, di natura reale o personale, che gli conferisca la facoltà di costruire sul suolo, mirando la norma a regolare la ricaduta patrimoniale di un’attività di costruzione su suolo altrui che coinvolga soggetti fra loro terzi; tale requisito non sussiste, invece, quando l’attività costruttiva esprima non già l’esercizio di un diritto, bensì l’adempimento di un’obbligazione il cui mancato assolvimento, determinando la conseguente risoluzione, implica l’insorgenza di un obbligo restitutorio, ai sensi dell’art. 1458 c.c., da soddisfare in natura, ove possibile, o per equivalente monetario. In tal caso, l’esigenza normativa non è l’assegnazione della proprietà di un bene, quanto il ripristino delle rispettive posizioni economiche delle parti contraenti, riportandole per quanto possibile alla situazione preesistente alla stipula del contratto, così da attuare il ripristino delle posizioni economiche rispettive, che vanno ricondotte tendenzialmente alla situazione quo ante (Cass. n. 27900 del 2017; Cass. n. 1378 del 2012). Il diritto potestativo del proprietario del suolo di ritenere la costruzione, avvalendosi dell’accessione, previsto dall’art. 936 c.c., in questo caso non sorge, trattandosi di facoltà incompatibile con l’obbligo restitutorio che consegue alla risoluzione.

Il terzo motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., nonché degli artt. 934,936 e 2909 c.c..

Si assume che la decisione impugnata è caduta in errore laddove, nell’escludere l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 936 c.c., ha affermato che nessun titolo giudiziario aveva mai pronunciato l’avvenuta accessione delle opere eseguite dalla ***** in favore del terreno del C., laddove al contrario vi sono diversi provvedimenti che l’hanno affermata o comunque posta come presupposto delle loro decisioni, quali la sentenza della Corte di appello di Lecce 576 del 2007 e le sentenze del Tribunale di Taranto n. 4 del 2002 e del Tribunale di Brindisi nn. 87, 88, 89 e 90 del 2002.

Anche questo motivo non può essere accolto.

Merita innanzitutto precisare che le sentenze del Tribunale di Brindisi invocate dal ricorrente risultano emesse in giudizi svoltisi tra il C. e parti diverse dalla società G.P., sicché difetta ai fini dell’eccezione di giudicato il requisito necessario della identità soggettiva delle parti. Quanto alla sentenza della Corte di appello di Lecce 576 del 2007, che è confermativa della sentenza del Tribunale di Taranto n. 4 del 2002, la stessa risulta emessa a seguito di opposizione avanzata dal Fallimento della società al precetto con il quale il C. aveva intimato il rilascio del terreno in forza della nota sentenza della Corte di appello n. 800 del 1994 di risoluzione della permuta. In particolare, dalla lettura della decisione risulta che il thema decidendum sollevato con l’opposizione atteneva squisitamente alla materia esecutiva, riguardando la suscettibiltà ad esecuzione forzata della statuizione di condanna al rilascio del terreno, che risultava avere ad oggetto il solo suolo edificatorio. La società aveva infatti contestato il diritto dell’altra parte a procedere ad esecuzione in quanto il rilascio avrebbe coinvolto anche il fabbricato costruito sul predetto terreno.

Ciò posto, deve ritenersi che l’oggetto del giudizio e lo stesso fatto costitutivo della pretesa fatta valere, da individuarsi nell’ordine di rilascio contenuto nella sentenza posta in esecuzione, erano affatto diversi dal tema relativo all’applicabilità nella fattispecie della disciplina posta dall’art. 936 c.c. Tale considerazione impedisce di ravvisare nella menzionata decisione l’effetto vincolante proprio del giudicato. Ne’ rileva, in contrario, che nella propria motivazione la sentenza richiami detta disposizione, atteso che tale richiamo, da un lato, non vale ad attribuire ad esso il valore accertativo di un fatto costitutivo, dall’altro è preceduto dal rilievo in ordine all’effetto retroattivo della emessa pronuncia di risoluzione del contratto, che fa espresso rinvio alla norma di cui all’art. 1458 c.c. e quindi agli effetti restitutori conseguenti. Il quarto motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 324 c.p.c., art. 2909 c.c. e art. 111 Cost. Violazione o falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 934, 936, 1218, 1223, 1224, 1458 e 2909 c.c.

Il mezzo lamenta che la sentenza impugnata non abbia accolto il motivo di appello avverso la decisione di primo grado che aveva negato il risarcimento del danno conseguente alla mancata consegna degli immobili pattuiti in contratto e non realizzati, in contrasto con il giudicato formatosi sulla sentenza n. 800 del 1994 della Corte di appello di Lecce, che aveva risolto la permuta per inadempimento della società *****, per essere i beni costruiti diversi da quelli convenuti, e l’aveva condannata al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio. In particolare, l’affermazione della sentenza che sorregge tale decisione, cioè la mancanza di ” una oggettiva differenza di valore tra i beni di cui al contratto e quelli effettivamente ricevuti ” si pone in contrasto con la sentenza precedente del 1994, che aveva pronunciato la risoluzione per inadempimento “anche per il minor apporto di utilità” dell’appartamento costruito rispetto a quello convenuto.

Il motivo non è fondato.

Priva di pregio appare la censura secondo cui il mancato accoglimento della richiesta di risarcimento del danno per la mancata acquisizione dei beni oggetto di permuta sarebbe in contrasto con la sentenza n. 800 del 1994, che aveva risolto il contratto e condannato la società ***** in via generica al risarcimento dei danni. Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, infatti, la sentenza di condanna generica al risarcimento dei danni si fonda sul presupposto dell’accertamento non già dell’esistenza di un danno in concreto, ma solo della potenziale idoneità di un certo fatto a produrlo, con la conseguenza che nel successivo giudizio di liquidazione devono essere accertate non solo la misura ma anche l’effettiva esistenza del danno e che il giudicato formatosi sull’an debeatur non preclude, in sede di determinazione del risarcimento, il rigetto della domanda, ove il giudice accerti l’inesistenza del danno (Cass. n. 20444 del 2016; Cass. n. 11651 del 2002).

Tanto precisato, il mezzo è anche inammissibile in quanto la motivazione fornita dalla Corte leccese a sostegno della pronuncia di rigetto si fonda sull’affermazione dell’inesistenza di un danno in concreto, in ragione della non riscontrata ” oggettiva differenza di valore tra i beni di cui al contratto e quelli effettivamente ricevuti “, che integra un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità.

Il quinto motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione degli artt. 112,324 c.p.c., art. 2909 c.c. e art. 111 Cost. Violazione o falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 934, 936, 1218, 1223, 1224, 1453, 1458 e 2909 c.c.

Il mezzo lamenta che la sentenza impugnata non abbia accolto il motivo di appello avverso la decisione di primo grado che gli aveva negato il risarcimento del danno rappresentato dalla perdita dei frutti civili che avrebbe ottenuto dai beni oggetto del contratto di permuta, sulla base del rilievo che egli aveva ricevuto ” l’offerta dell’immobile già nel 1987, per cui allo stesso è imputabile la mancata presa di consegna del bene “. Si assume che tale decisione è errata, per avere ignorate la deduzione dell’appellante che gli immobili gli erano stati consegnati solo nel 2000/2001 e non nel 1987.

Il mezzo è infondato.

L’argomento addotto dalla Corte territoriale a sostegno del rigetto del corrispondente motivo di appello, secondo cui il C. non avrebbe accolto l’offerta dell’immobile fatta dalla società ***** nel 1987, integra un accertamento di fatto, non censurabile in sede di legittimità, e non superabile dal rilievo svolto dal ricorrente di avere ricevuto gli immobili soltanto nel 2000/2001, atteso che tale circostanza di per sé non esclude l’esistenza della precedente offerta. La statuizione che ha escluso per tale ragione l’obbligo di risarcimento del relativo danno appare coerente con tale premessa e conforme all’orientamento della giurisprudenza e della dottrina in ordine agli effetti dell’offerta non formale della prestazione da parte del debitore.

Il sesto motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione degli artt. 112,115,183 e 345 c.p.c., dell’art. 2909 c.c. e art. 111 Cost. Violazione o falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 934, 936, 1218, 1223, 1224, 1453, 1458, 2909 e 2947 c.c.

Il ricorrente lamenta il mancato riconoscimento in suo favore del danno consistito nel fatto di non avere avuto la disponibilità, fin dalla data della loro realizzazione, delle opere accedute al suo suolo e il rigetto della sua richiesta di rivalutazione di dette somme e degli interessi legali sulle stesse a far data dalla edificazione. La pronuncia di primo grado, che aveva ritenuto che tale risarcimento dovesse decorrere dal settembre 1997, data di passaggio in giudicato della sentenza di risoluzione contrattuale, e non dalla data di completamento dell’edificio, è stata confermata in appello, ma sulla base del rilievo, erroneo in forza del richiamo alle critiche già espresse, circa l’inoperatività nel caso di specie dell’accessione.

Il ricorrente contesta altresì il punto della decisione che ha rilevato l’inammissibilità di questa domanda per novità, per non avere mai l’attore lamentato il ” mancato rispetto del termine di consegna degli immobili previsti in contratto”, assumendo in contrario di avere specificato tale voce di danno già nell’atto di citazione.

Si censura altresì l’argomento del giudice di appello secondo cui, anche a ritenere applicabile l’art. 936 c.c., il risarcimento del danno spetta al proprietario nel solo caso in cui chieda la rimozione delle opere, dal momento che tale pretesa risarcitoria sarebbe incompatibile con la scelta del proprietario di trattenerle, per essere ” prioritario ed assorbente” il vantaggio ricevuto dalla ritenzione. La decisione, si sostiene, viola l’art. 936 c.c., atteso che tale norma si riferisce al solo risarcimento derivante dall’opera che il proprietario abbia scelto di rimuovere, ma non esclude la risarcibilità dei pregiudizi causati dalla abusiva occupazione del suolo.

Il motivo del ricorso è infondato, tenuto conto che la Corte di appello ha affermato la domanda proposta inammissibile perché avanzata per la prima volta in appello, rilevando che negli atti di citazione notificati la parte non aveva fatto alcun cenno al mancato rispetto dei termini di consegna dell’immobile previsto in contratto, rilievo che assorbe il riferimento al tempo della edificazione. Nel proprio ricorso la stessa parte, nel riassumere la domanda avanzata nell’atto introduttivo, ha dedotto di avere lamentato l’indisponibilità degli immobili edificati “a decorrere da quando avrebbero dovuto essere rilasciati sino – per quelli effettivamente rilasciati – al compimento dell’esecuzione forzata ” (pag. 3 e 4). Ora, poiché l’esecuzione per rilascio è stata intrapresa dopo il passaggio in giudicato della sentenza di risoluzione del contratto, avvenuto nel 1997, come riferisce la sentenza, ne deriva che la domanda originaria non comprendeva ovvero non indicava esattamente il periodo precedente, dal 1987, data di edificazione, al 1997. La domanda introduttiva è stata quindi interpretata dal giudice in relazione al momento in cui, per effetto del passaggio in giudicato della risoluzione del contratto, è divenuto attuale ed esigibile l’obbligo di restituzione e tale valutazione non forma oggetto di specifica doglianza ad opera del ricorso. Le ulteriori censure sollevate dal motivo restano assorbite dalle ragioni sopra esposte.

Il settimo motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione degli artt. 115 e 132 c.p.c. e art. 111 Cost. Violazione o falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, della L.Fall., artt. 120,130 e 136 nonché artt. 75 e 81 c.p.c.

Il mezzo censura il rigetto dell’eccezione di difetto di legittimazione di G.G. quale assuntore del concordato fallimentare, in mancanza del decreto previsto dalla L.Fall., art. 136, che accerta la completa esecuzione degli adempimenti previsti nel provvedimento di ammissione.

Anche questo motivo va respinto, tenuto conto che la sentenza impugnata ha emesso la statuizione di condanna in favore della curatela fallimentare o chi per essa (soggetto indicato nell’assuntore del concordato), senza riconoscere a G.G. una legittimazione propria ma solo eventuale, in caso di chiusura del concordato. Così anche la condanna alle spese di giudizio è stata emessa solo in favore del Fallimento.

Da tali rilievi discende che la formula utilizzata si sottrae, proprio per il suo contenuto condizionato, al vizio di violazione di legge denunziato e, altresì, che non è dato ravvisare un interesse concreto del ricorrente alla sua rimozione.

L’ottavo motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione degli artt. 163,164,167 e 189 c.p.c. e artt. 24 e 111 Cost. Violazione o falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, delle stesse norme.

Il ricorrente si duole del rigetto del motivo di appello che aveva eccepito l’inammissibilità, per indeterminatezza della causa petendi e del petitum, della domanda della controparte volta ad ottenere il pagamento del valore delle costruzioni da lui trattenute, assumendo che essa aveva indicato il quantum mediante mero richiamo, anche in sede di precisazione delle conclusioni, alla consulenza tecnica d’ufficio, che invece aveva natura esplorativa ed era addivenuta a conclusioni non univoche.

Il motivo è infondato.

Dalla lettura della domanda riconvenzionale risulta che la società ***** aveva chiesto la condanna del C. al pagamento del valore della costruzione da essa realizzata, ” da determinarsi a mezzo di consulenza tecnica d’ufficio”, e che in sede di precisazione delle conclusioni, essa si era richiamata proprio agli accertamenti e valutazioni della consulenza disposta in corso di causa.

Tanto precisato, deve ribadirsi la massima secondo cuì la nullità della citazione è ravvisabile solo nel caso di totale omissione o assoluta incertezza del petitum, inteso, sotto il profilo formale, come il provvedimento giurisdizionale richiesto, e, sotto quello sostanziale, come il bene della vita di cui si domanda il riconoscimento, tenuto conto della necessità di apprezzare tali requisiti in coerenza con l’esigenza di garantire al convenuto le condizioni necessarie per poter apprestare in modo adeguato e puntuale le proprie difese (Cass. n. 1681 del 2015; Cass. n. 828 del 2006).

Alla luce di tale indirizzo, non incorre pertanto nella sanzione di nullità la domanda di pagamento somma che si rimetta, in ordine al suo preciso ammontare, alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, effettivamente svolta nel corso del giudizio, tenuto altresì conto che il ricorrente non deduce le ragioni per cui tale formulazione gli avrebbe impedito o anche reso più difficile sollevare contestazioni o controdeduzioni difensive.

La censura sollevata dal ricorso in ordine all’incertezza della causa petendi, cioè del titolo giuridico in forza del quale la società convenuta aveva chiesto la sua condanna, appare invece inammissibile, non risultando la relativa eccezione sollevata in atto di appello.

Il nono motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione degli artt. 102,112,115,163,164 e 342 c.p.c., artt. 2909 e 2967 c.c. e artt. 24 e 111 Cost. Violazione o falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 934 e 936 c.c. e delle stesse norme.

Il mezzo censura che il giudice di appello abbia considerato, ai fini dell’indennizzo richiesto dalla controparte, anche quelle unità immobiliari che la società ***** aveva venduto a terzi, i quali soli avrebbero potuto vantare il relativo diritto, come del resto affermato dalla sentenza n. 4 del 2002 del Tribunale di Taranto, passata in giudicato. Si censura altresì che la Corte territoriale abbia ritenuto generica l’eccezione, per mancata indicazione degli importi da detrarre e perché incidente sulla posizione di terzi estranei alla causa, e l’abbia comunque dichiarata infondata, per l’intervenuta risoluzione degli atti di vendita, espressamente prevista in caso di risoluzione di diritto del g contratto di permuta con cui la società costruttrice aveva ottenuto la proprietà del fondo.

Il mezzo è infondato.

La statuizione sul punto da parte della Corte territoriale appare corretta e giuridicamente fondata sulla considerazione che non solo gli atti di vendita delle unità immobiliari di cui si discute erano stati risolti giudizialmente, ma, soprattutto, dal rilievo che nei relativi contratti di vendita risultava inserita la clausola in forza della quale i trasferimenti degli appartamenti sarebbero venuti meno nel caso fosse stata accolta la domanda del C. di risoluzione del contratto di permuta. Pur non qualificandola tale, la Corte, nel ragionamento svolto, ha interpretato tale clausola come condizione risolutiva degli acquisti da parte dei terzi, attribuendo al suo avverarsi effetto retroattivo c.d. reale. La conclusione raggiunta, che ha ritenuto di estendere il diritto di indennizzo in favore della società costruttrice anche per tali immobili, appare quindi pienamente coerente con la sopravvenuta inefficacia ex tunc dei trasferimenti effettuati dalla società in favore di terzi.

La condivisione di tale ratio decidendi rende assorbite le altre argomentazioni svolte dal giudice di appello a sostegno e le relative censure sollevate dal ricorrente.

Il decimo motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2909 c.c. e artt. 24 e 111 Cost. Violazione o falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 934 e 936 c.c.

Il mezzo censura la sentenza impugnata per avere riconosciuto in favore della società costruttrice l’indennizzo corrispondente al valore delle opere eseguite ignorando che alcune parti dell’edificio risultavano, sulla base della consulenza tecnica d’ufficio, irregolari, inutilizzabili ed inagibili.

Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

Dalla lettura della sentenza impugnata risulta che le situazioni di irregolarità edilizia della costruzione realizzata dalla società sono state tenuto in conto dai giudici di merito, che proprio in ragione di esse, con apprezzamento di fatto non censurabile in questa sede, hanno abbattuto l’ammontare della somma riconosciuta alla società di una percentuale tra il 30 e 60%. L’undicesimo motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. e art. 2909 c.c. e artt. 24 e 111 Cost. Violazione o falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 934 e 936 c.c.

Il ricorrente lamenta il mancato accoglimento del motivo di gravame con cui aveva contestato che il giudice di primo grado avesse assunto a base del calcolo dell’incremento di valore indennizzabile il solo terreno e non anche il fabbricato e il giardino che vi preesistevano e che erano stati demoliti per eseguire l’edificio. La Corte leccese ha respinto il motivo ritenendo che di tali beni non se ne dovesse tenere conto in quanto la loro e demolizione ” era indispensabile per la realizzazione degli immobili ” e che ” il vantaggio acquisito dal C. con la ritenzione delle opere è prioritario ed assorbente rispetto al danno dal medesimo eventualmente subito ed incompatibile con la relativa pretesa risarcitoria, così interpretando erroneamente la censura sollevata col gravame, che non faceva valere alcun profilo risarcitorio, ma sosteneva soltanto che al valore del terreno dovesse necessariamente aggiungersi quello del fabbricato e del giardino preesistenti.

Il motivo è inammissibile.

Dalla lettura della sentenza impugnata risulta che la Corte di appello ha ritenuto corretta la valutazione del Tribunale di non tener conto, ai fini della quantificazione dell’indennizzo, del valore degli immobili demoliti per erigere la nuova costruzione, anche per la ragione che “la domanda relativa alla distruzione del fabbricato e della vegetazione ivi esistente è stata abbandonata, in quanto non riproposta in primo grado in sede di precisazione delle conclusioni, per cui non può essere riproposta neppure sotto il profilo in esame”. Tale ratio decidendi non risulta attaccata dal motivo, sicché lo stesso appare inammissibile essendo la ragione addotta di per sé sufficiente ed idonea a sorreggere la conclusione accolta.

Il dodicesimo motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione degli artt. 62 segg., 112, 115, 132 e 161 c.p.c. e art. 2909 c.c. e artt. 24 e 111 Cost. Violazione o falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, sotto altro profilo dell’art. 936 c.c.

Il ricorrente lamenta che il calcolo del valore delle opere edificate dalla società ***** sia stato operato ignorando i rilievi da lui mossi alla consulenza tecnica d’ufficio e le risultanze derivanti dai contratti con cui la società aveva venduto a terzi alcune unità immobiliari, da cui emergeva che i prezzi praticati erano sensibilmente inferiori.

Il mezzo appare inammissibile.

Per orientamento consolidato di questa Corte in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di giudizio di legittimità, nei limiti del vizio di motivazione, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito dalla L. n. 134 del 2012 (Cass. n. 23940; Cass. n. 24434 del 2016; Cass. n. 14267 del 2006), vizio che invece non è stato sollevato.

Si osserva inoltre che parte ricorrente non ha anche dedotto quali delle critiche rivolte alla consulenza tecnica d’ufficio non siano state esaminate e quindi confutate dal consulente nella propria relazione, ma si è limitato a criticare genericamente le modalità della valutazione comparativa operata dal consulente tecnico e fatta propria dal giudice di merito, tenuto conto, infine, che la sentenza impugnata richiama sul punto anche le risposte fornite dal consulente tecnico d’ufficio alle osservazioni critiche del consulente tecnico di parte.

Il tredicesimo motivo di ricorso denunzia violazione o falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 936, 1150, 1223 e 2058 c.c., lamentando il rigetto del motivo di appello che contestava la decorrenza del credito all’indennizzo della società ***** dalla proposizione della sua domanda riconvenzionale invece che dal momento, successivo, del rilascio degli immobili, avvenuto nel 2000/2001.

Il quattordicesimo motivo di ricorso denunzia violazione o falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 936, 1224 e 1282 c.c., censurando la conferma da parte del giudice di appello della decorrenza degli interessi sull’indennizzo richiesto dalla società ***** da una data anteriore a quella in cui erano stati effettivamente rilasciati.

I motivi, che vanno esaminati congiuntamente, sono infondati ed anche inammissibili.

Infondati in quanto il giudicante si è attenuto nel liquidare maggiorazioni ed interessi al principio generale che fissa la loro decorrenza dalla data della proposizione della relativa domanda in giudizio. Inammissibili in quanto le censure sollevate presuppongono accertamenti di fatto, in ordine alla data di restituzione dei beni ed in ordine alla imputabilità del dedotto ritardo, che non si rinvengono nella sentenza impugnata.

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese del giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza del ricorrente.

Si dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 5.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali.

Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 5 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2021

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