LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –
Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21366/2016 proposto da:
Avv. P.D., rappresentato e difeso dagli Avvocati NICOLA RASCIO, FRANCESCA SMIROLDO, e ANTONIO SMIROLDO, ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in ROMA, VIA U.
BOCCIONI 4;
– ricorrente –
contro
D.F., rappresentato e difeso dagli Avvocati FRANCESCO ROMANO, e PIERDOMENICO DE CATERINA, ed elettivamente domiciliato, presso lo studio dell’Avv. Roberto B. Lombardi, in ROMA, V.le MAZZINI 145;
– controricorrente –
e contro
C.M., rappresentato e difeso dall’Avvocato FERNANDO PETRIVELLI, ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Luigi Molinaro, in ROMA, Via FEDERICO CESI 44;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3493/2016 della CORTE d’APPELLO di ROMA, depositata il 31/05/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 06/05/2021 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.
FATTI DI CAUSA
Con ricorso ex art. 702-bis c.p.c., l’avv. P.D. agiva in giudizio innanzi al Tribunale di Roma nei confronti di C.M., D.F., D.R.D. e chiedeva di condannarli al pagamento del compenso spettantegli per l’incarico di assistenza stragiudiziale prestata in favore dei convenuti, da quantificare in base ai valori massimi della tariffa vigente alla data della stipula ovvero a quella della domanda, aumentati del doppio e previa detrazione di quanto percepito; in subordine, chiedeva la condanna delle controparti al pagamento del compenso dovuto in base ai menzionati profili tariffari per l’attività di assistenza prestata da maggio 2009 fino a novembre 2009; in via ulteriormente subordinata, chiedeva riconoscersi il compenso suppletivo per l’attività eccedente quella svolta da maggio 2009 sulla scorta del parametro delle tariffe orarie e delle spese nella misura dell’8%; in ulteriore subordine, chiedeva dichiararsi l’invalidità della determinazione del compenso convenzionale, con conseguente applicazione a tutto l’arco temporale del parametro sopraindicato, con detrazione degli importi percepiti.
Si costituiva in giudizio C.M., il quale resisteva alla domanda chiedendone il rigetto, avendo le parti pattuito un compenso forfettario, che nella specie era stato pagato, e non essendosi verificate le condizioni previste nella Lettera di incarico, che avrebbero consentito a P.D. di rinegoziare il compenso.
Si costituivano altresì D.F. e D.R.D., i quali eccepivano il difetto di legittimazione attiva del ricorrente e l’insussistenza di un’obbligazione solidale dei convenuti rispetto alla pretesa creditoria ex adverso vantata; nel merito, contestavano la fondatezza delle domande con argomentazioni analoghe a quelle svolte da C.M..
Con ordinanza del 21.3.2014 il Tribunale di Roma rigettava il ricorso e compensava le spese di lite.
Avverso detta ordinanza proponeva appello P.D. chiedendone la riforma.
Si costituiva in giudizio C.M., il quale eccepiva l’inammissibilità del gravame ai sensi dell’art. 342 c.p.c. e l’infondatezza nel merito; proponeva appello incidentale, con il quale chiedeva di condannare l’appellante al pagamento delle spese del primo grado di giudizio, oltre alle spese di lite del grado di appello.
Si costituivano altresì D.F. e D.R.D., i quali chiedevano il rigetto dell’appello vista l’infondatezza delle argomentazioni poste a fondamento del gravame, il difetto di legittimazione ad agire, l’insussistenza di un’obbligazione solidale dei convenuti, la violazione degli obblighi di buona fede e l’erroneità dei diversi calcoli dedotti in ricorso.
Con sentenza n. 3493/2016, depositata in data 31.5.2016, la Corte d’Appello di Roma rigettava l’appello principale e, in accoglimento dell’appello incidentale di C.M., condannava l’Avv. P.D. al rimborso delle spese di lite del giudizio di primo grado e di quelle del grado di appello; condannava altresì l’appellante al rimborso, in favore di D.F. e D.R.D., delle spese di lite del grado di appello. In particolare, la Corte territoriale rilevava che dalla lettura delle clausole di cui all’art. 3 della Lettera di incarico (id est: “Proposta economica”) risultava evidente: a) che era stato stabilito un tetto massimo tanto per gli onorari, che non potevano superare l’importo di Euro 130.000,00 “indipendentemente dal tempo impiegato”, tanto per le spese vive, che non potevano superare l’importo di Euro 10.400,00, ferma restando la relativa documentazione, limiti che sarebbero stati vincolanti indipendentemente dal tempo impiegato per l’operazione e, quindi, anche nel caso in cui il lavoro di assistenza si fosse protratto oltre il termine previsto del mese di aprile 2009; b) che le parti erano ben consapevoli che l’operazione, per la sua complessità, non si sarebbe conclusa entro il mese di aprile 2009, in quanto entro detto termine era stata prevista la conclusione solo della maggior parte del lavoro (“Gli onorari indicati sopra sono stati stimati presumendo che (I) la maggior parte del nostro lavoro relativamente all’Operazione si concluda entro aprile 2009”); c) che, qualora la maggior parte del lavoro non si fosse conclusa entro aprile 2009 e/o qualora si fossero verificate circostanze impreviste tali da rendere particolarmente ed eccessivamente gravoso l’espletamento dell’incarico professionale, l’avv. P. ne avrebbe dovuto prontamente avvisare i venditori. In quest’ultima ipotesi, l’avv. P., stante l’alterazione dell’equilibrio del sinallagma contrattuale per circostanze sopravvenute al medesimo non imputabili, avrebbe avuto tre alternative: 1) recedere dal contratto se avesse ritenuto di non poter portare a compimento l’incarico, divenuto eccessivamente oneroso; 2) avviare una trattativa per la revisione del tetto massimo del compenso e, nel caso di fallimento delle trattative, sarebbe stato giustificato il recesso dell’avv. P.; 3) proseguire il rapporto alle medesime condizioni rinunciando ad avvalersi delle suddette facoltà. Osservava la Corte d’Appello che il Tribunale si era pronunciato sulla validità ed efficacia delle clausole negoziali invocate dall’appellante, avendole interpretate come clausole di salvaguardia poste a tutela dell’avv. P.. Nella fattispecie, il Tribunale aveva correttamente ritenuto che il professionista avesse rinunciato ad avvalersi della facoltà di rinegoziazione del compenso, in quanto il fatto che l’avv. P., scaduto il termine di aprile previsto per la conclusione della maggior parte del lavoro, avesse continuato a prestare la propria attività di consulenza senza aver mai palesato che fossero intercorse problematiche tali da giustificare l’adeguamento del compenso, costituiva un comportamento concludente che, interpretato secondo correttezza e buona fede, rendeva manifesta la sua volontà di proseguire il rapporto nel rispetto del tetto massimo convenzionalmente pattuito. Essendo, quindi, il rapporto proseguito alle condizioni economiche originariamente stabilite, l’avv. P. non aveva diritto alla revisione del compenso in base alle vigenti tariffe professionali e in considerazione del superamento del termine del mese di aprile, della dilazione dei tempi del closing, dello slittamento di due mesi dei tempi operativi e del valore dell’operazione.
Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione l’avv. P.D. sulla base di cinque motivi, illustrati da memoria. Resistono C.M. e D.F. quali controricorrenti, il secondo dei quali ha presentato anch’esso memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – In via pregiudiziale, la Corte territoriale ha respinto l’eccezione di inammissibilità dell’appello, sollevata dal controricorrente C., ai sensi dell’art. 342 c.p.c., giacché il ricorrente, “nei cinque motivi di appello, ha chiaramente indicato i singoli punti della decisione oggetto di censura e le diverse conclusioni alle quali sarebbe dovuto pervenire il Tribunale, se avesse correttamente interpretato le clausole del contratto posto a fondamento della domanda e la documentazione posta a sostegno della stessa” (sentenza impugnata, pag. 3, par. 3).
1.1. – Tale affermazione è coerente al principio secondo cui gli artt. 342 e 434 c.p.c. (nel testo formulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134) vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Resta dunque escluso che l’atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado (Cass. n. 27199 del 2017; cfr. Cass. n. 11999 del 1917; Cass. n. 10916 del 2017).
2. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 1362 c.c.)”, osservando che la Corte d’Appello avrebbe violato l’art. 1362 c.c., in ordine all’interpretazione letterale del contratto, per aver ritenuto che l’obbligo di informazione da parte dell’avv. P., espressamente previsto nel comma 4 dell’articolo “Proposta economica” della Lettera di incarico, limitatamente al solo caso in cui “si verifichino circostanze ad oggi non prevedibili che rendano particolarmente ed eccessivamente gravoso il nostro lavoro”, fosse previsto anche per il caso in cui “la maggior parte del nostro lavoro relativamente all’Operazione” non si fosse conclusa entro aprile 2009.
2.1. – Il motivo non è fondato.
2.2. – In particolare, per la Corte territoriale (riguardo in generale all’art. 3 della lettera di incarico, rubricato “Proposta economica”: sentenza impugnata, pag. 7) risultava evidente: a) che era stato stabilito un tetto massimo tanto per gli onorari, che non potevano superare l’importo di Euro 130.000,00 “indipendentemente dal tempo impiegato”, tanto per le spese vive, che non potevano superare l’importo di Euro 10.400,00, ferma restando la relativa documentazione, limiti che sarebbero stati vincolanti indipendentemente dal tempo impiegato per l’operazione e, quindi, anche nel caso in cui il lavoro di assistenza si fosse protratto oltre il termine previsto del mese di aprile 2009; b) che le parti erano ben consapevoli che l’operazione, per la sua complessità, non si sarebbe conclusa entro il mese di aprile 2009, in quanto entro detto termine era stata prevista la conclusione solo della maggior parte del lavoro (“Gli onorari indicati sopra sono stati stimati presumendo che (I) la maggior parte del nostro lavoro relativamente all’Operazione si concluda entro aprile 2009”); c) che, qualora la maggior parte del lavoro non si fosse conclusa entro aprile 2009 e/o qualora si fossero verificate circostanze impreviste tali da rendere particolarmente ed eccessivamente gravoso l’espletamento dell’incarico professionale, l’avv. P. ne avrebbe dovuto prontamente avvisare i venditori.
In quest’ultima ipotesi, il ricorrente, stante l’alterazione dell’equilibrio del sinallagma contrattuale per circostanze sopravvenute a lui non imputabili, avrebbe avuto tre alternative: 1) recedere dal contratto se avesse ritenuto di non poter portare a compimento l’incarico, divenuto eccessivamente oneroso; 2) avviare una trattativa per la revisione del tetto massimo del compenso e, nel caso di fallimento delle trattative, sarebbe stato giustificato il recesso dell’avv. P.; 3) proseguire il rapporto alle medesime condizioni rinunciando ad avvalersi delle suddette facoltà (sentenza, pag. 8).
2.3. – La Corte d’Appello rilevava, altresì, che il Tribunale si era pronunciato sulla validità ed efficacia delle clausole negoziali invocate dall’appellante, avendole interpretate come clausole di salvaguardia poste a tutela dell’avv. P.. Nella fattispecie, il giudice di merito aveva, dunque, correttamente ritenuto che il professionista avesse rinunciato ad avvalersi della facoltà di rinegoziazione del compenso; ciò in quanto il fatto che l’avv. P., scaduto il termine di aprile previsto per la conclusione della maggior parte del lavoro, avesse continuato a prestare la propria attività di consulenza, senza aver mai palesato che fossero intercorse problematiche tali da giustificare l’adeguamento del compenso, costituiva un comportamento concludente che, interpretato secondo correttezza e buona fede, rendeva manifesta la sua volontà di proseguire il rapporto nel rispetto del tetto massimo convenzionalmente pattuito. Essendo, quindi, il rapporto proseguito alle condizioni economiche originariamente stabilite, l’avv. P. non aveva diritto alla revisione del compenso in base alle vigenti tariffe professionali e in considerazione del superamento del termine del mese di aprile, della dilazione dei tempi del closing, dello slittamento di due mesi dei tempi operativi e del valore dell’operazione.
2.4. – Orbene, rappresenta un principio non controverso quello secondo cui l’interpretazione di un negozio giuridico costituisce un accertamento di fatto, istituzionalmente riservato al Giudice di merito; laddove, qualora il ricorso per cassazione deduca l’erroneità di tale interpretazione per violazione dei canoni ermeneutici, è onere del ricorrente indicare non solo la regola interpretativa violata, ma anche in qual modo il ragionamento del Giudice si sia da essa discostato, non potendo la relativa censura limitarsi a un generico richiamo alla violazione di uno o più criteri astrattamente intesi ovvero a una mera prospettazione di un risultato interpretativo diverso da quello accolto nella sentenza (Cass. n. 1893 del 2009; Cass. n. 29322 del 2008; Cass. n. 13587 del 2010).
Tale accertamento è censurabile in sede di legittimità soltanto per vizio di motivazione (Cass. n. 1646 del 2014), nel caso in cui (contrariamente a quanto risulta nella presente fattispecie; e in piena coerenza col dettato normativo di cui all’art. 1326 c.c., comma 1 e art. 1328 c.c., comma 2 e con la condotta negoziale tenuta dalle parti) la motivazione stessa risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l’iter logico seguito dal giudice per attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche. Dovendosi escludere che alcuna di tali censure avesse potuto risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, sostanziatosi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione.
2.5. – Va infatti posto in evidenza che “le regole legali di ermeneutica contrattuale sono elencate negli artt. 1362-1371 c.c., secondo un ordine gerarchico: conseguenza immediata è che le norme strettamente interpretative, dettate dagli artt. 1362-1365 c.c., precedono quelle interpretative integrative, esposte dagli artt. 1366-1371 c.c. e ne escludono la concreta operatività quando la loro applicazione renda palese la comune volontà dei contraenti. Da questo principio di ordinazione gerarchica (o gradualismo) delle regole ermeneutiche, nel cui ambito il criterio primario è quello esposto dell’art. 1362 c.c., comma 1, vale a dire il criterio dell’interpretazione letterale, consegue ulteriormente che qualora il giudice del merito abbia ritenuto che il senso letterale delle espressioni impiegate dagli stipulanti riveli con chiarezza e univocità la loro volontà comune, così che non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo dei contraenti, l’operazione ermeneutica deve ritenersi utilmente compiuta, dovendosi far ricorso ai criteri interpretativi sussidiari solo quando i criteri principali (significato letterale delle espressioni adoperate dai contraenti, collegamento logico tra le varie clausole) siano insufficienti alla identificazione della comune intenzione stessa” (Cass. n. 26690 del 2006; ex pluimis Cass. n. 5595 del 2014; Cass. n. 10896 del 2016).
2.6. – Sicché, “nella interpretazione del contratto (…), il carattere prioritario dell’elemento letterale non va inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell’art. 1362 c.c., alla comune intenzione delle parti impone di estendere l’indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici anche là dove il testo dell’accordo sia chiaro, ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti; pertanto, sebbene la ricostruzione della comune intenzione delle parti debba essere operata innanzitutto sulla base del criterio dell’interpretazione letterale delle clausole, assume valore rilevante anche il criterio logico-sistematico di cui all’art. 1363 c.c., che impone di desumere la volontà manifestata dai contraenti da un esame complessivo delle diverse clausole aventi attinenza alla materia in contesa, tenendosi, altresì, conto del comportamento, anche successivo, delle parti (Cass. n. 20294 del 2019; conf. Cass. n. 13595 del 2020).
Per sottrarsi al sindacato di legittimità, infatti, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle plausibili interpretazioni, sì che quando di una clausola contrattuale siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto la interpretazione poi disattesa dal giudice del merito, dolersi in sede di legittimità che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 8909 del 2013; Cass. n. 24539 del 2009; Cass. n. 15604 del 2007; Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 17248 del 2003). Pertanto, qualora deduca la violazione dei citati canoni interpretativi, il ricorrente deve precisare in quale modo il ragionamento del giudice se ne sia discostato, non essendo sufficiente un astratto richiamo ai criteri asseritamente violati e neppure una critica della ricostruzione della volontà dei contraenti che, benché genericamente riferibile alla violazione denunciata, si riduca, come nella specie, alla mera prospettazione di un risultato interpretativo diverso da quello accolto nella sentenza impugnata (Cass. sez. un. 1914 del 2016; cfr. Cass. n. 3657 del 2016; Cass. n. 25728 del 2013; Cass. n. 1754 del 2006).
3. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1362 e 1363 c.c.)”, là dove, nonostante la “Lettera di incarico” disciplinasse in articoli separati i vari profili dell’incarico, e nonostante il comma 4 dell’articolo “Proposta economica” della Lettera di incarico fosse inserito alla fine dell’articolo disciplinante il corrispettivo e si riferisse agli “onorari indicati sopra”, la Corte d’Appello ha riferito detto comma 4 all’intero contratto, come disciplinante la risoluzione del rapporto professionale, invece di ritenerlo come integrativo del patto sul compenso.
3.1. – Il motivo è inammissibile.
3.2. – Il ricorrente reintroduce il tema della interpretazione della clausola in questione, assumendo che con la stessa le parti avrebbero negoziato due vere e proprie condizioni di efficacia risolutive; tema questo già affrontato dai Giudici di merito i quali hanno espressamente escluso la validità di siffatta tesi, qualificando correttamente la clausola quale strumento di autotutela inserito nel contratto nell’interesse di entrambe le parti (sentenza impugnata, pag. 9).
Deve escludersi che il ricorrente in cassazione possa di fatto, sotto le spoglie di una denuncia per violazione di legge (artt. 1362 c.c. e segg.), chiedere al giudice di legittimità di procedere ad una nuova interpretazione dell’atto negoziale, ovvero cercare di far valere pretesi vizi logici della motivazione che sostiene l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito in ordine alla volontà delle parti espressasi nell’atto negoziale (Cass., sez. un., n. 1914 del 2016, sopra cit.).
Inoltre, se è vero che l’interpretazione letterale costituisce un criterio prioritario di orientamento per individuare la comune volontà dei contraenti, è parimenti vero che l’interprete non può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi testuali ed extratestuali, anche quando le espressioni appaiano chiare e non bisognose di approfondimenti (Cass. n. 12120 del 2005). Nella specie, il Giudice di merito ha ricostruito la comune volontà delle parti senza limitarsi all’interpretazione letterale, ma affiancando a essa la valutazione del loro comportamento complessivo e l’interpretazione delle previsioni contrattuali nel loro contesto.
4. – Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 1363 c.c.)”, in quanto la Corte d’appello non avrebbe fatto corretta applicazione della norma evocata, avendo ritenuto che il tetto massimo degli onorari fosse previsto indipendentemente dal tempo impiegato per l’operazione e quindi anche nel caso in cui il lavoro di assistenza si fosse protratto oltre il termine previsto del mese di aprile 2009 (sentenza impugnata,v pag. 8 in principio e pag. 9 in fine).
4.1. – Il motivo non è fondato.
4.2. – Oltre che per le ragioni già esposte negli altri motivi (non potendo il sindacato di legittimità investire il risultato interpretativo in sé), la Corte territoriale ha fatto coerente applicazione del principio ermeneutico richiamato nell’art. 1363 c.c., rilevando che, proprio in funzione dell’accordo stabilito nella parte iniziale della proposta economica (“l’importo di Euro 130.000,00 costituirà comunque il tetto massimo degli onorari indipendentemente dal tempo impiegato”), la parte finale della clausola non poteva qualificarsi come condizione risolutiva dell’accordo sul compenso, ma solo come una clausola idonea a legittimare entrambe le parti a rinegoziare il rapporto o cessarlo ove le stime circa l’espletamento della maggior parte del lavoro nei tempi presunti e circa la qualità e le quantità di problematiche si fossero rivelate non corrette (sentenza pag. 9 in fine).
5. – Con il quarto motivo, il ricorrente censura la “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 1367 c.c.). L’interpretazione della Corte d’Appello, secondo cui la clausola del comma 4, avrebbe avuto l’effetto di attribuire “la facoltà di recedere anticipatamente dal contratto, ove la prestazione dovuta fosse diventata più onerosa del previsto sotto un profilo quantitativo e/o qualitativo”, comporta che la clausola non avrebbe avuto alcun effetto posto che la maggiore onerosità quantitativa o qualitativa della prestazione avrebbe comunque concretizzato la giusta causa cui l’art. 2237 c.c., subordina il recesso del prestatore d’opera; e anche le altre alternative individuate dalla Corte d’Appello nella facoltà delle parti di rideterminare il compenso ovvero nella facoltà del professionista di portare a compimento l’assistenza alle condizioni economiche dei primi tre commi conducevano ad escludere qualsiasi effetto alla clausola del comma 4, essendo la prima di queste alternative già nella legge e nell’autonomia delle parti e la seconda non necessitando certo un’apposita clausola.
5.1. – Il motivo non è ammissibile.
5.2. – La Corte di merito rilevava che l’avv. P., stante l’alterazione dell’equilibrio del sinallagma contrattuale per circostanze sopravvenute al medesimo non imputabili, avrebbe avuto in alternativa il potere: di decidere se recedere dal contratto, senza essere inadempiente, non potendo portare a compimento l’incarico, divenuto eccessivamente oneroso; di avviare una trattativa per la revisione del tetto massimo del compenso, essendo giustificato il recesso in caso di fallimento delle trattative; di proseguire il rapporto alle medesime condizioni rinunciando ad avvalersi delle suddette facoltà; ipotizzando anche le ricadute sui committenti della eventuale decisione del ricorrente.
Ciò affermato, tuttavia, va rilevato che la Corte di merito (in linea con la decisione del Tribunale) avesse ritenuto esplicitamente la inammissibilità della interpretazione addotta; in ragione del fatto che i Giudici di merito avevano “espressamente escluso la validità di siffatta tesi, qualificando correttamente la clausola quale strumento di autotutela inserito nel contratto nell’interesse di entrambe le parti”; avendo nuovamente e correttamente escluso che il medesimo ricorrente chiedesse al giudice di legittimità di procedere ad una nuova e/o diversa interpretazione dell’atto negoziale (Cass., sez. un., n. 1914 del 2016, sopra cit. sub 3.2).
6. – Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 1362 c.c.), osservando che la Corte d’Appello aveva dedotto l’esistenza di un comportamento concludente del medesimo (nel senso di voler portare a compimento l’assistenza nel rispetto del tetto massimo con rinunzia alla facoltà di richiedere la rinegoziazione del compenso) dalla mancata informazione che fossero intercorse problematiche tali da giustificare l’adeguamento del compenso, informazione invece non prevista dalla lettera della clausola per l’ipotesi della mancata conclusione della maggior parte del lavoro entro aprile 2009.
6.1. – Il motivo non è fondato.
6.2. – Il ricorrente mai ha lamentato il superamento della attività del mese di aprile 2009, né la sopravvenienza di circostanze che potessero rendere particolarmente ed eccessivamente gravoso il lavoro di consulenza. Poiché ai sensi dell’art. 1362 c.c., per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare anche il loro comportamento complessivo, specie se posteriore alla conclusione del contratto, ne segue che nessuna violazione di legge può essere ravvisata nell’impugnata sentenza in quanto la Corte d’Appello aveva correttamente interpretato il contratto, secondo un comportamento concludente che, interpretato secondo correttezza e buona fede, rendeva manifesta la sua volontà di proseguire il rapporto alle medesime condizioni economiche e nel rispetto del tetto massimo convenzionalmente pattuito, non modificabile unilateralmente.
7. – Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in favore di ciascuno dei due controricorrenti in Euro 10.000,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 6 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2021
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