Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.27111 del 06/10/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12990/2020 proposto da:

F.G., difeso dall’avv. IGNAZIO TERMINE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato;

LLOYD’S COMPAGNIA ASSICURAZIONI S.p.A., difesa dagli avv.ti Gerardo Roman, e Giovanni Porcelli;

– controricorrenti –

CONSIGLIO DELL’ORDINE AVVOCATI PALEREMO;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2149/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 30/04/2020.

RILEVATO

che:

con atto di citazione davanti al Tribunale di Roma F.G. evocava in giudizio il Ministero della Giustizia, il Presidente del Consiglio Nazionale forense e il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo per sentir accertare la responsabilità dei convenuti in relazione alla Delib. con cui, il 17 gennaio 2008, il Consiglio dell’Ordine di Palermo aveva archiviato un esposto disciplinare proposto nei confronti dell’avv. G.A., nonostante la incompatibilità di quest’ultimo con l’esercizio della professione forense. Il risarcimento era stato, altresì, richiesto a fronte della ulteriore Delib. 6 ottobre 2009, con la quale era stata irrogata all’attore la sanzione della sospensione dalla professione forense per un anno;

si costituiva il Ministero della Giustizia, eccependo l’incompetenza per territorio del Tribunale di Roma, il difetto di legittimazione e l’infondatezza della domanda;

il Tribunale, con ordinanza del 24 gennaio 2013, ordinava l’integrazione dell’atto di citazione per nullità ai sensi dell’art. 164 c.p.c., della pretesa fatta valere nei confronti del Ministero e del CNF;

con atto di citazione in riassunzione l’attore chiedeva il risarcimento dei danni nei confronti del Consiglio dell’Ordine e del terzo chiamato in garanzia, gli Assicuratori dei Lloyd’s;

il Tribunale di Roma, con sentenza n. 9631 del 2014 rigettava la domanda proposta nei confronti dei convenuti;

con atto di citazione del 16 maggio 2014 F.G. impugnava la sentenza chiedendo la condanna degli originari convenuti, del terzo chiamato in garanzia e di C.M.M., oltre che del precedente Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo;

si costituivano il Ministero della Giustizia, il Consiglio dell’Ordine di Palermo e la terza chiamata in garanzia, eccependo la inammissibilità del gravame e contestando, nel merito, il fondamento della pretesa;

la Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 30 aprile 2020 rilevava che il gravame era inammissibile ai sensi dell’art. 342 c.p.c., per difetto del requisito della specificità atteso che i motivi, sviluppati “attraverso una prolissa e disordinata congerie di recriminazioni, per quello che qui importa, appaiono del tutto in conferenti rispetto ai menzionati passaggi argomentativi del Tribunale”;

avverso tale decisione propone ricorso per cassazione F.G.. Resistono con separati controricorsi, il Ministero della Giustizia e gli Assicuratori dei Lloyd’s. Le altre parti intimate non svolgono attività processuale in questa sede.

RILEVATO

che:

con il ricorso si deduce la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 161 c.p.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4. La Corte territoriale avrebbe violato l’art. 342 c.p.c., in quanto “non può essere eccepita l’inammissibilità del gravame dopo sette anni di causa”. La decisione impugnata si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza di legittimità in tema di specificità dei motivi di appello. Sotto tale profilo la statuizione della Corte territoriale sarebbe affetta da nullità per motivazione meramente apparente, non soddisfacendo neppure i requisiti minimi previsti dalla legge riguardo alla succinta esposizione, sia dei motivi di fatto e di diritto, che delle conclusioni, oltre che per la totale assenza della motivazione;

il ricorso è inammissibile per totale violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 3, poiché difetta del tutto dell’esposizione sommaria dei fatti di causa poiché tali elementi non possono in alcun modo evincersi dal coacervo di argomentazioni e considerazioni che, in maniera indistinta, caratterizzano tutto il ricorso, senza separazione tra la parte deputata alla descrizione della vicenda processuale e quella più specificamente relativa ai motivi;

l’esposizione sommaria dei fatti deve consistere in una deduzione che deve garantire alla Corte di Cassazione di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (Cass. sez. un. 11653 del 2006). La prescrizione del requisito risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass. sez. un. 2602 del 2003). Stante tale funzione, per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, l’indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed in fine del tenore della sentenza impugnata. Poiché il ricorso, nell’esposizione del fatto, non rispetta tali contenuti è inammissibile;

in effetti il tenore dell’esposizione dl fatto omette: a) l’indicazione dei fatti costituivi della domanda; b) la posizione adottata in primo grado dalle parti, nonché la chiara indicazione delle stesse e le pretese rispettivamente vantate nei confronti di ciascuna di esse; c) le modalità di svolgimento del giudizio di primo grado; d) le ragioni della decisione di primo grado; e) i motivi di appello e le ragioni della sentenza impugnata. Lo scrutinio del ricorso risulta impossibile in ragione delle dette lacune. La descrizione dei fatti di causa riportata nella premessa della presente ordinanza è tratta esclusivamente dal contenuto dei controricorsi e dalla sentenza del giudice di secondo grado;

oltre a ciò il ricorso è inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, poiché contiene un rinvio generico agli atti ed alle risultanze processuali senza trascrivere, allegare o localizzare all’interno del fascicolo di legittimità i documenti essenziali per valutare la fondatezza delle censure;

il ricorso e’, altresì, inammissibile sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4, per mancata indicazione delle concrete ragioni di doglianza. L’unico riferimento alle categorie giuridiche previste all’art. 360 c.p.c., è quello riguardante la nullità della sentenza ma si tratta di un rilievo esclusivamente formale, poiché avverso tale decisione non è formulata alcuna concreta censura in quanto parte ricorrente si limita a richiamare un coacervo di decisioni giurisprudenziali che consentirebbero di prospettare una ricostruzione alternativa della vicenda, mai chiarita, senza mai consentire di individuare i fatti di causa e le circostanze concretamente prese in esame dal giudice di secondo grado;

inoltre, la ricorrente avrebbe dovuto allegare o trascrivere il testo dei motivi di appello e i relativi passaggi della sentenza del Tribunale (Cass. n. 8462 del 5 maggio 2020 e Cass. 7 aprile 2017, n. 9122); infatti, quando il ricorrente censuri, come nel caso di specie, la statuizione di ammissibilità e conseguente rigetto dell’eccezione di inammissibilità ex art. 342 c.p.c., dell’appello, ha l’onere di individuare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e non sufficientemente specifico, invece, il gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Sez. 5 -, Ordinanza n. 22880 del 29/09/2017, Rv. 645637 – 01); analogo onere riguarda l’allegazione, trascrizione o l’indicazione della sede processuale nella quale è stata prodotta la sentenza di primo grado, in quanto il requisito della specificità dei motivi dettato dall’art. 342 c.p.c., esige che, ad argomentazioni svolte nella sentenza impugnata (decisione di primo grado), vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinarne il fondamento logico giuridico. Ciò si risolve in una valutazione del fatto processuale che impone una verifica in concreto, ispirata ad un principio di simmetria e condotta alla luce del raffronto tra la motivazione del provvedimento appellato e la formulazione dell’atto di gravame, nel senso che quanto più approfondite e dettagliate risultino le argomentazioni del primo, tanto più puntuali devono profilarsi quelle utilizzate nel secondo per confutare l’impianto motivazionale del giudice di prime cure. Pertanto, la specificità dei motivi di appello da commisurare all’ampiezza e alla portata delle argomentazioni spese dal primo giudice comporta l’onere, a pena di inammissibilità, della produzione della sentenza di primo grado;

infine, con specifico riferimento alla posizione del Ministero della Giustizia, le censure sono superate dal passaggio in giudicato del capo della decisione con il quale è stata dichiarata inammissibile la domanda proposta nei suoi confronti;

il ricorso va dichiarato inammissibile;

la proposizione di un ricorso per cassazione in palese violazione dell’art. 366 c.p.c., tale da concretare un errore grossolano nella redazione dell’atto, giustifica la condanna della parte – che risponde delle condotte del proprio avvocato ex art. 2049 c.c. – al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3 (Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 14035 del 23/05/2019, Rv. 654111-01);

il ricorrente va, pertanto, condannato al pagamento di una somma, equitativamente determinata a ristoro del dispendio di tempo e delle energie necessariamente impiegate per i colloqui col difensore e l’approntamento della difesa. Tale pregiudizio, considerati la durata del processo e l’oggetto di esso, può equitativamente liquidarsi ex art. 1226 c.c., in Euro 4.000 attuali in favore di ciascuno dei due controricorrenti;

infine, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17: “quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore di ciascuno dei controricorrenti, liquidandole in Euro 4.000, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso di spese forfettarie ed accessori di legge, nonché a corrispondere, in favore di ciascuno dei controricorrenti, la somma di Euro 4.000 ai sensi dell’art. 96 c.p.c., oltre ad interessi nella misura legale decorrenti dal deposito della sentenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 9 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2021

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