LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2731-2019 proposto da:
C.M., M.A., in proprio e quali genitori esercenti la responsabilità genitoriale sui figli minori M.M., M.G. E M.F., tutti elettivamente domiciliati in Torino, via Colli n. 3, presso lo studio dell’avv. PIERLUIGI MOSTRATISI, che li rappresenta e difende unitamente all’avv. NATALE CALLIPARI;
– ricorrenti –
contro
MO.MA.EN., UNIPOL ASSICURAZIONI SPA, in persona del procuratore ad negotia sig. G.D., entrambi rappresentati e difesi dall’avv. VITTORIO GATTI, presso il cui studio in Alessandria, via Trotti n. 58, sono elettivamente domiciliati;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 1966/2018 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 16/11/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/1/2021 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 16/11/2018 la Corte d’Appello di Torino ha – per quanto ancora d’interesse in questa sede – respinto il gravame interposto dai sigg. C.M. e M.A. – in proprio e quali titolari della responsabilità genitoriale sui figli minori M., G. e M.F. – in relazione alla pronunzia Trib. Asti 27/12/2017, di rigetto della domanda dai medesimi proposta nei confronti del sig. Mo.Ma.En. di risarcimento dei danni rispettivamente lamentati in conseguenza della mancata rilevazione da parte di quest’ultimo, nella sua qualità di medico ginecologo in sede di “esami ecografici effettuati alla 19" e alla 25" settimana della gravidanza di C.M.”, della “malformazione scheletrica del feto ( M.M., infatti, nasceva l'***** affetta da agenia del femore destro e del perone), impedendo così alla madre di determinarsi sull’interruzione della gravidanza ai sensi della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), e cagionando a lei e alla sua famiglia un rilevante danno patrimoniale e non patrimoniale da nascita non desiderata”.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito la C. e il M., in proprio e nella qualità, propongono ora ricorso per cassazione, affidato a 5 motivi, illustrati da memoria.
Resistono con controricorso il Mo. e la chiamata in manleva società Unipolsai Assicurazioni s.p.a.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il 1 e il 2 motivo i ricorrenti denunziano “violazione e/o falsa applicazione” della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b) art. 32 Cost., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Con il 5 motivo denunziano “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1176,2236,2697 c.c., art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si dolgono che la corte di merito abbia erroneamente ritenuto che la L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b) esiga “anche la verifica del requisito della gravità delle malformazioni come condizione di operatività della fattispecie”.
Lamentano che “in nessun caso” la norma “contiene la presunzione iuris et de iure che una malformazione possa definirsi non rilevante, ovvero in assoluto inidonea a cagionare qualsivoglia pregiudizio alla salute della gestante”.
Si dolgono che la corte di merito abbia ritenuto non ricorrere nella specie il requisito della gravità richiesto alla L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b).
Con il 3 motivo denunziano “violazione e falsa applicazione” degli artt. 115,116,183,346 c.p.c., 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si dolgono che la corte di merito abbia basato la decisione su una erronea valutazione delle emergenze processuali, e in particolare delle “risultanze documentali e peritali”.
Con il 4 motivo denunziano “insufficiente e contraddittoria” motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si dolgono che la corte di merito abbia erroneamente omesso di valutare le richieste istruttorie, e in particolare la prova testimoniale.
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono infondati.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (v. in particolare Cass., 11/4/2017, n. 9251, ove in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata si è escluso che la mancanza della mano sinistra del nascituro sia una malformazione idonea a determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, requisito imposto dalla L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), per far luogo all’interruzione della gravidanza dopo i primi 90 giorni dal suo inizio, e si è conseguentemente tratto che, non potendosi legittimamente ricorrere all’aborto, dall’omessa diagnosi dell’anomalia fetale non può derivare un danno risarcibile), l’ordinamento non ammette il c.d. “aborto eugenetico”, prescindente cioè dal “serio pericolo” per la “salute fisica o psichica” (L. n. 194 del 1978, art. 4) ovvero dal “grave pericolo” per la “vita” o la “salute fisica o psichica” della gestante (v. Cass., Sez. Un., 22/12/2015, n. 25767; Cass., 29/7/2004, n. 14488; Cass. 14/7/2006, n. 16123; Cass., 11/5/2009, n. 10741. E già Cass., 22/11/1993, n. 11503).
Atteso che alla L. n. 194 del 1978, art. 1 risulta posto il principio in base al quale lo Stato “tutela la vita umana dal suo inizio”, con l’ulteriore precisazione che l’interruzione della gravidanza “non è mezzo per il controllo delle nascite” (cfr. Cass., Sez. Un., 22/12/2015, n. 25767, e, da ultimo, Cass., 11/4/2017, n. 9251), si è da questa Corte posto in rilievo che, mentre entro i primi novanta giorni l’interruzione della gravidanza può essere ammessa quando, anche in ragione di “previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”, la prosecuzione della gravidanza o il parto comportino un “serio pericolo” per la “salute fisica o psichica” della gestante (L. n. 194 del 1978, art. 4), dopo i primi novanta giorni, l’interruzione in argomento può essere eccezionalmente consentita solo quando a) la gravidanza o il parto comportino un “grave pericolo” per la “vita” della donna ovvero b) siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un “grave pericolo” per la “salute fisica o psichica” della medesima.
A tale stregua, come questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo, pur riconoscendosi alla L. n. 194 del 1978, art. 1 il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, e quindi all’autodeterminazione, l’interruzione della gravidanza è ammissibile solo nelle ipotesi normativamente previste in cui sussista un pericolo per la salute o per la vita della gestante, sicché la sola esistenza di malformazioni del feto non incidenti sulla vita o sulla salute della donna non consentono l’accesso all’aborto (v. Cass., 11/4/2017, n. 9251; Cass., 29/7/2004, n. 14488).
In presenza di malformazioni o anomalie del feto, l’interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare che le stesse possano determinare un pericolo serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave (successivamente a tale termine) per la salute della gestante, non rilevando esse in sé e per sé considerate, neanche con riferimento al (solo) nascituro (v. Cass., 11/4/2017, n. 9251; Cass., 29/7/2004, n. 14488).
Alla L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. B è in particolare previsto che idonei a determinare “un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” sono solamente “anomalie o malformazioni del nascituro” che siano “rilevanti”.
Orbene, facendo espresso e specifico richiamo in particolare al precedente di questa Corte costituito da Cass. n. 9251 del 2017 dei suindicati principi la corte di merito ha nell’impugnata sentenza fatto invero piena e corretta applicazione.
E’ rimasto nella specie accertato che il Mo., medico ginecologo, “durante gli esami ecografici effettuati alla 19" e alla 25 settimana della gravidanza di C.M., non si avvedeva della malformazione scheletrica del feto ( M.M., infatti, nasceva l'***** affetta da agenia del femore destro e del perone), impedendo così alla madre di determinarsi sull’interruzione della gravidanza ai sensi della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), e cagionando a lei e alla sua famiglia un rilevante danno patrimoniale e non patrimoniale da nascita non desiderata”.
Nell’esercizio dei propri poteri i giudici del doppio grado di merito hanno correttamente ritenuto la malformazione de qua (agenia del femore e del perone destro) come inidonea ad incidere in particolare sulla salute dell’odierna ricorrente, escludendo – con motivazione congrua e avuto correttamente riguardo alle emergenze processuali – che essa possa integrare il presupposto normativo in argomento.
Ponendo in rilievo che “la norma richiamata, se da un lato consente l’accesso all’aborto terapeutico quando la salute psicofisica della madre sia messa in grave pericolo dalle malformazioni del nascituro, dall’altro attribuisce valenza oggettiva (e non meramente causale) a tali malformazioni o anomalie, pretendendo quantomeno che esse siano “rilevanti””; e nell’ulteriormente osservare che una “malformazione non rilevante è ritenuta, con presunzione iuris et de iure inidonea in sé a cagionare qualsivoglia pregiudizio alla salute della madre”, nell’impugnata sentenza la corte di merito ha sottolineato come “se così non fosse – se, cioè, avesse rilevanza, per l’aborto terapeutico, solo ed esclusivamente il vissuto soggettivo e psicofisico della madre in presenza di una qualunque anomalia del feto, anche minima o trascurabile – si legittimerebbero derive eugenetiche e selettive, in severo contrasto con l’art. 1, commi 1 e 2, e art. 7, comma 3 L. cit. per cui la vita umana è tutelata fin dal suo inizio e l’interruzione volontaria della gravidanza non costituisce mezzo di controllo delle nascite (cfr. Cass., Sez. Un., n. 25767/15)”.
Ancora, facendo espressamente richiamo a Cass. n. 9251 del 2017, ha evidenziato che la “presenza, tutt’altro che pleonastica, nel testo dell’art. 6, lett. b) L. cit. dell’aggettivo “rilevanti” anteposto ai sostantivi “malformazioni o anomalie” esclude che esso possa tautologicamente coincidere… con la pretesa gravità del pregiudizio psicofisico della madre, poiché in tal caso – qualora… s’intendesse che la malformazione sia rilevante proprio in quanto idonea a cagionare il grave danno alla salute della madre- la presenza stessa della parola “rilevanti” sarebbe del tutto superflua e il senso della proposizione normativa sarebbe chiaro e lineare anche in sua assenza”, laddove il legislatore ha disposto diversamente “proprio perché era sua intenzione evitare che qualunque malformazione del prodotto del concepimento, anche minima e irrilevante, possa legittimare l’aborto terapeutico, considerato che anche un’anomalia del tutto trascurabile potrebbe cionondimeno determinare una grave depressione in una madre psicologicamente fragile e vulnerabile”.
Dai giudici di merito si è quindi del tutto condivisibilmente escluso che l’agenia del femore e del perone destro integri la ricorrenza del presupposto (“rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”) normativamente previsto ai fini della configurabilità del requisito del “grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” legittimante l’eccezionale possibilità di farsi luogo, dopo i primi 90 giorni di gravidanza, alla relativa interruzione.
Si è altresì sottolineato come la “validità” dell’operato “ragionamento” risulti “avallata” anche “dall’art. 7, comma 3 L. cit., laddove, significativamente, vieta l’aborto terapeutico quando sussista la possibilità di vita autonoma del feto”, il che “sta a dimostrare, appunto, che il grave pregiudizio psicofisico della madre… non è da solo sufficiente a legittimare l’aborto oltre il 90 giorno”.
Quanto alla diversa questione del danno fatto valere dallo stesso nato disabile, va per altro verso osservato che le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato non esserne invero in radice data la configurabilità, in quanto “la ragione di danno da valutare sotto il profilo dell’inserimento del nato in un ambiente familiare nella migliore delle ipotesi non preparato ad accoglierlo” si rivela sostanzialmente quale mero “mimetismo verbale del c.d. diritto a non nascere se non sani”, andando pertanto “incontro alla… obiezione dell’incomparabilità della sofferenza, anche da mancanza di amore familiare, con l’unica alternativa ipotizzabile, rappresentata dall’interruzione della gravidanza”, non essendo d’altro canto possibile stabilire un “nesso causale” tra la condotta colposa del medico e “le sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso della sua vita” (così Cass., Sez. Un., 22/12/2015, n. 25767).
Nel porre in rilievo che “la patologia in questione… non pregiudica in maniera irreversibile la mobilità della bambina e non ne comprime in alcun modo le facoltà mentali”, essendo “perfettamente operabile e risolvibile anche in termini di autonomia nella deambulazione -aldilà dei pur sussistenti e comprensibilissimi disagi a carico dei genitori e degli altri familiari e delle difficoltà logistiche da loro affrontate -” sicché “non può ritenersi di oggettiva rilevanza idonea a legittimare l’interruzione della gravidanza ai sensi dell’art. 6, lett. b) L. cit.”, quanto “al preteso risarcimento del danno a carico della stessa M.M.” la corte di merito ha nell’impugnata sentenza ravvisato risultare nella specie evidente che “la pretesa risarcitoria avanzata sul punto dagli appellanti (aldilà del possibile “mimetismo” linguistico)” attenga in realtà “alla dedotta violazione del diritto della madre alla libera determinazione sull’interruzione volontaria della gravidanza”, dando atto che la sentenza di primo grado al riguardo si conforma invero al principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui il nato disabile non può agire per il risarcimento del danno, neppure sotto il profilo dell’interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo, giacché l’ordinamento non conosce il “diritto a non nascere se non sano”, né la vita del bambino può integrare un danno-conseguenza dell’illecito omissivo del medico (così Cass., Sez. Un., 22/12/2015, n. 25767).
Ne’ può d’altro canto sottacersi che il danno del nato disabile risulta nella specie dai genitori invero prospettato come conseguenza del danno da essi asseritamente subito, laddove, attesa la suindicata ravvisata relativa insussistenza, difetta in realtà il presupposto stesso perché un pregiudizio che si assume esserne conseguentemente derivato in capo al nato sia in effetti configurabile.
All’infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo in favore di ciascuna parte controricorrente, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in solido, delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge, in favore di ciascuna parte controricorrente.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modif. dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2021