Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.27128 del 06/10/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 11559/17 proposto da:

-) Equitalia Servizi di Riscossione s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato a Roma, via Flaminia n. 135, difeso dagli avvocati Maurizio Cimetti, e Giuseppe Parente, in virtù di procura speciale apposta in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

-) G.C.A., e A.L., elettivamente domiciliati a Roma, v. Meropia n. 105 (c/o avv. De Amicis), difesi dall’avvocato Fulvia Fois, in virtù di procura speciale conferita con scrittura privata autenticata;

– resistenti –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna 12 gennaio 2017 n. 53;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 4 febbraio 2021 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.

FATTI DI CAUSA

1. L’Ente Regionale di Sviluppo per l’Emilia Romagna (oggi disciolto, e nei cui rapporti giuridici è succeduta la Regione Emilia-Romagna) con due distinti atti stipulati il primo nel 1981, ed il secondo nel 1991, vendette vari fondi agricoli a G.C.A. e Luisa A..

I fondi vennero acquistati in comproprietà dai due acquirenti, con pattuizione che il pagamento avvenisse in rate annuali e previsione della riserva di proprietà in favore del venditore.

2. Nel 2005 la società SIFER s.p.a. (che in seguito sarà fusa per incorporazione dapprima nella società Equitalia Emilia Nord s.p.a., e quindi nella società Equitalia Servizi di Riscossione s.p.a.), nella veste di agente della riscossione per l’Emilia-Romagna, iniziò l’esecuzione forzata nei confronti di G.C.A. e A.L., pignorando i suddetti fondi agricoli.

A fondamento dell’esecuzione l’agente della riscossione allegò varie cartelle esattoriali emesse a fronte del mancato pagamento sia di alcune rate di prezzo, sia di imposte, sanzioni amministrative, contributi assicurativi e previdenziali.

Gli immobili pignorati vennero venduti all’asta ed aggiudicati ad B.A. e Be.Pi.Ca.. Il giudice dell’esecuzione pronunciò quindi il relativo decreto di trasferimento.

3. Dopo l’emanazione del decreto di trasferimento, G.C.A. e A.L. proposero ciascuno una separata opposizione all’esecuzione, ex art. 615 c.p.c., dinanzi al Tribunale di Ferrara.

A fondamento delle due opposizioni, di identico contenuto, formularono una argomentazione che – secondo quanto riferisce la sentenza impugnata – si può così riassumere:

-) i fondi oggetto di pignoramento erano stati trasferiti ai due debitori nell’ambito degli interventi di riforma agraria;

-) la materia era dunque disciplinata dalla L. 12 maggio 1950, n. 230, art. 18, comma 3, “così come richiamato dalla legge di riforma agraria (n. 841 del 1950) e dalla L. n. 386 del 1974 (in realtà si tratta della L. n. 386 del 1976, n. d.e.), vertendosi in materia di assegnazione dei terreni a coltivatori”;

-) tali norme, ed in particolare la L. n. 230 del 1950, art. 18 stabilivano l’impignorabilità assoluta dei fondi alienati ai coltivatori diretti, fino al pagamento integrale del prezzo;

-) nel caso di specie, il pagamento del prezzo era stato concordato in forma rateale in un arco di trent’anni, non ancora decorsi al momento del pignoramento.

4. Con sentenze 29.8.2009 nn. 1125 e 1127 il Tribunale di Ferrara accolse tutte e due le opposizioni (il ricorso non riferisce le motivazioni del Tribunale). Ambedue le sentenze vennero appellate dalla parte soccombente.

5. Con sentenza 12.1.2017 n. 53 la Corte d’appello di Bologna, riunite le due impugnazioni, le rigettò entrambe.

Ritenne la Corte d’appello che:

-) G.C.A. e A.L. erano legittimati a proporre l’opposizione e vi avevano interesse ex art. 100 c.p.c., in quanto il debitore ha interesse “ad agire per ottenere la declaratoria di nullità della procedura esecutiva che attinge beni di sua proprietà”;

-) nel giudizio di opposizione all’esecuzione l’ente regionale per lo sviluppo non era un litisconsorte necessario, e dunque non vi era stata nel primo grado del processo alcuna violazione dell’art. 102 c.p.c.;

-) sebbene la L.R. Emilia-Romagna n. 31 del 1998 avesse ridotto il termine di pagamento del prezzo dei fondi assegnati nell’ambito della riforma agraria da 30 a 10 anni, tale modifica normativa non aveva inciso sulla disciplina della impignorabilità, prevista dalla ricordata L. n. 230 del 1950, art. 18 impignorabilità che dunque doveva continuare a ritenersi vigente per i trent’anni successivi all’assegnazione del fondo.

6. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dalla Equitalia Servizi di Riscossione con ricorso fondato su tre motivi.

G.C.A. e A.L. non hanno notificato il controricorso, ma solo depositato una procura speciale (evidentemente al fine di partecipare all’eventuale discussione in pubblica udienza).

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Va preliminarmente osservato come nulla rilevi, nel presente giudizio, la circostanza che la società Equitalia Servizi di Riscossione sia stata sciolta ope legis per effetto del D.L. 22 ottobre 2016, n. 193.

Infatti al giudizio dinanzi a questa Corte, caratterizzato dall’impulso d’ufficio, non si applicano le regole sull’interruzione del processo (artt. 299 c.p.c. e ss.), ed il trasferimento del diritto controverso non ha di norma conseguenze processuali né quando avvenga a titolo particolare (ipotesi che resta disciplinata dall’art. 111 c.p.c.: cfr., ex multis, Sez. 1 -, Ordinanza n. 7152 del 22/03/2018, Rv. 647841 – 01, con riferimento alla successione dell’Agenzia del Demanio dei diritti già spettanti al Ministero delle Finanze); né quando avvenga per effetto di successione in universum ius (così Sez. U -, Sentenza n. 15911 del 08/06/2021, Rv. 661509 – 03, con riferimento per l’appunto alla successione “a titolo universale, nei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali”, di Agenzia delle Entrate-Riscossione alle società del gruppo Equitalia, prevista dal D.L. n. 193 del 2016, art. 1, comma 3, del secondo cui tale successione non ha causato alcuna soluzione di continuità nell’attività della riscossione).

1.1. Poiché dunque al momento della notifica del ricorso (28 aprile 2017) la società Equitalia Servizi di Riscossione era esistente ed operativa, in quanto il suo scioglimento è avvenuto soltanto con decorrenza dal 1 luglio 2017, ai sensi dell’art. 1, comma 1 suddetto D.L., il successivo scioglimento della società, avvenuto nelle more del giudizio di legittimità, non riverbera effetti su quest’ultimo (ex multis, Sez. 3 -, Sentenza n. 7751 del 08/04/2020, Rv. 657500 – 01; Sez. 1 -, Sentenza n. 2625 del 02/02/2018, Rv. 646866 – 01, con riferimento specifico alle ipotesi della cancellazione delle società commerciali dal registro delle imprese; Sez. 1 -, Sentenza n. 7477 del 23/03/2017, Rv. 645844 – 01; Sez. L, Sentenza n. 1757 del 29/01/2016, Rv. 638717 – 01; si tratta del resto di principio indiscusso, già stabilito da Sez. 3, Sentenza n. 425 del 06/03/1962, Rv. 250671 – 01 e da allora in poi sempre tenuto fermo da questa Corte).

2. Col primo motivo la società ricorrente lamenta, formalmente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 102 c.p.c..

Nonostante tale intitolazione, l’illustrazione del motivo costituisce in larga parte la trascrizione della censura proposta come primo motivo di appello nel giudizio di secondo grado, con la quale si denunciava non il difetto di integrazione del contraddittorio, ma la carenza di interesse ad agire in capo agli opponenti.

Secondo l’unica interpretazione che questa Corte ritiene possibile della non del tutto perspicua illustrazione del motivo, in esso si prospetta una tesi giuridica così riassumibile:

-) gli opponenti acquistarono i fondi oggetto di esecuzione forzata con patto di riservato dominio a favore del venditore, e cioè dell’ente regionale di sviluppo (indicato come “concessionario” a p. 15, secondo capoverso, del ricorso; deve ritenersi che la ricorrente intendesse scrivere “concedente”);

-) essi, pertanto, non possono avere acquistato la proprietà dei suddetti fondi fino al pagamento di tutte le rate del prezzo di vendita;

-) di conseguenza, non essendo proprietari, gli opponenti non erano legittimati a far valere, in sede esecutiva, l’impignorabilità del fondo;

-) se, poi, medio tempore i soggetti esecutati fossero diventati proprietari del fondo pignorato, in tal caso i loro fondi sarebbero divenuti pignorabili, perché la legge di riforma agraria stabiliva che l’impignorabilità perdurasse solo fino al pagamento integrale del prezzo.

2.1. Nella parte in cui annuncia, ma non illustra, il vizio di “omessa integrazione del contraddittorio”, il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4.

L’illustrazione di esso, infatti, non spiega la ragione per la quale l’Ente Regionale di Sviluppo (rectius, oggi, la Regione Emilia-Romagna) dovrebbe ritenersi parte necessaria d’un giudizio di opposizione all’esecuzione.

Il requisito di chiarezza e completezza nell’illustrazione del motivo di ricorso, richiesto dal suddetto art. 366 c.p.c., n. 4, non può infatti dirsi assolto dal fugace cenno al foglio 14 del ricorso (le cui pagine non sono numerate), penultimo capoverso, ove si afferma che l’Ente Regionale “e’ il solo soggetto che la norma (sull’impignorabilità) intende tutelare”.

La presente controversia scaturisce infatti da una opposizione all’esecuzione intrapresa dalla Equitalia. Il giudizio di opposizione all’esecuzione ha un solo oggetto: stabilire se esista o non esista il diritto, in capo a chi l’esecuzione abbia iniziato, di proseguirla.

La controversia dunque non può che avere per parti necessarie il creditore (o il suo mandatario, come nel caso della riscossione di entrate erariali) da un lato, e il soggetto il cui patrimonio è stato aggredito in executivis dall’altro.

Lo stabilire poi se il soggetto esecutato sia o non sia il proprietario dei beni pignorati è questione che attiene al merito dell’opposizione, non all’integrità del litisconsorzio.

2.2. Nella parte restante il motivo è fondato.

La Corte d’appello ha ritenuto in diritto – non importa, ai fini dell’esame del presente motivo, se a torto od a ragione – che al caso di specie fosse applicabile una norma di legge che vietava la pignorabilità del fondo “sino al pagamento dell’intero prezzo” (così la sentenza, p. 6, secondo capoverso).

Sulla base di questa affermazione in diritto la Corte d’appello ha ritenuto fondata l’opposizione, così mostrando di ritenere che il prezzo non fosse stato ancora interamente pagato.

Tuttavia, mentre da un lato la Corte d’appello ha ritenuto di potere affermare che il prezzo di acquisto non era stato interamente pagato, dall’altro lato ha contemporaneamente affermato di “non vedere come posa negarsi l’interesse del debitore ad ottenere la declaratoria della procedura esecutiva che attinge beni di sua proprietà”: e sulla base di questa affermazione ha rigettato il motivo di appello inteso a far valere il difetto di interesse in capo agli opponenti a promuovere l’opposizione (così la sentenza, p. 5, primo capoverso).

2.3. Nel caso di vendita con riserva di proprietà, tuttavia, il diritto dominicale si trasferisce all’acquirente solo col pagamento dell’ultima rata (art. 1523 c.c.). Fino a quel momento il venditore resta il solo proprietario, ed a tale principio non derogano le molteplici norme di riforma fondiaria promulgate negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso (ex multis, per l’affermazione che l’ente di riforma fondiaria rimane proprietario dei terreni assegnati fino a quando gli assegnatari non abbiano pagato tutte le rate del prezzo, v. Sez. U, Sentenza n. 1313 del 22/06/1965, Rv. 312509 – 01).

La Corte d’appello dunque, nella medesima sentenza, ha affermato e negato contemporaneamente il medesimo fatto, e cioè l’avvenuto pagamento integrale del prezzo da parte degli assegnatari.

A pag. 5, infatti la Corte felsinea, qualificando “proprietari” i due opponenti, ha implicitamente ammesso che essi avessero pagato tutte le rate di acquisto. A pag. 6, tuttavia, ha rigettato l’opposizione sul presupposto che, non essendo state pagate tutte le rate, il fondo era impignorabile. Ma ovviamente, se davvero non fosse stato eseguito il pagamento integrale di tutte le rate di prezzo, la proprietà del fondo permaneva in capo all’ente di riforma fondiaria. In sostanza il giudice di merito, quando si è trattato di stabilire se i due opponenti avessero interesse a proporre l’opposizione, li ha ritenuti “proprietari” del fondo pignorato; quando, invece, si è trattato di stabilire se il bene fosse divenuto pignorabile, per effetto dell’integrale pagamento del prezzo, li ha reputati “non proprietari”.

2.4. Ricorre dunque una evidente ipotesi di nullità della sentenza per insanabile contraddittorietà c.d. “autoevidente” (ovvero riscontrabile prima facie dal testo della motivazione).

Resta solo ad aggiungere come, ai fini dell’accoglimento del primo motivo di ricorso, non rileva la circostanza che la società ricorrente l’abbia qualificato come denuncia del vizio di “violazione di legge”, ex art. 360 c.p.c., n. 3.

Infatti, nel caso in cui il ricorrente incorra nel c.d. “vizio di sussunzione” (e cioè erri nell’inquadrare l’errore commesso dal giudice di merito in una delle cinque categorie previste dall’art. 360 c.p.c.), il ricorso non può per ciò solo dirsi inammissibile, quando dal complesso della motivazione adottata dal ricorrente sia chiaramente individuabile l’errore di cui si duole, come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013).

Nel caso di specie, l’illustrazione contenuta nei fogli 14-15 del ricorso è sufficientemente chiara nel prospettare la violazione, da parte della Corte d’appello, d’una regola di coerenza, là dove ha dapprima qualificato “proprietari” i due opponenti, e poi ha soggiunto che le rate di prezzo da essi dovute non erano state ancora interamente pagate (vedasi, in particolare, il foglio, 15, ultimo capoverso).

3. Col secondo motivo la società ricorrente prospetta, formalmente, la violazione dell’art. 117 Cost., della L. n. 230 del 1950, art. 18, della L. n. 386 del 1976, art. 10 e della L.R. Emilia-Romagna n. 31 del 1998, art. 8.

Nella illustrazione del motivo si sostiene che erroneamente la Corte d’appello ha escluso la pignorabilità dei beni dei debitori.

Sostiene questa affermazione con i seguenti argomenti:

-) al momento del pignoramento erano già state abrogate tutte le norme sulla riforma agraria, poste dalla Corte d’appello a fondamento della propria decisione (e cioè la L. n. 230 del 1950, la L. n. 841 del 1950, la L. n. 379 del 1967), vale a dire le norme che prevedevano l’impignorabilità dei fondi “assegnati” (rectius, venduti con patto di riservato dominio) ai coltivatori;

-) la materia, al momento del pignoramento, era disciplinata unicamente da una legge regionale, e cioè la L.R. Emilia-Romagna n. 31 del 1998;

-) l’art. 8 di tale legge stabilisce che coloro ai quali erano stati assegnatari fondi agricoli in applicazione delle leggi sulla riforma agraria dovevano ritenersi proprietari di questi ultimi dopo il pagamento di almeno dieci annualità del prezzo, ed a tale momento doveva ritenersi cessata l’impignorabilità;

-) nel caso di specie di annualità ne erano state pagate almeno 12, con la duplice conseguenza, da un lato, che i debitori dovevano ritenersi proprietari dei fondi pignorati e dall’altro che nessuna norma impediva il pignoramento di essi.

3.1. Il motivo è fondato.

La Corte d’appello ha ritenuto che i fondi di cui si discorre fossero impignorabili ai sensi della L. n. 230 del 1950, art. 18, comma 3.

Si tratta di una valutazione erronea.

3.2. Nel 1950, allo scopo di frazionare i latifondi improduttivi e favorire lo sviluppo dell’agricoltura, la legge introdusse un sistema il cui scopo era espropriare fondi privati ed assegnarli in proprietà a piccoli coltivatori.

Il sistema allora concepito era fondato sui seguenti capisaldi:

-) il Governo venne delegato ad istituire plurimi “enti di colonizzazione o di trasformazione fondiaria”;

-) a questi enti venne attribuito il potere di espropriare i fondi privati e di “assegnarli” (rectius, venderli con riserva di proprietà) a “lavoratori manuali della terra i quali non siano proprietari o enfiteuti di fondi rustici”.

3.3. Questa imponente riforma agraria avvenne in due tappe.

Dapprima la L. 12 maggio 1950, n. 230 (recante “Provvedimenti per la colonizzazione dell'***** e dei territori contermini”) introdusse il meccanismo espropriativo sopra descritto per i soli terreni situati in un’area ben precisa dell'***** (art. 1) e la loro “assegnazione” a “lavoratori manuali della terra” (art. 16), precisando che tale “assegnazione” dovesse avvenire “con contratto di vendita, con pagamento rateale del prezzo in trenta annualità e con dominio riservato a favore dell’Opera (per la valorizzazione della *****) sino all’integrale pagamento”.

In tale contesto l’art. 18, comma 3, prevedeva che fino al pagamento integrale del prezzo “i diritti dell’assegnatario non possono essere oggetto di provvedimenti cautelari né di esecuzione forzata, se non a favore dell’Opera”. Ovviamente tra “i diritti dell’assegnatario” di cui parlava la legge non rientrava quello di proprietà, dal momento che gli “assegnatari” non sarebbero divenuti proprietari dei fondi prima del pagamento integrale del prezzo.

3.4. La riforma introdotta per favorire la colonizzazione della ***** venne di lì a poco estesa a tutto il territorio nazionale dalla L. 21 ottobre 1950, n. 841, art. 21, comma 1 (Norme per la espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione dei terreni ai contadini), la quale attribuì i relativi poteri ad “enti o sezioni speciali degli enti di colonizzazione o di trasformazione fondiaria” (art. 2).

3.5. Le due suddette leggi di riforma agraria (L. n. 230 del 1950 e L. n. 841 del 1950) vennero modificate dalle L. 29 maggio 1967, n. 379 (recante “Modificazioni alle norme sulla riforma fondiaria”) e L. 30 aprile 1976, n. 386 (“Norme di principio, norme particolari e finanziarie concernenti gli enti di sviluppo”).

La prima di tali leggi consentì agli assegnatari, in deroga al divieto stabilito nel 1950, il riscatto anticipato del fondo da parte dell’acquirente, sotto vincolo di indivisibilità ed alienabilità (art. 1).

La L. n. 389 del 1976, infine, trasferì alle Regioni le competenze già spettanti agli enti di trasformazione fondiaria, di cui alla L. n. 841 del 1950, fisando i principi generali in base ai quali le singole Regioni avrebbero dovuto istituire i singoli enti regionali di sviluppo agricolo.

In questo quadro di trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni, la suddetta L. n. 389 del 1976, art. 10 stabilì che “il riservato dominio a favore dell’ente di sviluppo sui terreni assegnati ai sensi della L. 12 maggio 1950, n. 230, art. 17 permane fino al pagamento della quindicesima annualità del prezzo di assegnazione. Le successive annualità dovute dall’assegnatario, in base al piano di ammortamento del prezzo, costituiscono oneri reali sul fondo assegnato e sono esigibili con le norme ed i privilegi stabiliti per le imposte dirette”.

In attuazione del suddetto trasferimento di competenza, la Regione Emilia-Romagna emanò la L. 9 ottobre 1998, n. 31, il cui art. 8, comma 3, stabilì che “il riservato dominio a favore della Regione sui terreni assegnati ai sensi della L. n. 386 del 1976, art. 10 permane fino al pagamento della decima annualità del prezzo di assegnazione”.

3.6. Infine, tutte le leggi suddette sono state via via abrogate ad eccezione della L. n. 386 del 1976 e della L.R. n. 31 del 1998, e segnatamente:

a) le L. n. 230 del 1950 e L. n. 841 del 1950 sono state abrogate dal D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 58 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), il quale recita: “con l’entrata in vigore del presente testo unico, sono o restano abrogati (…): 72) la L. 12 maggio 1950, n. 230; (…) 74) la L. 21 ottobre 1950, n. 841”.

Tale abrogazione ha avuto effetto a decorrere dal 30 giugno 2003, ai sensi del D.L. 20 giugno 2002, n. 122, art. 2 convertito nella L. 1 agosto 2002, n. 185;

b) la L. n. 379 del 1967 (vale a dire quella che introdusse, come s’e’ visto, il diritto di anticipato riscatto), è stata abrogata dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 24 con decorrenza dal 21.2.2009.

3.7. Il quadro normativo è dunque limpido.

Nel 1950 venne varata una riforma agraria che consentiva la vendita a rate, a piccoli coltivatori, dei terreni espropriati.

Fino al pagamento integrale del prezzo la proprietà restava in capo all’ente di trasformazione fondiaria, ed i “diritti degli assegnatari” di questi fondi non potevano essere espropriati.

Nel 1976 si stabilì che la proprietà del fondo si sarebbe trasferita non al pagamento dell’ultima rata da parte dell’assegnatario, ma al pagamento della quindicesima rata.

Nel 1998, trasferite le relative competenze alle Regioni, la Regione Emilia-Romagna anticipò ulteriormente il momento di acquisto della proprietà da parte dell’assegnatario al pagamento della decima rata di prezzo.

Nel 2003 la norma sull’impignorabilità “dei diritti degli assegnatari” venne abrogata nel quadro della riforma della espropriazione per pubblica utilità.

3.8. Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, quel che ne risulta è che la Corte d’appello ha accolto l’opposizione falsamente applicando varie norme di legge.

3.8.1. In primo luogo, la Corte d’appello ha falsamente applicato la L. n. 230 del 1950, art. 18.

La Corte d’appello, infatti, riferisce che G.C.A. e A.L. proposero opposizione “avverso le procedure esattoriali nn. *****” (così la sentenza, p. 2, quinto rigo, dello “Svolgimento del processo”).

In mancanza di altre precisazioni da parte della Corte d’appello, ovvero di impugnazioni incidentali da parte degli opponenti, deve ritenersi che l’esecuzione iniziò nel 2005.

Nel 2005, tuttavia, la L. n. 230 del 1950, art. 18 era stato abrogato da quasi due anni, e non poteva essere applicato. Ne’ alcuna altra norma di legge vigente, a quell’epoca, impediva il pignoramento.

3.8.2. In secondo luogo, a quel che è dato comprendere dalla sentenza impugnata, oggetto dell’espropriazione nel caso di specie sembra essere stato il fondo in sé, non i diritti degli assegnatari.

A p. 2 della sentenza impugnata si riferisce infatti che gli opponenti invocarono l’impignorabilità dei “beni escussi”, mentre al foglio 2 del ricorso si legge che oggetto di esecuzione forzata fu “la quota di proprietà” dei fondi in questione.

Ma la L. n. 230 del 1950, art. 18 per quanto detto, dichiarava impignorabili i “diritti degli assegnatari”, non il fondo in sé: e ciò sul presupposto ovvio che, fino al pagamento dell’ultima rata, gli assegnatari dei fondi erano titolari solo d’un diritto personale di godimento, non d’un diritto reale dominicale.

La Corte d’appello pertanto ha ritenuto impignorabile il diritto di proprietà, applicando una norma che prevedeva solo l’impignorabilità dei diritti personali di godimento.

3.8.3. In terzo luogo, la Corte d’appello ha falsamente applicato la legge là dove ha escluso che al caso di specie potesse applicarsi la previsione della L. n. 386 del 1976, art. 10 (per evidenti lapsus calami indicata dalla sentenza dapprima come “L. n. 386 del 1974”, e poi come “L. n. 376 del 1976”), la quale come accennato stabilì che, col pagamento della quindicesima rata di prezzo, gli assegnatari dei fondi divenissero proprietari degli stessi.

La Corte d’appello ha ritenuto che la suddetta norma non avesse modificato la regola dell’impignorabilità trentennale prevista dalla L. n. 230 del 1950, art. 18 “posto che i vincoli di cui a tale ultima disposizione non attengono alla impignorabilità del fondo, bensì alla facoltà di alienare liberamente immobile, costituendo in favore dell’ente un diritto di prelazione”.

3.8.4. Quella appena trascritta è tuttavia affermazione erronea in punto di diritto.

Come già ricordato, la L. n. 386 del 1976 trasferì alle Regioni il potere di istituire e disciplinare gli enti di sviluppo agricolo, cui vennero trasferite le competenze in precedenza spettanti agli enti statali di trasformazione fondiaria.

Nel prevedere tale trasferimento, la L. n. 386 del 1976, art. 10 stabilì che “il riservato dominio a favore dell’ente di sviluppo sui terreni assegnati ai sensi della L. 12 maggio 1950, n. 230, art. 17 permane fino al pagamento della quindicesima annualità del prezzo di assegnazione”.

Questa norma, in deroga alle previsioni dell’art. 1523 c.c., anticipò il momento di acquisto della proprietà al pagamento della quindicesima rata di prezzo, consentendo dunque che l’assegnatario potesse divenire proprietario del fondo prima ancora di avere pagato l’intero prezzo.

Per effetto di tale previsione l’assegnatario del fondo, divenuto proprietario, per ciò solo restava esposto con tutti i suoi beni, ivi compreso il fondo di cui aveva acquistato la proprietà, al principio di responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c..

Con l’acquisto della proprietà da parte dell’assegnatario, infatti, il fondo assegnato diveniva pignorabile come qualsiasi altro bene incluso nel patrimonio di questi, e sfuggiva al divieto di esecuzione forzata previsto dalla L. n. 230 del 1950, art. 18 dal momento che tale norma dichiarava impignorabili solo “i diritti dell’assegnatario” (e cioè, per quanto detto, il diritto personale di godimento, non certo la proprietà).

4. La sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio alla Corte d’appello di Bologna, la quale in applicazione dei principi sopra esposti sanerà le mende della sentenza impugnata dapprima accertando, in fatto:

a) se gli assegnatari siano o no divenuti proprietari del fondo, traendone le debite conseguenze sulla questione della impignorabilità;

b) se l’esecuzione abbia attinto il diritto reale di proprietà, il diritto personale di godimento od entrambi, traendone le debite conseguenze in punto di legitimatio ad causam;

e quindi applicando i seguenti principi di diritto:

(A) l’impignorabilità prevista dalla L. n. 230 del 1950, art. 18, comma 3, concernente i “diritti degli assegnatari” di fondi agricoli alienati loro dagli enti di riforma fondiaria, è stata abrogata a decorrere dal 30 giugno 2003;

(B) la L. n. 389 del 1976, art. 10 stabilendo che il soggetto acquirente di fondi agricoli secondo le leggi di riforma agraria (L. n. 230 del 1950) acquisti la proprietà del fondo col pagamento della quindicesima rata di prezzo, consentiva a partire da tale momento l’esecuzione forzata sul fondo in danno dell’acquirente.

5. Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

(-) accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte di cassazione il 4 febbraio 2021 e previa riconvocazione, il 30 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2021

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