LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ACIERNO Maria – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –
Dott. SOLAINI Luca – rel. Consigliere –
Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 17099/2020 proposto da:
A.I., elettivamente domiciliato in Roma, presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avv. P.
Spinicelli, per procura in atti;
– ricorrente –
contro
Ministero Dell’interno;
– intimato –
avverso il decreto del TRIBUNALE di PERUGIA, depositato il 10/04/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/06/2021 dal cons. SOLAINI LUCA.
RILEVATO IN FATTO
che:
Il Tribunale di Perugia ha respinto il ricorso proposto da A.I. cittadino del Ghana, avverso il provvedimento della competente Commissione territoriale che aveva negato al richiedente asilo il riconoscimento della protezione internazionale anche nella forma sussidiaria e di quella umanitaria.
Il ricorrente ha riferito di essere espatriato il 21.2.2007, appena prima della nascita del figlio avuto dalla propria compagna. Nel 2006 era giunto il momento per la compagna diciottenne di essere sottoposta alla mutilazione dei genitali, secondo gli usi e costumi locali. Per evitare tali mutilazioni il ricorrente aveva messo in cinta la fidanzata così da essere convocato dagli “anziani” che gli comunicavano che se il nuovo nato fosse stato femmina avrebbero praticato la mutilazione alla figlia, se fosse nato maschio il ricorrente avrebbe dovuto versare Euro 10.000,00, pari a quanto avrebbe versato la associazione americana NGO che ha lo scopo di salvare le donne dalla predetta mutilazione. Il ricorrente veniva considerato, comunque, impuro dalla propria comunità ed emarginato da tutti. Voleva lasciare il villaggio con la fidanzata, ma questa, incinta di sei mesi, fu costretta a restare dal padre, per praticare l’aborto. Il ricorrente prima scappò in Libia e poi in Italia e dopo tanti anni sarebbe ancora considerato impuro, con il rischio di essere ucciso.
A sostegno della propria decisione di rigetto, il tribunale, a differenza della Commissione territoriale, ha ritenuto le dichiarazioni credibili per la vicenda narrata che risultava fondata alla luce delle fonti d’informazione, ma la medesima vicenda non è stata ritenuta riconducibile a nessuna ipotesi di persecuzione, per il riconoscimento dello status di rifugiato e neppure sono stati ritenuti esistenti i presupposti della protezione sussidiaria, neanche declinata secondo l’ipotesi di cui alla lettera c) in quanto dalle fonti informative disponibili, nella zona di provenienza del ricorrente, non risulta esistente una situazione di violenza indiscriminata dovuta a conflitto armato. Neppure sono state allegate e dimostrate, secondo il tribunale, la ricorrenza di specifiche situazioni di vulnerabilità.
Contro il decreto del predetto Tribunale è ora proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.
Il Ministero dell’Interno non ha spiegato difese scritte.
CONSIDERATO IN DIRITTO
che:
Il ricorrente censura la decisione del tribunale: (i) sotto un primo profilo, per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 11, lett. a), in combinato disposto con l’art. 24 Cost. e con l’art. 6 CEDU, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., per mancata audizione del ricorrente; (ii) sotto un secondo profilo, per nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per motivazione apparente e contraddittoria, e per omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avuto riguardo al profilo della “vergogna” e del “pregiudizio sociale” derivanti dall’aver messo in cinta una ragazza al di fuori del matrimonio (anche se per evitarle la pratica della mutilazione dei genitali) che è uno stigma sociale non temporaneo ma che permarrebbe per sempre; (iii) sotto un terzo profilo, per violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in combinato disposto con l’art. 10 Cost., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., per il mancato riconoscimento della protezione umanitaria.
Il primo motivo è inammissibile, ex art. 360 bis c.p.c., perché la decisione del tribunale di non dare corso all’audizione, in assenza di deduzioni di fatti nuovi a sostegno della domanda o di deduzione di aspetti specifici sui quali fornire chiarimenti (cfr. Cass. n. 21584/20) è conforme alla giurisprudenza consolidata di questa Corte.
Il secondo motivo è inammissibile, perché solleva censure sulla ricostruzione del contesto socioculturale e personale nel quale il ricorrente ha vissuto la vicenda narrata, che è una questione di merito, insindacabile in sede di legittimità, in assenza di vizi logici come nella specie.
Il terzo motivo è infondato, in quanto la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine per verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti fondamentali (Cass. n. 4455/18), è stata effettuata dal Tribunale che ha accertato, con giudizio di fatto, l’insussistenza di situazioni di vulnerabilità meritevoli di tale protezione.
La mancata predisposizione di difese scritte da parte dell’amministrazione statale esonera il collegio dal provvedere sulle spese.
PQM
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE:
Rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, ove dovuto, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello corrisposto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2021