LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 14046/2019 proposto da:
AZIENDA SANITARIA LOCALE ASL ***** LANCIANO – VASTO – CHIETI, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SUSA 1, presso lo studio dell’avvocato IDA DI DOMENICA, rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONELLA BOSCO, per procura speciale in atti;
– ricorrente –
contro
D.S.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PASUBIO 2, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO HINNA DANESI, che la rappresenta e difende per procura speciale in atti;
– controricorrente –
e contro
GENERALI ITALIA SPA, *****, ZURICH INSURANCE PUBLIC LIMITED COMPANY RAPPRESENTANZA GENERALE PER L’ITALIA, REALE MUTUA DI ASSICURAZIONI SPA;
– intimate –
avverso la sentenza n. 1204/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/02/2019;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/03/2021 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO;
udito l’Avvocato;
udite le conclusioni della Procura Generale, nella persona della Dott.ssa Anna Maria Soldi.
FATTI DI CAUSA
1.- L’Azienda Sanitaria Locale U.S.L. Lanciano Vasto – Chieti ricorre, con ricorso articolato in quattro motivi ed illustrato da memoria, nei confronti di Generali Italia s.p.a., Zurich Insurance Public Limited Company, di Reale Mutua Ass.ni s.p.a. nonché del prof. B.U. e dei Dott. R.G. e C.F., di Unipolsai Ass.ni s.p.a. e contro la signora D.S.S. per la cassazione della sentenza n. 1204 pubblicata il 20 febbraio 2019 dalla Corte d’appello di Roma, che condannava in solido il Professor B., i dottori R. e C. nonché la U.S.L. ricorrente a risarcire a D.S.S. il danno, quantificato complessivamente in 570.000 Euro oltre gli interessi e le spese, per averle i sanitari, nel corso di una operazione di asportazione di una cisti ovarica, asportato l’intero utero senza il suo preventivo consenso, causandole danni psichici e fisici, e dichiarava le compagnie di assicurazione tenute a manlevare, ciascuna per la quota di competenza, la ASL, fino al limite del massimale.
2. – La signora d.S. resiste con controricorso illustrato da memoria.
3. – Gli altri soggetti, regolarmente intimati, non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
4. – Di seguito la vicenda giudiziaria, in estrema sintesi.
4.1. – La signora D.S. si sottopose nel ***** (all’epoca ventitreenne), ad una operazione alle ovaie, nel corso della quale a mezzo di esame istologico estemporaneo, venne accertato che la donna era affetta da un carcinoma alle ovaie con metastasi estesa all’omento e al peritoneo e, senza interrompere l’intervento e senza l’acquisizione di uno specifico consenso della paziente in ordine ad un intervento diverso da quello inizialmente programmato e maggiormente demolitorio, l’equipe, con a capo il Dott. B., le asportò sia le ovaie che l’utero (dopo aver verbalmente informato soltanto la madre della D.S., in attesa fuori dalla sala operatoria). Dopo l’intervento, la paziente si recò in *****, in un centro specializzato nella cura dei tumori, ove venne sottoposta ad un ulteriore intervento di asportazione dei linfonodi aortici.
4.2. – La D.S. citò in giudizio nel ***** i medici italiani che l’avevano operata e la USL dove si era svolta l’operazione davanti al Tribunale di Chieti, che non le riconobbe il diritto al risarcimento.
4.3. – Propose appello dinanzi alla Corte d’Appello de L’Aquila, che confermò la sentenza del Tribunale di Chieti, affermando fra l’altro che un intervento diverso, meno demolitivo di quello eseguito di isterectomia, non sarebbe stato sufficiente a salvarle la vita.
4.4. – La signora D.S. propose ricorso per cassazione, e la Corte cassò la sentenza impugnata con sentenza n. 12205 del 2015, rinviando alla Corte d’Appello di Roma affinché rinnovasse il giudizio di appello attenendosi, quanto alla violazione del consenso informato, al principio di diritto da essa enunciato, secondo il quale: “In tema di attività medico-chirurgica, è risarcibile il danno cagionato dalla mancata acquisizione del consenso informato del paziente in ordine all’esecuzione di un intervento chirurgico, ancorché esso apparisse, “ex ante”, necessitato sul piano terapeutico e sia pure risultato, “ex post”, integralmente risolutivo della patologia lamentata, integrando comunque tale omissione dell’informazione una privazione della libertà di autodeterminazione del paziente circa la sua persona, in quanto preclusiva della possibilità di esercitare tutte le opzioni relative all’espletamento dell’atto medico e di beneficiare della conseguente diminuzione della sofferenza psichica, senza che detti pregiudizi vengano in alcun modo compensati dall’esito favorevole dell’intervento”.
4.5. – Con la sentenza n. 12205 del 2015, la Corte accolse anche il quinto motivo di ricorso della D.S., sotto il profilo della assoluta contraddittorietà della motivazione, demandando al giudice del rinvio di esaminare il profilo della pretesa risarcitoria “tanto inerente la lesione del diritto al consenso informato quanto inerente la lesione la lesione della salute ipoteticamente riconducibile all’asportazione dell’utero, valutando che l’asportazione avvenne in assenza di presenza di neoplasia in atto in detto organo della ricorrente”.
5. – La Corte d’Appello di Roma ha deciso la controversia in sede di rinvio con la sentenza n. 1204 del 2019 qui impugnata, nella quale sono riportati ampi passi della motivazione della sentenza di legittimità del 2015, e accoglie la domanda. In particolare:
– accerta che l’operazione demolitrice è stata effettuata senza consenso informato quanto all’intervento demolitorio;
– accerta che l’utero non era infiltrato, che la massa tumorale era circoscritta alle ovaie, e ritiene che quindi sarebbe stato sufficiente un intervento meno radicale: “si sarebbe potuto praticare un intervento conservativo dell’utero, eliminando ugualmente la patologia”;
– nel liquidare i danni, attribuisce rilievo alla perdita della possibilità di scegliere se rivolgersi altrove, e ed anche di procurarsi le precondizioni per accedere alla gravidanza assistita di tipo eterologo;
– liquida i danni in favore della signora D.S. in complessivi 570 mila Euro, comprensivi di danno biologico per la lesione del diritto alla salute con la massima personalizzazione e di danno non patrimoniale da lesione del consenso;
– dichiara le compagnie di assicurazione e coassicurazione tenute a manlevare la ASL fino al limite del massimale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
La ASL ha articolato quattro motivi di ricorso.
6. – Con il primo motivo di ricorso lamenta l’error in procedendo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in cui sarebbe incorso il giudice di rinvio per non aver pronunciato sulla inammissibilità dell’atto di riassunzione, dedotta dalla Asl con la comparsa di risposta depositata in sede di riassunzione, con la quale denunciava che la D.S. non aveva riproposto, in quella sede, tutte le originarie domande, concentrandosi sulla mancanza del consenso informato e sulla presunta non necessità della asportazione dell’utero, e, quanto al consenso informato, segnalava che la danneggiata avrebbe anche ricostruito diversamente i fatti, modificando uno dei presupposti del danno, avendo dedotto in primo grado che il consenso le era stato estorto con l’inganno, per poi modificare la domanda, in sede di rinvio, facendo riferimento alla mancata prestazione del consenso alla operazione integralmente demolitrice.
7. – Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 384 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Segnatamente si censura il fatto che la Corte d’appello di Roma, in sede di riassunzione, si sia limitata a conferire ai consulenti tecnici il compito di accertare il quantum del danno biologico, sia con riferimento all’inabilità temporanea che permanente subita dalla D.S. in conseguenza dell’intervento chirurgico, senza alcun riferimento alla lesione del diritto al consenso informato e dando per scontata la sussistenza dell’an, mentre la pronuncia di legittimità n. 12205/2015 nell’annullare con rinvio – non aveva ritenuto ormai definitivamente accertato l’an del danno (anzi, la Corte di cassazione aveva affermato che il Giudice del rinvio avrebbe dovuto “esaminare il profilo della pretesa risarcitoria… tanto inerente la lesione del diritto al consenso informato, quanto inerente la lesione del diritto alla salute ipoteticamente riconducibile all’asportazione dell’utero…”).
La Corte d’appello, quindi, avrebbe dovuto chiedere ai consulenti tecnici anche di verificare se l’asportazione dell’utero, in un quadro clinico come quello della D.S., avrebbe potuto essere evitata o se invece secondo le leges artis dell’epoca risultava indispensabile, benché differibile eventualmente di qualche giorno o settimana. Avrebbe altresì dovuto considerare il quadro complessivo degli interventi praticati sulla paziente, ed in particolare l’intervento, anch’esso invasivo, praticato in ***** poco dopo, nel *****, nel corso del quale i chirurghi francesi procedevano non solo all’asportazione di un nodulo vaginale, per il quale l’intervento era stato programmato, ma anche ad una estesa e sistematica linfoadenectomia pelvica e lombo-aortica, oltre all’asportazione dell’omento. Sostiene la ASL ricorrente che nel quesito rivolto al c.t.u. questo aspetto sarebbe stato trascurato, e che la consulenza tecnica si sarebbe limitata alla esclusiva quantificazione del danno derivato dalla isterectomia, con conclusioni recepite dalla sentenza, la quale, non avendo tratto né dalla c.t.u. disposta in sede di giudizio di rinvio, né dal materiale probatorio complessivamente acquisito elementi per corroborare la responsabilità della ASL di Chieti per l’asportazione dell’utero, avrebbe dovuto rigettare la domanda per mancato accertamento del nesso causale, non potendo ritenere accertata, in mancanza appunto dei dovuti accertamenti, una circostanza che la Corte di cassazione aveva ritenuto soltanto ipotetica e quindi da accertare in concreto, a mezzo di una indispensabile istruttoria integrativa.
8. – Con il terzo motivo di ricorso si deduce l’error in iudicando per omesso esame di fatti decisivi in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Segnatamente la Corte d’appello di Roma non avrebbe tenuto conto, nella valutazione del danno, degli esiti dell’intervento chirurgico successivo, eseguito dai medici francesi ai quali la D.S. si era successivamente rivolta, che avrebbe dovuto essere invece considerato.
9. – Con il quarto motivo si deduce l’error in iudicando per omesso esame di ulteriori fatti indicati come decisivi in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223,1226,1227 e 2056 c.c., in relazione al 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
In particolare si lamenta come i giudici del rinvio, recependo supinamente le conclusioni dei consulenti, anche nella fase della determinazione del quantum abbiano ricondotto ogni problematica fisica e psicologica lamentata dalla D.S. alla asportazione dell’utero, senza considerare gli effetti comunque devastanti derivanti dall’insorgere nell’apparato genitale, in così giovane età, di una patologia tanto grave, che aveva reso necessaria l’ovariectomia bilaterale, dalla quale sarebbero comunque derivate una menopausa precoce, di origine chirurgica, e la conseguente infertilità. Segnala che l’importanza e l’entità dei disturbi di natura psichica non potevano essere ascritti in via esclusiva alla isterectomia, ma all’insieme di eventi che hanno provocato la grave menomazione dell’apparato genitale. Al contrario, la corte d’appello aveva ignorato la presenza di queste e di altre concause (quali i problemi di salute del fratello più giovane, la precoce attività sessuale della paziente, il preesistente disadattamento universitario). Tutte circostanze delle quali, nella ricostruzione della ricorrente, sarebbe stato necessario verificare l’incidenza sulla condizione psicologica della paziente, essendo tali da operare come concause di danno psicologico preesistenti e indipendenti dall’intervento, da tenere in conto ai fini della valutazione equitativa del danno, mentre la corte aveva liquidato a carico della ASL le intere conseguenze pregiudizievoli della situazione in cui si era venuta a trovare la D.S., in parte per antecedenti cause, naturali e non, non imputabili alla struttura sanitaria, concedendo anche la massima personalizzazione del danno.
10. – Il primo motivo è infondato, il terzo è inammissibile.
Il secondo e il quarto motivo, connessi, sono invece fondati e vanno accolti, con cassazione della sentenza impugnata.
11. – La controricorrente segnala che il primo motivo deve ritenersi radicalmente inammissibile, perché se la denunciata omissione di pronuncia riguarda una tesi o una eccezione formulata da una delle parti che sia comunque incompatibile con la statuizione di accoglimento, si ha un implicito rigetto della medesima, che può rilevare non come omessa pronuncia cioè come violazione di una norma sul procedimento, ma esclusivamente come violazione di legge o eventualmente vizio di motivazione (richiama in proposito Cass. n. 14486 del 2004).
12. – Il primo motivo è infondato.
12. 1. – La sentenza di appello ripercorre le tappe precedenti molto analiticamente, riportando ampi passi della motivazione della sentenza di legittimità che ha cassato con rinvio la precedente pronuncia. Implicitamente, ma chiaramente, nell’accogliere la domanda risarcitoria rigetta, ritenendolo inconsistente, il rilievo della ASL secondo il quale la danneggiata, in sede di riassunzione, avrebbe modificato la domanda non per averla ampliata ma, al contrario, per essersi concentrata sui due profili residui, indicati come rilevanti dalla sentenza di legittimità: la mancanza del consenso ad un intervento totalmente demolitorio e le sue conseguenze sulla personalità e sulla vita della paziente, il danno alla salute conseguente ad un intervento correttamente eseguito, ma non indispensabile come ritenuto dai sanitari.
12. 2 – Come recentemente ribadito da questa Corte (Cass. n. 32258 del 2018), il vizio di omessa pronuncia non si verifica quando sia ravvisabile una statuizione implicita di rigetto come quando la pretesa avanzata con il capo di domanda o con la eccezione non espressamente esaminata risulti incompatibile con l’impostazione logico giuridica della pronuncia.
12. 3 – Si aggiunga che, nel caso di specie, non di un comune appello si trattava, ma di un giudizio di rinvio a seguito di cassazione: chi effettua la riassunzione a seguito di cassazione con rinvio non è tenuto, a pena di inammissibilità, a riprodurre nella sua integralità la domanda originaria, ma ben può concentrarsi sui soli profili non ancora passati in giudicato sulla base del precedente gioco incrociato delle impugnazioni, che determina la delimitazione della materia del contendere ai punti in relazione ai quali il ricorso per cassazione è stato accolto, dovendo necessariamente concentrarsi su quelli l’esame del giudice del rinvio. La giurisprudenza di legittimità puntualizza che l’atto di riassunzione della causa innanzi al giudice di rinvio, poiché non dà luogo ad un nuovo procedimento, ma ad una prosecuzione dei precedenti gradi di merito, non deve contenere, ai fini della sua validità, la specifica riproposizione di tutte le domande, eccezioni e conclusioni originariamente formulate, essendo sufficiente che siano richiamati l’atto introduttivo del giudizio ed il contenuto del provvedimento in base a cui avviene tale riassunzione (Cass. n. 30529 del 2017). L’atto di riassunzione del procedimento dinanzi al giudice del rinvio deve soltanto esplicitare la volontà di ottenere la pronuncia di merito favorevole, atteso che l’accertamento derivante dalla sentenza di cassazione riguarda i poteri del giudice di rinvio, non la domanda giudiziale, che si forma e si definisce esclusivamente nel giudizio di primo grado, e che in sede di rinvio non sono ammissibili domande nuove (già precluse in appello), mentre sono consentite – e dunque non imposte “quoad validitatem” relativamente all’atto di riassunzione – le sole conclusioni diverse eventualmente necessitate dalla sentenza di cassazione (art. 394 c.p.c., comma 3), (Cass. n. 3883 del 2017).
12. 4 – Anche in riferimento alla denunciata modifica della domanda relativa al consenso informato e dei fatti allegati a suo presupposto, il ricorso è infondato. L’implicito rigetto dell’eccezione discende dall’accoglimento della impugnazione, a seguito di una ponderazione della domanda sui danni da violazione del diritto al consenso informato esaminata nel suo complesso e ritenuta fondata in relazione all’esecuzione di un intervento diverso e più radicale rispetto a quello precedentemente assentito.
13. – Il secondo motivo è infondato.
13. 1 – La sentenza rescindente, Cass. n. 12205 del 2015, dopo ampia trattazione dedicata al profilo del consenso informato, ha accolto anche il quinto motivo di ricorso, che denunciava la radicale contraddittorietà della motivazione laddove da un canto affermava, riportando i risultati della biopsia, che gli organi che contenevano evidenze neoplasiche erano esclusivamente l’ovaio sinistro, un nodulo perineale, l’ovaio destro, una appendice fibrosa e il tessuto omentale, senza alcun riferimento quindi all’utero della paziente, mentre poi a pag. 21 affermava, in modo palesemente contraddittorio, che tutti gli organi asportati erano affetti da neoplasia, nominando espressamente tra gli organi ove il male si era diffuso anche l’utero. La sentenza di legittimità cassa quindi la decisione d’appello sul punto in cui “ha ritenuto che la biopsia avesse rivelato che anche l’utero della D.S. era affetto da neoplasia, mentre al contrario essa lo escludeva”.
13.2 – Dalla prospettazione del motivo di ricorso si evince con sufficiente chiarezza che la censura della ricorrente non si limita a contestare il contenuto del quesito rivolto al consulente tecnico in sede di giudizio di rinvio, critica in sé inammissibile, ma critica il risultato decisionale cui si è pervenuti anche grazie alla consulenza in quei termini impostata, ovvero il secondo motivo di ricorso è volto a contestare la legittimità della sentenza impugnata, laddove avrebbe dato per scontato l’an della responsabilità della struttura sanitaria per l’asportazione dell’utero non infiltrato.
13. 3 – Il rilievo non è fondato, in quanto la corte d’appello non ha dato per scontata la sussistenza della responsabilità della struttura sanitaria, limitandosi a liquidare il danno (secondo criteri errati, come si dirà oltre, a proposito del quarto motivo), ma ha proceduto dapprima a valutare il profilo di necessità e urgenza dell’intervento ed ha accertato che l’asportazione integrale dell’utero, non infiltrato, non era stata resa necessaria dalla situazione, come risultante obiettivamente dagli accertamenti istologici a disposizione del chirurgo ai fini dell’intervento.
13. 4 – Ha pertanto accertato che la danneggiata avesse provato l’esistenza del nesso di causalità materiale tra l’operato della clinica e la sua condizione di menomazione finale, laddove, intervenendo come programmato sulla paziente, aveva provveduto ad effettuare un intervento ben più radicale di quanto previamente concordato senza acquisire il necessario consenso informato della paziente e senza che ve ne fosse necessità. Ciò in conformità al consolidato orientamento di questa Corte che ritiene, in tema di responsabilità sanitaria, che il paziente sia tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, il nesso di causalità materiale tra condotta del medico in violazione delle regole di diligenza, della perizia o, come in questo caso, della prudenza, ed evento dannoso, consistente nella lesione della salute (ovvero nell’aggravamento della situazione patologica o nell’insorgenza di una nuova malattia), non essendo sufficiente la semplice allegazione dell’inadempimento del professionista; e’, invece, onere della controparte, ove il detto paziente abbia dimostrato tale nesso di causalità materiale, provare o di avere agito con la diligenza richiesta o che il suo inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile (da ultimo, v. Cass. n. 26907 del 2020).
14. – Il terzo motivo è inammissibile.
La deduzione del vizio di motivazione non è in linea con il suo limitato attuale ambito di rilevanza, da cui discende la necessità di una denuncia precisa, che individui il “fatto” del quale è stata omessa la considerazione, e ne segnali sia che sia stato oggetto di discussione sia la decisività non adeguatamente tenuta in conto. Come già affermato da questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, ove venga dedotto vizio di motivazione, ai sensi del combinato disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente è tenuto ad indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 19987 del 2017).
14. 1 – Nel caso di specie si denuncia di non aver adeguatamente approfondito quale fosse il significato da attribuire al successivo intervento effettuato in ***** dalla D.S., ma non risulta dalla lettura del provvedimento impugnato, né è chiaramente evidenziato nel ricorso che fosse stato accertato che si trattasse, di per sé, di intervento ancor più demolitorio (e’ una mera ipotesi dell’attuale ricorrente), né che esso dovesse ritenersi confermativo della necessità della precedente integrale asportazione dell’utero, né, soprattutto, che questo dato sia stato segnalato in una apposita sede processuale e non sia stato adeguatamente valorizzato dalla corte d’appello nella formazione del suo convincimento giungendo in ragione di tale omissione ad una conclusione diversa da quella ipotizzabile ove esso fosse stato considerato.
15. – Il quarto motivo, con il quale si contestano i criteri seguiti dal giudice di merito per la quantificazione del danno alla salute riportato dalla D.S., e il risultato cui si è pervenuti, è invece fondato e va accolto.
15. 1- La corte d’appello ha determinato, sulla scorta delle indicazioni del consulente tecnico, nel 30% l’invalidità permanente riportata dalla giovane donna all’esito dell’intervento chirurgico e ha riconosciuto che le fosse dovuto, a carico della ASL, un risarcimento per il danno biologico riportato rapportato al 30% di invalidità complessiva; quindi, in ragione delle circostanze del caso concreto, ed in particolare della perdita della capacità procreativa in una giovane donna, dei gravissimi postumi anche di natura psichica, della considerazione che “tale drammatica vicenda ha compromesso l’intera vita di una giovane donna, determinando un vero sconvolgimento della propria vita futura con un’indubbia ripercussione sui rapporti sentimentali, interpersonali, familiari e sociali”, le ha concesso la massima personalizzazione del danno consentita dalle tabelle applicate.
15. 2 – In questi ultimi due passaggi si concreta la denunciata violazione di legge, non avendo la corte d’appello provveduto a distinguere adeguatamente tra causalità materiale e causalità giuridica, e, all’interno della causalità giuridica, laddove ha addebitato alla Asl, nella liquidazione del danno alla salute, l’intero danno biologico conseguente alla perdita dell’integrale apparato riproduttivo da parte della D.S. senza considerare che, in ragione della malattia, parte di esso doveva necessariamente essere asportato, ed è stato correttamente asportato comunque, e che quindi il danno biologico effettivamente subito andava calcolato con la tecnica del danno differenziale, ponendo a carico della ASL solo l’evento della quale poteva essere ritenuta responsabile. A questo scopo sarebbe stato necessario individuare, dapprima sul piano medico legale, e quindi recepire, ove condivise, in motivazione, le conseguenze fisiopsichiche e le ricadute e le limitazioni sulla vita personale e sulle scelte procreative della paziente determinate dalla sua stessa patologia tumorale, che sarebbero comunque conseguite all’intervento chirurgico necessario per salvarle la vita e quindi valutare quanto quelle conseguenze si fossero radicalizzate o aggravate, sia sul piano fisico che delle sofferenze e delle alterazioni psichiche, con la non necessaria asportazione dell’utero e dell’intero apparato riproduttivo, per poi apprezzare e quantificare, sotto il profilo del risarcimento del danno per equivalente, le ricadute pregiudizievoli della sola parte non necessaria dell’intervento sulla vita della paziente.
15. 3 – In definitiva, la Corte d’appello non ha tenuto in conto che non erano addebitabili, sotto il profilo della causalità giuridica, alla ASL, l’intera gamma delle conseguenze fisiche e psichiche, senz’altro devastanti, riportate dalla signora D.S. all’esito dell’intervento chirurgico subito presso la struttura pubblica, ma solo le conseguenze riconducibili secondo il principio della causalità giuridica al suo ambito di responsabilità, perché determinate dall’esecuzione di un intervento demolitivo non necessario, eseguito però non su un apparato genitale completo di una persona sana, ma su un corpo già di necessità inciso in maniera consistente, a causa della malattia.
Come osservato dalla ricorrente, la corte d’appello non ha considerato, nel quantificare il danno, che l’insorta neoplasia a carico dell’apparato genitale veniva in rilievo quale antecedente causa naturale non imputabile, priva di interdipendenza funzionale con la condotta colposa dei sanitari.
16. – Come già in precedenza affermato da questa Corte in più di una occasione, si può affermare che in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, ove si individui in un pregresso stato morboso del paziente/danneggiato (nella specie, la patologia tumorale in atto) e nell’intervento chirurgico correttamente eseguito per asportare la parte del corpo irrimediabilmente compromessa altrettanti antecedenti privi di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario (consistente, nella specie, nell’asportazione dell’intero apparato riproduttivo), ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata, allo stesso non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l’evento dannoso, appartenendo ad una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce il contegno del sanitario, bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, potendosi così pervenire – sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto – solamente ad una delimitazione del “quantum” del risarcimento. Ciò allo scopo di ascrivere all’autore della condotta, responsabile tout court sul piano della causalità materiale, un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose non riconducibili eziologicamente all’evento di danno, bensì determinate dal fortuito, come tale dovendo reputarsi la pregressa situazione patologica del danneggiato e l’intervento chirurgico necessario, concordato e correttamente eseguito. In tal modo il danneggiante sarà chiamato a rispondere di tutto il danno provocato e soltanto di esso, ovvero, in presenza di concause, delle sole conseguenze dannose a lui ascrivibili sotto il profilo della causalità giuridica (v. (Cass. n. 15991 del 2011; Cass. n. 24204 del 2014; Cass. n. 27524 del 2017; Cass. n. 20829 del 2018Cass. n. 28986 del 2019; Cass. n. 17555 del 2020, Cass. n. 514 del 2020). 17. – Quanto al criterio da utilizzare per calcolare l’ammontare del danno da risarcire in queste particolari situazioni in cui ad una patologia o una menomazione preesistente se ne aggiunge una determinata dall’illecito, che con essa concorre, vanno richiamati i principi recentemente affermati per la liquidazione del danno c.d. differenziale secondo i quali in tema di liquidazione del danno alla salute, l’apprezzamento delle menomazioni preesistenti “concorrenti” in capo al danneggiato rispetto al maggior danno causato dall’illecito va compiuto stimando, prima in punti percentuali, l’invalidità complessiva, risultante cioè dalla menomazione preesistente sommata a quella causata dall’illecito, poi stimando quella preesistente all’illecito, convertendo entrambe le percentuali in una somma di denaro, e procedendo, infine, a sottrarre dal valore monetario dell’invalidità complessivamente accertata quello corrispondente al grado di invalidità preesistente: solo del differenziale tra questi due valori può essere ritenuto responsabile il danneggiante, avendo dato luogo solo a quel “segmento” di danno, e solo in relazione a tale “segmento”, così individuato potrà il giudice legittimamente esercitare il suo potere-dovere di personalizzare il danno in relazione alle circostanze del caso concreto, prendendo a base di calcolo il parametro costituito dalla differenza tra i due valori (v. sul tema Cass. n. 28896 del 2019).
18. – Nel caso di specie, invece, la corte d’appello, abbagliata dalla obiettiva drammaticità della situazione in cui è precipitata in giovane età la signora D.S., ha effettuato una quantificazione del danno rapportata alla invalidità complessiva successiva all’intervento chirurgico, senza minimamente considerare che dall’importo in tal modo determinato doveva essere sottratto il valore monetario corrispondente alla patologia originaria e alle conseguenze necessitate dell’intervento chirurgico volto alla sua rimozione, a detrimento delle possibilità riproduttive della paziente ma a salvaguardia delle sue aspettative di vita, in modo tale da determinare il differenziale risarcitorio, da personalizzare, spettante alla danneggiata. Conclusivamente, il primo motivo e il secondo motivo sono infondati, il terzo è inammissibile, il quarto motivo di ricorso è fondato e va accolto. La sentenza è cassata e la causa è rinviata alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.
In ragione della particolarità della fattispecie, le spese del giudizio di legittimità sono compensate.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo e il secondo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il terzo, accoglie il quarto.
Cassa la sentenza impugnata in riferimento al quarto motivo e rinvia alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.
Compensa le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 25 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2021