Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.27290 del 07/10/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7905/2018 proposto da:

BRAVA SERVICE SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BARNABA TORTOLINI 30, presso lo studio del Dott. ALFREDO PLACIDI, rappresentato e difeso dall’Avvocato FABRIZIO ARONICA;

– ricorrente –

contro

CONSORZIO QUARTIERE AFFARI, elettivamente domiciliato in MILANO, VIA OREFICI 2, presso lo studio dell’Avvocato PAOLO MARIA CAPE’, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4660/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 28/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 31/03/2021 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto.

FATTI DI CAUSA

1. La società Brava Service S.r.l. ricorre, sulla base di sette motivi, per la cassazione della sentenza n. 4660/17, del 28 novembre 2017, della Corte di Appello di Milano, che – accogliendo il gravame esperito dal Consorzio Quartiere Affari (d’ora in poi, “Consorzio”) avverso la sentenza n. 10706/16, del 30 settembre 2016, del Tribunale di Milano – ha condannato l’odierna ricorrente a restituire al Consorzio, a far data dal 31 dicembre 2011, il parcheggio multipiano interrato sito a *****.

2. In punto di fatto, la ricorrente riferisce di essere stata convenuta in giudizio dal Consorzio, che, sul presupposto dell’avvenuta conclusione tra le parti, il 13 ottobre 2009, di un contratto relativo al parcheggio suddetto, chiedeva la restituzione dello stesso ai sensi dell’art. 9 dell’accordo contrattuale (che prevedeva una durata biennale), oltre al risarcimento dei danni da mancata restituzione del bene alla scadenza pattuita. La convenuta, nel costituirsi in giudizio, non solo eccepiva che il contratto concluso costituiva una locazione immobiliare ad uso diverso da quello abitativo, sicché la sua scadenza andava individuata, “ex lege”, nel 31 dicembre 2016, ma agiva pure in via di riconvenzione, per far valere la responsabilità contrattuale o precontrattuale dell’attrice, per essere stata indotta a confidare nel rinnovo e/o proroga del contratto, con risarcimento del danno da interesse negativo e/o del danno contrattuale, da liquidarsi in corso di causa.

Il giudice di prime cure, qualificato il contratto come locazione, decorrente dal 1 gennaio 2010, fissava nel 31 dicembre 2021 la cessazione dello stesso, con condanna di Brava Service a rilasciare l’immobile per tale data, rigettando, così, la domanda (anche risarcitoria) del Consorzio. Esperito gravame da quest’ultimo, che – previa riqualificazione del contratto come mandato senza rappresentanza, insisteva affinché Brava Service fosse condannata all’immediato rilascio, per essere maturata la scadenza di cui all’art. 9 del testo contrattuale, oltre che al risarcimento dei danni da mancata restituzione – il giudice di appello, ritenuto di dover inquadrare l’accordo corrente “inter partes” come contratto atipico, avente ad oggetto l’affidamento in gestione di un’attività commerciale e produttiva dietro pagamento di un corrispettivo, condannava l’appellata alla restituzione a far data dal 31 dicembre 2011.

3. Avverso la sentenza della Corte ambrosiana ricorre per cassazione la Brava Service, sulla base – come detto – di sette motivi.

3.1. Con il primo motivo, la ricorrente si duole della mancata statuizione d’inammissibilità dell’appello, ex art. 342 c.p.c., atteso che il gravame del Consorzio si sarebbe connotato per l’inesatta e incompleta esposizione dei motivi. Esso, infatti, sarebbe stato privo dell’indicazione delle parti della sentenza del primo giudice che si intendevano impugnare, delle modifiche richieste alla ricostruzione del fatto, dell’individuazione delle circostanze rivelatrici della lamentata violazione della legge, oltre che della precisazione della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

3.2. Con il secondo motivo, è denunciata “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia”, in quanto la Corte territoriale non avrebbe “tenuto nella minima considerazione la reale volontà delle parti e la tutela del legittimo affidamento del contraente in buona fede”, ovvero essa Brava Service.

Infatti, diversamente dal Tribunale, che avrebbe compiuto “una disamina degli atti e fatti di causa, rispondendo all’eccezione” proposta dall’odierna ricorrente – “circa l’applicabilità al caso di specie della normativa che regola la materia della locazione, con conseguente rigetto dell’interpretazione opposta richiesta dal Consorzio e tendente a qualificare il rapporto dedotto quale mandato senza rappresentanza per la gestione di affari commerciali”, la Corte di Appello non si sarebbe “affatto pronunciata sulla richiesta delle parti”, avendo compiuto “una valutazione in proprio e autonoma che, in definitiva, ha condotto a non statuire sul petitum, così come qualificato, incardinato e quesito dalle parti”.

3.3. Il terzo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – è strettamente connesso a quello che lo precede, ipotizzando, infatti, “nullità della sentenza di appello in relazione all’art. 112 c.p.c., per statuizione resa extra e ultra petita”.

La ricorrente lamenta il fatto che la Corte territoriale abbia qualificato il rapporto dedotto in giudizio “in maniera diversa da quella prospettata da parte appellante”, e cioè “trovando” autonomamente “un legittimo e valido motivo di legge che giustificasse la riforma della sentenza impugnata”, disattendendo il principio secondo cui il giudice, nell’interpretazione della domanda giudiziale, “deve tener conto della situazione di fatto dedotta in causa e della volontà effettiva, nonché delle finalità che la parte intende perseguire”.

3.4. Il quarto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – denuncia “violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art. 1703 c.c.”.

Richiamata la configurazione del mandato come contratto la cui causa rimane la cooperazione gestoria ed alla cui attuazione una parte si impegna nei confronti dell’altra, la ricorrente evidenzia come dall’esame degli atti di causa emergerebbe “a chiare, evidenti e ineluttabili lettere che nel caso de quo non sussiste alcuno degli elementi tipici del mandato”, come invocati dal Consorzio, donde l’infondatezza del motivo di appello da esso proposto.

3.5. Il quinto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – denuncia violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 1978, n. 392, artt. 27,28 e 29.

Assume la ricorrente che, apposto ad una locazione immobiliare di natura commerciale un termine diverso da quello di legge (come avvenuto nel caso che occupa), non si snatura, per ciò stesso, la fattispecie contrattuale, dovendo solo ritenersi che tale durata inferiore si estenda a sei o nove anni, secondo il tipo di attività esercitata nell’immobile.

Tanto premesso, balzerebbe agli occhi come il rapporto intercorso tra Brava Service e il Consorzio “non possa ascriversi al contratto di mandato sia pure senza rappresentanza, atteso che è chiara ed evidente la volontà delle parti di aver concluso un accordo che costituisce, nei fatti e secondo i presupposti di legge, un contratto di locazione ad uso commerciale, così come del resto aveva concluso il Giudice di Prime cure”.

Sarebbero, dunque, “destituite di qualsivoglia fondamento giuridico” le “conclusioni cui perviene la Corte di Appello”, e ciò in quanto “gli elementi da cui, a parere della Corte medesima, si dovrebbe far escludere che si verta in una forma di contratto ascrivibile ai contratti di locazione ad uso commerciale, non solo non convincono, ma vengono smentiti da dicta normativi”.

Evidenzia la ricorrente come il contratto concluso non possa che essere una locazione immobiliare, in quanto prevede tutti gli elementi tipici dello stesso, ovvero:

– la consegna in godimento di un immobile per l’esercizio di attività imprenditoriale;

– l’utilizzo del bene immobile in modo tale da permettere alla Brava Service il libero esercizio delle proprie attività economiche;

– il pagamento di un corrispettivo per l’utilizzo del bene;

– la possibilità di effettuare addizioni e miglioramenti dell’immobile in questione;

– la stipulazione di una polizza assicurativa per la responsabilità civile verso terzi che protegga la proprietà da eventuali danni rivenienti dall’esercizio dell’attività imprenditoriale;

– la costituzione di un deposito cauzionale a garanzia dell’esatto e puntuale adempimento degli obblighi di pagamento;

– l’applicazione degli interessi nella misura moratoria in caso di ritardo del pagamento del canone;

– il diritto, infine, di Brava Service di trattenere per sé tutti i proventi derivanti dall’esercizio di impresa all’interno dell’immobile per il quale è lite.

3.6. Il sesto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1322 c.c..

Si censura la sentenza impugnata in quanto, in maniera del tutto inaspettata e “forzata”, ha definito il contratto oggetto di lite come “gestione atipica”: qualificazione, tuttavia, errata, dal momento che, nel caso di specie, non sussistono i presupposti per invocare l’applicazione dell’art. 1322 c.c..

Difatti, un simile contratto prevede l’affidamento in gestione, ad una società di servizi, di un bene strumentale costruito e allestito dal contraente, trovando particolare diffusione nel settore bancario e in quello alberghiero; in quest’ultimo caso, il contraente è una società proprietaria dell’albergo che affida, con mandato, la gestione dello stesso ad una società di gestione, che si occupa dell’esercizio della manutenzione e dell’amministrazione, ricevendo una remunerazione generalmente legata, in parte, all’incasso, per altra parte invece consistente in una quota fissa, ovvero i cosiddetti diritti di gestione. Si tratta, in altri termini, di una forma alternativa rispetto al franchising internazionale.

In ogni caso, anche ad ammettere che quello concluso tra le parti fosse un contratto di gestione, la disciplina ad esso applicabile risulterebbe in parte quella dell’appalto, in parte quella della locazione e segnatamente quella di cui all’art. 1615 c.c., relativo alla locazione avente ad oggetto il godimento di una cosa produttiva. Ciò posto, dato che rispetto ai contratti misti opera il principio dell’assorbimento e della prevalenza, ovvero quello in forza del quale sono applicabili al contratto le norme della fattispecie che presenta elementi prevalenti, nel caso di specie, anche in ossequio al principio del “favor prestatoris”, si dovrebbe applicare la disciplina della locazione.

3.7. Infine, il settimo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c..

La ricorrente deduce che, a norma degli artt. 1362 c.c. e segg., il contratto si deve interpretare in modo da individuare la comune intenzione delle parti e, comunque, nel rispetto del principio del “favor prestatoris”.

Ciò premesso, nonché considerato che i canoni legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia, in forza del quale i canoni strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativi/integrativi e ne escludono la concreta operatività, allorché l’applicazione dei primi sia tale da rendere già palese la comune intenzione delle parti, la ricorrente rileva come la Corte di Appello abbia operato una interpretazione del contratto del tutto avulsa dalla sua realtà, ovvero da tutti gli elementi che l’istruttoria ha evidenziato a suffragio della tesi dell’esistenza di un contratto di locazione, e non di un mandato, ovvero di un contratto atipico di gestione.

4. Il Consorzio ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, il rigetto.

Il controricorrente rileva come ognuno dei sette motivi di ricorso presenti profili di inammissibilità conseguenti al fatto che, a prescindere dalle diverse impostazioni di ciascuno, la maggior parte di essi si risolve in una critica della sentenza impugnata per non aver ritenuto applicabile, al contratto intercorso tra le parti, la disciplina della locazione, ignorando, tuttavia, che la ricerca della comune volontà delle parti, ai fini della qualificazione del contratto, costituisce un accertamento di fatto ha riservato al giudice di merito.

Ogni caso, il ricorso dovrebbe ritenersi comunque inammissibile per violazione del requisito dell’autosufficienza.

Quanto, poi, al primo motivo, il controricorrente evidenzia come il codice di rito civile non faccia carico al giudice di appello di indicare le ragioni per cui ritiene il gravame ammissibile, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., sicché l’esame dello stesso, nel merito, equivale ad una valutazione implicita della sua ammissibilità.

Il secondo motivo di ricorso farebbe, invece, riferimento ad una tipologia di vizio non più contemplato nel vigente testo dell’art. 360 c.p.c., mentre il terzo si paleserebbe non fondato proprio alla stregua dei principi richiamati dalla ricorrente, visto che il Consorzio mirava, con la propria domanda, a conseguire l’immediata restituzione del parcheggio oggetto del contratto, sulla base di quanto previsto nell’art. 9 del testo contrattuale, sicché la Corte territoriale nel provvedere in tal senso non avrebbe affatto violato l’art. 112 c.p.c..

In ordine, invece, al quarto motivo, si sottolinea come lo stesso si risolva, inammissibilmente, in una critica delle tesi difensive di esso Consorzio, e non della decisione impugnata, mentre i restanti motivi, come detto, pretenderebbero di contestare l’interpretazione che la Corte ambrosiana ha dato alla fattispecie contrattuale sottoposta al esame (per giunta, attraverso una mera contrapposizione di quella diversa proposta dalla società ricorrente e già recepita dal primo giudice), attività che si assume riservata al giudice di merito e sottratta al sindacato di legittimità.

5. Il Procuratore della Repubblica presso questa Corte, in persona di un suo sostituto, ha fatto pervenire conclusioni scritte per chiedere che il ricorso sia dichiarato inammissibile.

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va accolto, per quanto di ragione.

6.1. I diversi motivi articolati dalla ricorrente – ad eccezione del primo, che pone una questione esclusivamente processuale, e che si presenta inammissibile, come appena appresso si dirà censurano, da diverse prospettive, la decisione della Corte territoriale di qualificare la relazione contrattuale oggetto di causa, a differenza del primo giudice, non come locazione immobiliare, bensì alla stregua di una “gestione atipica”, rilevante ai sensi dell’art. 1322 c.c., comma 2.

Tale doglianza risulta fondata, per le ragioni di seguito meglio indicate, dal momento che la sentenza impugnata non ha dato adeguato rilievo alla presenza, nel contratto per cui è giudizio, di tutte le caratteristiche proprie del tipo legale di cui agli artt. da 1571 a 1606 c.c..

6.1.1. In via preliminare, tuttavia, va evidenziata l’inammissibilità della censura – oggetto del primo motivo di ricorso, da scrutinare con precedenza rispetto a tutti gli altri, dato il suo carattere pregiudiziale – che prospetta violazione dell’art. 342 c.p.c..

Ancora di recente, infatti, è stato ribadito da questa Corte che la “deduzione con il ricorso per cassazione di errores in procedendo, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, non esclude che preliminare ad ogni altro esame sia quello concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando ne sia stata positivamente accertata l’ammissibilità, diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali” (così Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6014, Rv. 648411-01).

In particolare, “il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione – che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – trova applicazione anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali siano contestati errori da parte del giudice di merito; ne discende che, ove il ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte; l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, proprio per assicurare il rispetto del principio di autosufficienza di esso” (Cass. Sez. 1, ord. 23 dicembre 2020, n. 29495, Rv. 660190-01).

Si tratta, peraltro, di un’esigenza, questa dell’autosufficienza del ricorso anche in relazione alla deduzione di “errores in procedendo” (e, segnatamente, nell’applicazione dell’art. 342 c.p.c.), che – come è stato icasticamente osservato – “non è giustificata da finalità sanzionatorie nei confronti della parte che costringa il giudice a tale ulteriore attività d’esame degli atti processuali, oltre quella devolutagli dalla legge”, ma che “risulta, piuttosto, ispirata al principio secondo cui la responsabilità della redazione dell’atto introduttivo del giudizio fa carico esclusivamente al ricorrente ed il difetto di ottemperanza alla stessa non deve essere supplito dal giudice per evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo da parte dello stesso nell’individuazione di quali atti o parti di essi siano rilevanti in relazione alla formulazione della censura” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 10 gennaio 2012, n. 82, Rv. 621100-01).

Orbene, non avendo l’odierna ricorrente – nel caso che qui occupa – provveduto a riprodurre, nel proprio atto di impugnazione, i motivi di gravame già proposti del Consorzio e ritenuti dalla Corte milanese conformi alla previsione di cui all’art. 342 c.c., il primo motivo di ricorso va dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

6.1.2. Quanto, invece, agli altri motivi (che si prestano, come detto, ad una valutazione unitaria), essi risultano fondati, per quanto di ragione.

6.1.2.1. Nel procedere alla loro disamina occorre muovere dalla constatazione che – come ripetutamente affermato da questa Corte – “la qualificazione del contratto consta di due fasi consistenti, la prima, nella individuazione ed interpretazione della comune volontà dei contraenti, la seconda, nell’inquadramento della fattispecie negoziale nello schema legale paradigmatico corrispondente agli elementi, in precedenza individuati, che ne caratterizzano la esistenza”, con la precisazione che le operazioni ermeneutiche attinenti alla prima fase costituiscono espressione dell’attività tipica del giudizio di merito, il cui risultato, concretandosi in un accertamento di fatto, non è in termini generali sindacabile in sede di legittimità (salvo che per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e segg.), mentre “la seconda, concernente l’inquadramento della comune volontà, come appurata, nello schema legale corrispondente, si risolve nell’applicazione di norme giuridiche e può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo” (così da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 1, ord. 5 dicembre 2017, n. 29111, Rv. 646340-01; nello stesso senso, successivamente, Cass. Sez. Lav., sent. 9 febbraio 2021, n. 3115, Rv. 660347-01, nonché, anteriormente, tra le tante, Cass. Sez. 3, sent. 12 gennaio 2006, n. 420, Rv. 586972-01; Cass. Sez. 2, sent. 3 novembre 2004, n. 21064, Rv. 577929-01; Cass. Sez. 2, sent. 25 gennaio 2001, n. 1054, Rv. 543449-01).

Calati questi principi nella presente vicenda, deve rilevarsi che la sentenza, pur muovendo dal presupposto che la volontà delle parti era nel senso di affidare in godimento a Brava Service, per un certo tempo, un bene immobile – nella specie, un parcheggio destinato ad uso pubblico – dietro il pagamento di un correspettivo (e, dunque, una fattispecie astrattamente corrispondente a quella di cui all’art. 1570 c.c.), ha ritenuto di dovere inquadrare giuridicamente l’operazione negoziale non nello schema legale della locazione, bensì in un contratto atipico. In particolare, l’interesse meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., comma 2, è stato ravvisato in “quello dell’affidamento in gestione di una attività commerciale e produttiva, dietro pagamento di un corrispettivo”, e ciò in quanto l’obbligazione assunta dal Consorzio di far godere a Brava Service l’immobile è stata ritenuta “funzionale all’esecuzione di un’attività oggetto di precisi obblighi connessi all’uso pubblico cui è asservito il parcheggio”, obblighi che non solo lo stesso Consorzio si era “assunto con il Comune di San Donato Milanese, in forza delle Convenzioni di lottizzazione del 4 novembre 1993 e più specificamente della Convenzione Attuativa del 14 giugno 2001, in cui il Consorzio è parte contrattuale”, ma che la stessa Brava Service aveva fatto propri, ai sensi dell’art. 2 del contratto per cui è giudizio.

Nel pervenire a tale conclusione – come detto, suscettibile di verifica e riscontro anche in questa sede, giusta la giurisprudenza sopra richiamata, secondo cui il “sindacato della Corte di Cassazione” può “essere utilmente sollecitato su criteri astratti, generali e tecnici applicati dal giudice di merito ai fini della qualificazione giuridica di un contratto” (cfr. Cass. Sez. 2, sent. n. 1054 del 2001, cit.) – la sentenza impugnata è incorsa in errore in relazione alla individuazione sia della rilevanza qualificante degli elementi di fatto, così come previamente accertati dalla stessa Corte territoriale, sia delle implicazioni giuridiche conseguenti, dovendo, infatti, escludersi, alla luce degli uni come delle altre, che il corretto paradigma al quale ricondurre la presente fattispecie fosse quello di un contratto atipico di gestione.

6.1.2.2. Invero, come non manca di sottolineare l’odierna ricorrente, il contratto da essa concluso con il Consorzio presenta(va) tutti gli elementi caratteristici della locazione immobiliare (come previsti, in particolare, dagli artt. 1575 e 1587 c.c.), e segnatamente della locazione ad uso non abitativo: la consegna in godimento di un immobile per l’esercizio di attività imprenditoriale; l’utilizzo dello stesso in modo tale da permettere alla Brava Service il libero esercizio delle proprie attività economiche; il pagamento, a scadenze pattuite, di un corrispettivo per il godimento del bene; l’obbligo di gestione, custodia e manutenzione ordinaria del bene stesso; la possibilità di effettuare addizioni e miglioramenti dell’immobile in questione; la stipulazione di una polizza assicurativa per la responsabilità civile verso terzi, così da proteggere la proprietà da eventuali danni rivenienti dall’esercizio dell’attività imprenditoriale; la costituzione di un deposito cauzionale a garanzia dell’esatto e puntuale adempimento degli obblighi di pagamento; l’applicazione degli interessi nella misura moratoria in caso di ritardo del pagamento del canone; il diritto, infine, di Brava Service di trattenere per sé tutti i proventi derivanti dall’esercizio di impresa all’interno dell’immobile per il quale è lite. Di particolare rilievo, nella prospettiva della riconducibilità del presente contratto alla locazione immobiliare ad uso non abitativo (o meglio, commerciale) è proprio la circostanza che, quale corrispettivo del godimento del bene, fosse previsto un canone predeterminato in misura fissa, da corrispondersi – come detto – a scadenze pattuite, e non una compartecipazione del Consorzio, in misura fissa o percentuale, agli utili tratti dallo svolgimento dell’attività d’impresa, ciò che avrebbe legittimato quantomeno il dubbio che l’attività di gestione del parcheggio assumesse rilievo ai fini dell’individuazione di una “causa concreta”, di natura gestoria, rilevante ai sensi ed agli effetti di cui all’art. 1322 c.c., comma 2.

Orbene, l’unica significativa eccezione, rispetto alla disciplina della locazione immobiliare ad uso non abitativo, come risultante dalla combinazione delle norme codicistiche e quelle di cui alla L. 27 luglio 1978, n. 392, concerne(va) il termine di durata, fissato in due anni dall’art. 9 del contratto, in luogo del seennio previsto dall’art. 27 della citata legge, nonché l’esclusione del rinnovo automatico del contratto, ai sensi della medesima L. n. 392 del 1978, successivo art. 28. Previsioni contrattuali, entrambe, neppure imposte, peraltro, dalla necessità – per ciascuna delle parti della presente relazione contrattuale, secondo quanto stabilito, in particolare per Brava Service, dall’art. 2 del contratto – di osservare gli obblighi nascenti dalla Convenzione di lottizzazione intervenuta tra il Consorzio e il Comune di San Donato Milanese, quanto all’uso pubblico al quale il parcheggio, oggetto del contratto, risultava asservito. Difatti, la sentenza impugnata (e al pari di essa, a dire il vero, anche il controricorso) non attesta che la durata solo biennale del godimento dell’immobile assicurato a Brava Service, nonché l’esclusione del rinnovo in assenza di disdettati rientrassero tra le condizioni previste, o comunque ricavabili, dalla suddetta Convezione di lottizzazione. Circostanza, questa, che induce a ritenere che la deroga rispetto a disciplina legale, lungi dal rappresentare legittima esplicazione della libertà negoziale (che include anche la possibilità di fuoriuscire dai tipi negoziali legalmente predeterminati, sebbene alla condizione fissata dell’art. 1322 c.c., comma 2), costituisse un mero escamotage per sottrarre un contratto, a tutti gli effetti riconducibile alla locazione immobiliare ad uso non abitativo, alla disciplina vincolistica prevista, in tema di durata e di modalità di rinnovazione, della L. n. 392 del 1978, artt. 27 e 28, con conseguente nullità parziale del contratto.

Sotto questo profilo, infatti, occorre qui ribadire che, in tema di locazione immobiliare ad uso non abitativo, “la nullità della clausola che limita la durata di un contratto soggetto alle disposizioni della L. n. 392 del 1978, art. 27, ad un tempo inferiore al termine minimo stabilito dalla legge determina l’automatica eterointegrazione del contratto, ai sensi dell’art. 1419 c.c., comma 2, con conseguente applicazione della durata legale prevista del citato art. 27, comma 4”, e ciò risultando persino “irrilevante l’avere le parti convenuto che l’invalidità anche di una sola clausola contrattuale comporti il venir meno dell’intero negozio” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 3 settembre 2019, n. 21965, 655169-01; nello stesso senso, tra le altre, già Cass. Sez. 3, sent. 26 aprile 2004, n. 7927, Rv. 572337-01).

D’altra parte, anche a ritenere che il profilo “gestorio” del parcheggio attribuito in temporaneo godimento a Brava Service (profilo, in particolare, risultante, secondo la sentenza impugnata, dagli artt. 3, 4 e 5 del contratto stesso, disciplinanti l’orario di apertura del parcheggio, gli abbonamenti e le tariffe da applicare agli utenti, ovvero – come sottolinea la Corte ambrosiana “pattuizioni che rispecchiano quanto previsto dalle norme generali della Convenzione Attuativa stipulata”, dal Consorzio, con il Comune di San Donato Milanese) abbia conferito al contratto caratteristiche tali da determinare la fuoriuscita dal tipo legale della locazione, l’esito del presente giudizio non cambierebbe, come esattamente sostenuto dalla ricorrente, segnatamente con il sesto motivo di ricorso.

In questo caso, infatti, la sentenza impugnata avrebbe dovuto stabilire se l’operazione negoziale integra(sse) “gli estremi di un contratto atipico cui, in via analogica, sono legittimamente applicabili le norme sulla locazione”, e ciò stante “lo scopo pratico del negozio che ne evidenzia la causa in concreto, in correlazione alla quale va conformata la disciplina del contratto atipico” (così Cass. Sez. 3, sent. 1 aprile 2011, n. 7557, Rv. 617751-01, con riferimento ad un contratto con cui il proprietario di un immobile aveva attribuito la disponibilità dello stesso a terzi, per la sua destinazione a discarica di rifiuti, e dunque per uno scopo – come anche quello presente – di interesse pubblico e soggetto a peculiari prescrizioni imposte dall’autorità amministrativa).

7. In conclusione, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione per la decisione sul merito della controversia alla stregua dei principi ricavabili dal p. 6.1.2.2. della presente sentenza, oltre che per la liquidazione delle spese di lite, ivi comprese quelle del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, per quanto di ragione, e cassa in relazione la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione per la decisione nel merito e per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Così deciso in Roma, all’esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, svoltasi – in forma camerale, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, convertito in L. 18 dicembre 2020, n. 176, il 31 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2021

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