LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5219/2016 proposto da:
B.P., elettivamente domiciliata in CATANIA, VIA UMBERTO 296, presso lo studio dell’avvocato LETIZIA EVELINA GRECO, rappresentata e difesa dagli avvocati GAETANO CARMELO TAFURI, LUIGI TAFURI;
– ricorrente –
contro
ENTE PARCO DELL’ETNA, IN PERSONA DELLA PRESIDENTE E LEGALE RAPP.TE PRO TEMPORE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA 58, presso lo studio dell’avvocato LUIGI MEDUGNO, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE TAMBURELLO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1205/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 08/07/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 06/05/2021 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA.
RITENUTO IN FATTO
1 Nel giudizio promosso dall’architetto B.P. contro l’Ente Parco dell’Etna per conseguire il pagamento di spettanze professionali per la redazione, insieme ad altri professionisti, di un piano territoriale, di un regolamento e di piani particolareggiati di zone C altomontane, la Corte d’Appello di Catania, con sentenza n. 1205/2015, accogliendo il secondo motivo di gravame proposto dalla B., ha compensato le spese del giudizio davanti al Tribunale di Catania sez. dist. Belpasso (spese che il primo giudice aveva posto a carico della stessa per la metà); ha confermato invece la sentenza di impugnata sull’ammontare del compenso spettante alla professionista, quantificato nella minor somma di Euro 17.434,69 oltre interessi bancari dal 21.3.2002.
Per giungere a tale conclusione la Corte etnea ha osservato:
– che la clausola contenuta nell’art. 7 del Disciplinare di incarico del 20.10.1997 (l’unico sottoscritto dalla B.) non lasciava dubbi sull’intenzione dei contraenti in relazione al corrispettivo dovuto ai professionisti;
– che era fondato il secondo motivo perché non si giustificava la condanna della B. al pagamento della metà delle spese del giudizio di primo grado conclusosi comunque con il riconoscimento di una ragione di credito non modesta;
2 Contro tale sentenza la B. propone ricorso per cassazione con quattro motivi contrastati con controricorso dall’Ente Parco.
In prossimità dell’adunanza camerale il controcorrente ha depositato una memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1 Col primo motivo la ricorrente denunzia violazione e/o errata applicazione della L. n. 404 del 1977, art. 6, nonché dell’art. 36 della Carta Costituzionale per avere la Corte d’Appello omesso di considerare l’onorario come unico, da dividere tra i soggetti che concretamente avevano svolto il lavoro.
Il motivo è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi della Corte d’Appello, fondata sul dato decisivo della inapplicabilità alla fattispecie delle condizioni di cui al disciplinare del 1992, avendo la ricorrente sottoscritto invece un diverso disciplinare nel 1997, contenente specifiche condizioni in ordine alla determinazione del compenso.
Del resto anche il giudice di primo grado aveva affermato che la L. n. 404 del 1977, art. 6, comma 2, si limita a fissare un tetto massimo di spesa “ma non incide in alcun modo sulla debenza di somme non dovute in base al contratto del 1997” (cfr. ricorso pag. 12).
2 Col secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., rimproverando alla Corte territoriale di avere fatto cattivo uso delle regole di ermeneutica, essendosi arrestata, nell’esaminare il disciplinare del 1997, al tenore letterale senza estendere l’indagine alla comune intenzione dei contraenti, che invece deponeva per un richiamo al disciplinare del 1992 anche in ordine alla determinazione degli onorari.
Il motivo è infondato.
Secondo il costante indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (tra le varie, Sez. 1 -, Ordinanza n. 16987 del 27/06/2018 (Rv. 649677 in motivazione; v. Sez. 3 -, Sentenza n. 28319 del 28/11/2017 Rv. 646649; Sez. L, Sentenza n. 25728 del 15/11/2013 Rv. 628585; Sez. 3, Sentenza n. 15798 del 28/07/2005 Rv. 584351).
Nel caso in esame la ricorrente, che – è bene chiarirlo – è subentrata nel 1997 insieme ad altro professionista (dopo la morte di due dei sei tecnici originariamente incaricati dall’Ente con Delib. n. 26 del 1991 e disciplinare 6.3.1992), si limita a contrapporre una propria interpretazione difforme da quella prescelta dalla Corte territoriale e che si rivela del tutto plausibile, avendo la Corte di merito valorizzato – per risalire alla comune volontà delle parti – non solo il dato letterale dell’art. 7 del Disciplinare d’incarico del 20.1.1997 sugli onorari a cui aveva diritto la B. (“le competenze tecniche sopracitate sono onnicomprensive e vengono considerate remunerative a tutti gli effetti e non sono suscettibili di modifica per alcuna ragione e pertanto i progettisti dichiarano di accettarle e si impegnano a nulla pretendere oltre tale somma”) ma anche il comportamento successivo delle parti, come la missiva del 12.11.2003 a firma della B., contenente VI un invito al Presidente dell’Ente a valutare la possibilità di ripartire il compenso tra tutti i professionisti superstiti. E tale missiva, secondo l’apprezzamento della Corte di merito, dimostrava proprio la consapevolezza della B. circa l’importo concordato col disciplinare da essa sottoscritto e la necessità di una modifica.
La Corte d’Appello si è altresì confrontata con la formula utilizzata nella clausola dell’art. 7 del disciplinare laddove si conveniva con la B. che il conferimento dell’incarico avvenisse “alle condizioni tutte” del precedente disciplinare stipulato il 6.3.1992 ed è pervenuta alla conclusione, anch’essa del tutto plausibile” che l’espressione “condizioni tutte” fosse riferita alla progettazione prevista nel disciplinare del 1992 (cfr. pagg. 4 e 5 sentenza impugnata).
3 Col terzo motivo la ricorrente denunzia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio perché la Corte d’Appello, trincerandosi dietro il mero dato letterale dei due disciplinari, (1992 e 1997) non ha preso in esame i fatti allegati in relazione ai criteri di determinazione degli onorari.
Il motivo è inammissibile.
Come chiarito dalla giurisprudenza delle sezioni unite l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629831) Nel caso in esame, il ricorso, contravvenendo all’onere di specificità, non chiarisce in quale parte dell’atto di appello la questione sia stata sollevata (non bastando certamente il generico riferimento all’atto di impugnazione contenuto a pag. 25 del ricorso).
In ogni caso – e il rilievo tronca ogni ulteriore discussione sull’argomento – l’esame dei criteri di determinazione degli onorari secondo il disciplinare del 1997 non era un fatto decisivo, posto che, come si è già detto, la Corte d’Appello ha fondato la sua decisione sulla irrilevanza delle condizioni di pagamento concordate in un disciplinare redatto anni prima (nel 1992), riguardante altri professionisti e non richiamato (quanto alla determinazione dei compensi) nel secondo disciplinare che invece conteneva una clausola ad hoc.
4 Col quarto ed ultimo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., dolendosi della compensazione delle spese di primo grado, pur essendo risultata soccombente la parte convenuta.
Il motivo è infondato.
La nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale delle spese processuali, sottende – anche in relazione al principio di causalità – una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate, che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri, ovvero una parzialità dell’accoglimento anche meramente quantitativa, riguardante una domanda articolata in unico capo. (Sez. -, Ordinanza n. 10113 del 24/04/2018 Rv. 648893; Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 21684 del 23/09/2013 Rv. 627822).
Nel caso in esame la Corte d’Appello ha desunto la soccombenza reciproca dal riconoscimento di una ragione di credito parziale (v. pag. 5) e quindi ha ravvisato l’ultima delle ipotesi passate in rassegna dalla citata giurisprudenza. La decisione si sottrae quindi alla censura.
In conclusione, il rigetto del ricorso è inevitabile, con addebito di spese alla parte soccombente che – sussistendone le condizioni di legge – è tenuta anche al versamento dell’ulteriore contributo unificato, se dovuto.
PQM
la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in complessivi Euro 5.500,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge nella misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 6 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2021