LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. ABETE Luigi – Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24189/2019 proposto da:
M.A., rappresentato e difeso dall’avvocato ENRICO VILLANOVA, giusta procura in cale al ricorso;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO;
– intimato –
avverso il decreto n. cronol. 5538/2019 del TRIBUNALE VENEZIA, depositato il 03/07/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 03/11/2020 dal Consigliere CHIARA BESSO MARCHEIS.
PREMESSO Che:
1. M.A., cittadino del Senegal, adiva il Tribunale di Venezia, sezione specializzata in materia di immigrazione, in seguito al rigetto da parte della Commissione territoriale di Verona, sezione di Treviso, della sua domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e di forme complementari di protezione, chiedendo di accogliere la domanda di protezione c.d. sussidiaria o, in subordine, di permesso per motivi umanitari. A sostegno della domanda, aveva dichiarato di avere lasciato il proprio paese perché accusato dai genitori della fidanzata di essere il responsabile della sua morte (la fidanzata era deceduta mentre partoriva il figlio concepito con il ricorrente; la famiglia era stata contraria al fidanzamento a causa della diversa religione dei fidanzati, essendo lui musulmano e lei cristiana).
Il Tribunale di Venezia, con decreto 3 luglio 2019, n. 5538, ha rigettato il ricorso.
2. Avverso la decisione del Tribunale di Venezia M.A. propone ricorso per cassazione.
L’intimato Ministero dell’interno non ha svolto difese.
CONSIDERATO
Che:
I. Preliminarmente (pp. 4-32 del ricorso), il ricorrente pone quattro questioni di legittimità costituzionale.
1. Le prime due, che concernono la legittimità costituzionale del D.L. n. 113 del 2018, “nell’ipotesi in cui il collegio dovesse ritenere applicabile” il D.L. ai procedimenti in corso, sono inammissibili in quanto prive di rilevanza nel presente giudizio, non trovando applicazione alla fattispecie in esame il D.L. n. 113 del 2018. Questa Corte ha infatti precisato che “il diritto alla protezione umanitaria, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta ad ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge” (Cass., sez. un., n. 29459/2019).
2. Il ricorrente afferma poi l’incostituzionalità del D.L. n. 13 del 2017, per l’assenza dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza, violazione dell’art. 77 Cost., e per l’eliminazione del grado di appello e per la trattazione con il rito camerale senza l’udienza pubblica, violazione degli artt. 24 e 111 Cost.. Le due questioni sono state ritenute manifestamente infondate da questa Corte (v. Cass. 17717/2018), con orientamento che il Collegio condivide.
II. Il ricorso è articolato in due motivi:
a) il primo contesta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, per avere il Tribunale di Venezia omesso di valutare il rischio di esposizione ad azioni di violenza in capo al ricorrente a causa della sua omosessualità;
b) il secondo motivo contesta, per violazione delle disposizioni sopra riportate, che non sia stata concessa la protezione umanitaria nonostante il ricorrente fosse stato obbligato, a causa del conflitto civile scoppiato in Libia, ad abbandonare il medesimo paese, pur avendo un regolare lavoro.
I due motivi sono inammissibili in quanto attengono a fatti nuovi non oggetto di esame da parte del Tribunale. In relazione al primo motivo, da quanto emerge dal provvedimento impugnato (v. p. 3) e dallo stesso ricorso (v. p. 2) il ricorrente aveva dichiarato di avere lasciato il Senegal in quanto accusato dai genitori della fidanzata di essere il responsabile della sua morte, mancando riferimenti alla sua omosessualità. In relazione al secondo motivo, il Tribunale ha esaminato il profilo delle violenze subite in Libia (v. p. 5 del provvedimento impugnato, e v. p. 2 del ricorso), mentre il motivo è imperniato sul mancato esame delle circostanze dello svolgimento di un regolare rapporto di lavoro nel medesimo paese (v. p. 40 del ricorso) e sulla necessità di abbandonarlo a causa dell’esplosione del conflitto civile (v. p. 38 del ricorso).
III. Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile.
Nessuna statuizione deve essere adottata sulle spese, non avendo il Ministero intimato svolto attività difensiva in questa sede.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
PQM
La Corte dichiara il ricorso inammissibile.
Sussistono, del D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale della Sezione Seconda Civile, il 3 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2021