LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 8685/2019 proposto da:
S.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OVIDIO 26, presso lo studio dell’Avvocato ROBERTO MANCINI, rappresentato e difeso dall’Avvocato SALVATORE INSINNA;
– ricorrente –
contro
ALLIANZ SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO, 17/A, presso lo studio dell’Avvocato MICHELE CLEMENTE, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
e contro
F.S.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 2445/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 04/09/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30/03/2021 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NARDECCHIA Giovanni Battista.
FATTI DI CAUSA
1. S.P. ricorre, sulla base di sette motivi, per la cassazione della sentenza n. 2445/18, del 4 settembre 2018, della Corte di Appello di Venezia, che – accogliendo parzialmente il gravame dalla stessa esperito, in punto “quantum debeatur”, avverso la sentenza n. 181/15, del 18 agosto 2015, del Tribunale di Vicenza – ha liquidato in ulteriori Euro 33.088,44 (in aggiunta alla somma di Euro 136.314,00, più interessi, già liquidata dal giudice di prime cure) l’importo dovuto all’odierna ricorrente dalla società Allianz S.p.a. e da F.S., a titolo di risarcimento dei danni dalla stessa subiti a seguito del sinistro di cui rimase vittima il *****, allorché viaggiava, come terza trasportata, sul veicolo di proprietà e condotto dal F., assicurata per la “RCA” dalla società Allianz.
2. In punto di fatto, la ricorrente riferisce di aver adito il Tribunale di Bassano del Grappa (poi divenuto Tribunale di Vicenza, ai sensi del D.Lgs. 7 settembre 2012, n. 155), per conseguire dal F. o dalla società Allianz il risarcimento integrale dei danni subiti in conseguenza dell’incidente stradale suddetto, avendo accettato la somma complessiva di Euro 95.000,00, corrispostale in due “tranche” dalla compagnia assicurativa, solo a titolo di acconto sul maggior importo dovutole, al quale ella assumeva di avere diritto.
Corrisposto dalla società Allianz, dopo la notifica della citazione, l’ulteriore importo di Euro 81.000,00, il giudice di prime cure – istruita la causa a mezzo di CTU medico-legale, essendo state invece ignorate le richieste di prova per interpello e testi, nonché di svolgimento anche di CTU contabile – accoglieva la domanda, limitando però il risarcimento nella misura già sopra indicata (Euro 136.314,00, oltre interessi), detratti gli acconti già corrisposti per Euro 176.000,00 e compensando integralmente tra le parti le spese del grado.
Esperito gravame dalla medesima attrice, il giudice di appello lo accoglieva, sebbene limitatamente alla richiesta di risarcimento del danno da lucro cessante, liquidato, tuttavia, con riferimento alla mancata percezione delle retribuzioni perse, o di quelle maggiori alle quali la S. avrebbe avuto diritto, dalla data del licenziamento dalla società per la quale aveva lavorato ventisei anni come commessa (24 ottobre 2008) fino all’anno 2013, epoca alla quale risale la cessazione del rapporto di lavoro “part time” stabilito con altra società, dopo circa due anni di disoccupazione. Il secondo giudice accoglieva anche il motivo di gravame relativo alla disposta compensazione delle spese di lite, liquidando quelle di entrambi i gradi di giudizio – per quanto qui di interesse – assumendo come valore della controversia l’importo del residuo danno da esso liquidato (ovvero, Euro 33.088,44).
3. Avverso la sentenza della Corte lagunare ricorre per cassazione la S., sulla base – come detto – di sette motivi.
3.1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), oltre che per difetto di motivazione ex art. 111 Cost. – “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, risultante dagli atti di causa, in relazione all’omessa valutazione di elementi di fatto indicati dal CTU in primo grado”, omissione “che ha comportato l’errata quantificazione del danno da inabilità temporanea con riferimento ai postumi fino ad allora accertabili e presumibili”.
Si censura la sentenza impugnata in quanto la stessa, nel valutare il danno da inabilità temporanea, avrebbe omesso di considerare che il consulente tecnico d’ufficio, “come puntualmente eccepito nell’atto di citazione in appello”, aveva individuato “un periodo di malattia indicativamente di giorni 30-60” per il successivo intervento chirurgico al quale la S. si sottopose nel dicembre 2015, ciò che ha comportato “la mancata liquidazione, del tutto ingiustificata, di parte del danno biologico patito” proprio a seguito di tale secondo intervento, e con essa la mancata condanna dei convenuti “al pagamento di una somma compresa tra Euro 3.600 e Euro 7.200,00, volendo mantenere come parametro di riferimento Euro 120,00 al giorno” (parametro, peraltro, contestato dalla ricorrente, come si dirà).
3.2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4) e 5), oltre che per difetto di motivazione ex art. 111 Cost. – “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, risultante dagli atti di causa, in relazione all’omessa ammissione di CTU in secondo grado con riferimento alla ritenuta errata quantificazione del danno non patrimoniale (incluso il danno biologico)”, e ciò in considerazione del “peggioramento delle condizioni psicofisiche di essa S. “a seguito del secondo intervento chirurgico cui è stata sottoposta”, nonché “con riguardo all’omessa e/o parziale personalizzazione del danno, oltre all’omessa quantificazione del danno morale e esistenziale”.
Il motivo si articola in più censure, la prima delle quali contesta il silenzio serbato dalla Corte territoriale in merito all’istanza di rinnovazione di CTU medico-legale per determinare “le lesioni patite e le spese sostenute” (le une e le altre comunque attestate, assume la ricorrente, dalla relazione del consulente tecnico di parte) a seguito dell’effettiva esecuzione del già programmato secondo intervento chirurgico, adempimento che sarebbe stato necessario espletare per accertare “sia il danno permanente che l’effettiva inabilità temporanea” lamentata dall’allora appellante. Quanto, in particolare, al danno da invalidità permanente, la ricorrente evidenzia come la misura dello stesso andasse rideterminata nel 30% (a fronte del 20% indicato nella sentenza impugnata), e ciò proprio alla luce “di un fatto sopravvenuto” – il secondo intervento chirurgico – che, di contro, “avrebbe dovuto lenire le lesioni e le sofferenze” della vittima del sinistro.
Peraltro, sempre con riferimento al danno da invalidità permanente, si assume essere “modesto ed iniquo” l’aumento “del solo 30% per la cd. “personalizzazione”” applicato da primo giudice (e confermato dal secondo).
Infine, si contesta la sentenza impugnata per aver “omesso, ovvero contenuto eccessivamente, la quantificazione del danno morale ed esistenziale”, senza “alcuna valida e plausibile giustificazione”. In particolare, quanto a quest’ultima doglianza, si evidenzia come la sentenza impugnata sia “censurabile” nella parte in cui “ha liquidato il danno non patrimoniale comprensivo sia del danno biologico che del danno morale, facendo applicazione asettica dei criteri elaborati dal Tribunale di Milano e schematicamente riassunti nelle tabelle di riferimento”, assumendo che la giurisprudenza di questa Corte avrebbe definito “incongruo” il ricorso alla “mera valutazione tabellare per la quantificazione del danno”, in particolare reputando non sufficiente “appesantire” il cd. “punto base”. Si reputa, poi, viziata la sentenza impugnata “anche nella parte in cui ritiene che il danno non patrimoniale sia comprensivo del danno biologico, oltre che del danno morale”, mentre “omette una compiuta considerazione in merito al danno esistenziale”, da intendersi come “proiezione esterna dell’essere”, in contrapposizione alla “interiorizzazione intimistica della sofferenza” in cui si identifica il danno morale. Invero, in applicazione del principio della necessità dell’integrale risarcimento del danno sofferto dalla persona, sia “il danno esistenziale” – qui costituito dalla rinuncia forzosa alle attività di svago alle quali la S. era solita dedicarsi, come l’alpinismo (praticato ad alto livello, anche con scalate oltre i 6.000 metri), l’allenamento in montagna, le attività di trekking, arrampicata e sci alpinismo (con cadenza almeno settimanale), la corsa, i massaggi shiatsu, i lunghi viaggi avventura – che “il danno morale” avrebbero meritato, secondo la ricorrente, “una valutazione autonoma rispetto al danno biologico”.
3.3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), oltre che per difetto di motivazione ex art. 111 Cost. – “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, risultante dagli atti di causa, in relazione al parziale riconoscimento del danno patrimoniale in ordine al cd. danno emergente”.
Si censura l’avvenuta “liquidazione forfettaria per “spese mediche, trasporti ed altro” nella somma complessiva di Euro 20.000,00", laddove, invece, “il danno emergente comprovato documentalmente” ammonterebbe, secondo la ricorrente, “a Euro 47.999,35”.
3.4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), oltre che per difetto di motivazione ex art. 111 Cost. – “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, risultante dagli atti di causa, in relazione al parziale riconoscimento del danno patrimoniale in ordine al cd. lucro cessante a causa di errata valutazione della C.T.P. e/o all’omessa quantificazione del danno da perdita di chances lavorative”.
Si censura la sentenza impugnata perché, sebbene essa – in punto di danno da lucro cessante – abbia parzialmente accolto il gravame proposto dall’allora appellante S., ha limitato il ristoro alle “retribuzioni perse, o maggiori retribuzioni che avrebbe percepito, continuando a lavorare presso la Campagnolo Commercio” (vale a dire, la società ove ella aveva svolto, per ventisei anni, l’attività di commessa), ma ciò solo sino all’anno 2013, pervenendo a tale conclusione sulla scorta “di tre diverse motivazioni”, tutte specificamente censurate, rispettivamente, con il presente motivo di ricorso, nonché con i motivi quinto e sesto.
In particolare, il presente motivo si appunta sulla valutazione della documentazione che la Corte territoriale ha utilizzato per pervenire a tale conclusione, valutazione che la ricorrente reputa errata anche in relazione alla quantificazione, visto che il danno da lucro cessante, a dire della ricorrente, ammonterebbe “a non meno di Euro 469.912,38”.
Inoltre, si contesta l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui la perizia di parte, prodotta da essa S., non avrebbe “considerato il rapporto di lavoro reperito dalla predetta nel 2010”, giacché il tecnico di parte, invece, ne avrebbe tenuto conto.
3.5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4) e 5), oltre che per difetto di motivazione ex art. 111 Cost. – “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, risultante dagli atti di causa, in relazione all’omessa ammissione di CTU per la valutazione della congruità del danno patrimoniale in ordine al cd. lucro cessante”.
Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha negato valore probatorio alla già citata perizia di parte, senza però motivare le ragioni per cui non ha ritenuto di dare corso alla CTU contabile, limitandosi ad affermare di poter dare rilievo unicamente ai “documenti fiscali (mod. CUD), dotati di sufficiente obiettività e comprovanti la situazione reddituale e lavorativa della S. nel periodo successivo all’evento lesivo fino al 2013”. L’affermazione merita censura, secondo la ricorrente, perché i documenti in questione “comprovano solo i redditi lordi”, ma non pure “tutte le altri componenti che spettano al lavoratore in costanza di rapporto”, quali, in particolare, il TFR ed i contributi previdenziali e assistenziali, ovvero quelli indicati nella perizia di parte e la cui congruità ben avrebbe potuto “essere verificata a mezzo della invocata CTU”.
3.6. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), oltre che per difetto di motivazione ex art. 111 Cost. – “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, risultante dagli atti di causa, in relazione all’illogicità/errata presunzione della asserita irreperibilità di altra occupazione” da parte della ricorrente “dopo l’anno 2013”, e ciò “per problemi connessi al mercato del lavoro”, il tutto in relazione al solo “parziale riconoscimento del danno patrimoniale in ordine al lucro cessante”.
Si contesta la scelta di limitare la liquidazione del lucro cessante fino all’anno 2013, essendo stato ritenuto verosimile che sino a tale data la S., stante la sua pregressa anzianità di servizio, avrebbe potuto mantenere l’occupazione come commessa (incarico dal quale fu licenziata, invece, il 24 ottobre 2008, dopo ventisei anni di lavoro), mentre in relazione al periodo successivo non vi sarebbe prova di minori redditi percepiti in ragione dell’infortunio subito, ritenendo, anzi, la Corte territoriale che la mancata occupazione post 2013 sia da imputare a problemi connessi al mercato del lavoro. Conclusione alla quale la sentenza impugnata è pervenuta sul rilievo che il CTU, nel quantificare l’invalidità permanente nel 20%, ha affermato che la stessa “ha prodotto effetti solo sotto il profilo del biologico e non della capacità lavorativa specifica” della S., “sicché il mancato guadagno può essere collegato soltanto alle difficoltà incontrate dopo la perdita del lavoro nel trovare altra occupazione”, presentandosi, così, quale evenienza conseguente “esclusivamente a problemi connessi al mercato del lavoro”.
La ricorrente reputa tale motivazione “apodittica, illogica e priva di fondamento sia sotto il profilo probatorio che sotto quello presuntivo”.
Sebbene il CTU abbia escluso la sussistenza dell’invalidità lavorativa specifica, il medesimo ha, però, riconosciuto che la S. ha incontrato “un maggior aggravio nell’esercizio dell’attività”, tanto da sottolineare “la necessità di appesantimento del punto percentuale di invalidità”. Orbene, se a tale rilievo si aggiunge la constatazione che il consulente tecnico di parte, rivalutata la situazione dell’odierna ricorrente dopo nove anni dal sinistro, ha riconosciuto una menomazione specifica della capacità lavorativa della stessa nella misura del 30%, se ne dovrebbe dedurre che l’esclusione della S. da nuove opportunità lavorative, anche dopo il 2013, sia stata conseguenza della preferenza mostrata dai potenziali datori di lavoro verso dipendenti che non avessero “evidenti menomazioni fisiche, che si palesino ai clienti” (la ricorrente, dopo il sinistro, risulta affetta da zoppia), “o che possano comportare assenze dal lavoro per necessità e/o affaticamenti fisici”.
Ne consegue, pertanto, che l’invalidità subita dall’odierna ricorrente avrebbe dovuto essere apprezzata almeno con riferimento alla sua incidenza sulla capacità lavorativa generica, sotto forma di perdita di chance lavorative, ivi compresa la possibilità di un avanzamento in carriera presso la società ove era stata occupata per ventisei anni.
3.7. Infine, con il settimo motivo la ricorrente denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – “violazione del D.M. n. 55 del 2014, in relazione all’individuazione del valore della controversia e la conseguente commisurazione delle spese legali di entrambi i gradi di giudizio, con errata liquidazione delle spese forfettarie e delle anticipazioni (spese non imponibili)”.
Il motivo si articola in due censure.
La prima investe la decisione della Corte territoriale di liquidare – riformando, sul punto, in accoglimento di uno specifico motivo di gravame, la compensazione delle spese di lite disposta in primo grado – le spese dei due gradi di giudizio con riferimento al danno residuo liquidato in appello (Euro 33.084,44), senza tenere conto di quanto complessivamente e spontaneamente versato dalla società Allianz, e dunque di quanto dalla stessa riconosciuto come dovuto. In questo modo, sarebbe stato disatteso il principio enunciato da questa Corte e secondo cui, se la liquidazione delle spese di lite, di regola, deve avvenire – in caso di accoglimento solo in parte della domanda, ovvero di parziale accoglimento dell’impugnazione – sulla base del contenuto effettivo della decisione (criterio del “decisum”), resta nondimeno salva l’ipotesi in cui “la riduzione della somma o del bene attribuito” consegua “ad un adempimento intervenuto, nel corso del processo, ad opera della parte debitrice, convenuta in giudizio, nel quale caso il giudice, richiestone dalla parte interessata terrà conto non di meno del “disputatum”” (e’ citata Cass. Sez. Un., sent. 11 settembre 2007, n. 19014).
L’altra censura, che presenta carattere autonomo, investe la determinazione degli esborsi e delle spese forfettarie, che si assume errata.
Difatti, liquidate – rispettivamente, per il giudizio innanzi al Tribunale e alla Corte di Appello – le somme complessive di Euro 8.464,10 e di Euro 10.136,25 (di cui, per compensi, Euro 7.254,00 ed Euro 6.615,00, per ciascuno dei due gradi di giudizio), le somme dovute alla parte vittoriosa, tanto per esborsi effettivi che per spese forfettarie, risultano, per ognuna delle fasi di giudizio, pari alla differenza tra tali importi, ovvero Euro 1.210,10 ed Euro 3.521,25. Orbene, tenuto conto che le spese forfettarie, in difetto di diversa e minore specificazione operata dal giudice, sono pari al 15% del compenso, del D.M. n. 55 del 2014, ex art. 2 (e quindi, nella specie, pari ad Euro 1.088,10 e ad Euro 992,25, per ciascun grado di giudizio), se ne deve trarre la conseguenza che le somme sopra indicate – Euro 1.210,10 ed Euro 3.521,25 – dovrebbero includere anche gli esborsi effettivi, i quali, tuttavia, sarebbero stati documentati, assume l’odierna ricorrente, in misure tali (Euro 1.229,00 per il primo grado, ed Euro 2.556,00 per quello di appello) da non potere essere ricompresi in tali importi.
Di qui, dunque, la necessità della loro rideterminazione.
4. La società Allianz ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, il rigetto.
L’inammissibilità del ricorso è prospettata sotto vari profili.
Innanzitutto, si deduce che lo stesso non rispetta il canone della chiarezza e della sinteticità espositiva, contravvenendo anche a quanto stabilito nel protocollo d’intesa sottoscritto da questa Corte e dal Consiglio Nazionale Forense. Il ricorso, inoltre, non rispetterebbe neppure la previsione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), non presentando i motivi proposti i necessari caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, neppure confrontandosi adeguatamente con le argomentazioni formulate dalla Corte territoriale. Infine, gli stessi tenderebbero ad una non consentita rivalutazione del materiale istruttorio, senza tacere del fatto che, applicandosi al presente giudizio l’art. 348-ter c.p.c., ai sensi dell’ultimo comma di tale articolo, ed in presenza di una pronuncia “doppia conforme” di merito quale ricorrerebbe nel caso di specie, risulta preclusa la formulazione di motivi ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
In ogni caso, inammissibili o comunque non fondati sarebbero pure i singoli motivi di ricorso.
Quanto, in particolare, al primo di essi, se ne sottolinea la contraddittorietà con il secondo, giacché delle due l’una: o il CTU aveva già indicato il periodo di inabilità temporanea conseguente al secondo intervento chirurgico (ed i giudici di merito hanno, pertanto, omesso di prenderla in considerazione), oppure non lo ha fatto, come sembra ipotizzare il secondo motivo, che lamenta, difatti, il mancato svolgimento di una nuova consulenza tecnica d’ufficio sul punto. In realtà, il motivo ripropone la stessa censura già formulata in appello, ma che la S. avrebbe dovuto formulare, in quella sede, sotto forma di aggravamento dei danni sopravvenuto rispetto al primo grado, visto che la CTU è stata espletata nel 2014, la sentenza di primo grado è intervenuta nel giugno 2015, mentre solo nel dicembre di quello stesso anno l’allora appellante si sottopose al nuovo intervento chirurgico. In ogni caso, poi, trattandosi di riproposizione del motivo di appello, sul quale la Corte territoriale non si sarebbe pronunciata, l’odierna censura avrebbe dovuto essere formulata come violazione dell’art. 112 c.p.c..
In relazione, invece, al secondo motivo, fermo quanto già rilevato circa la contraddittorietà tra di esso e il motivo che lo precede, la controricorrente ne sottolinea il carattere “misto”, giacché esso riunirebbe, inammissibilmente, sotto un’unica rubrica, censure eterogenee. Le stesse, comunque, sarebbero non fondate, dal momento che la decisione di rinnovare la CTU costituisce apprezzamento discrezionale del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità. Quanto, poi, alla censura che attiene alla liquidazione del danno non patrimoniale, la controricorrente sottolinea come la sentenza impugnata si sia attenuta ai principi enunciati da questa Corte, “adottando come criterio di riferimento le Tabelle del Tribunale di Milano le quali contemplano già all’interno del punto una liquidazione media del danno biologico, di quello esistenziale e di quello morale”, operando, inoltre, una personalizzazione che ha tenuto conto della specificità del caso concreto.
Il terzo motivo non si confronterebbe con l’effettiva “ratio decidendi” della sentenza impugnata, secondo cui la liquidazione forfettaria del danno emergente, già disposta dal primo giudice, non sarebbe stata oggetto di appello.
In ordine, invece, ai motivi dal quarto al sesto, si evidenzia come la censura relativa alla (supposta) errata valutazione dei documenti in atti sia inammissibile, mentre non fondata sarebbe quella relativa alla manca pronuncia sull’istanza di svolgimento di CTU contabile, non solo perché la consulenza avrebbe avuto carattere esplorativo, ma soprattutto perché la Corte territoriale avrebbe motivato implicitamente le ragioni per le quali ha ritenuto di non dare corso all’incombente, laddove afferma che, al di là della voce di danno da lucro cessante che essa ha ritenuto di individuare (la perdita di retribuzione fino alla data del 2013, ovvero quella cui risale lo stato di definitiva inoccupazione della S.), “non sono stati allegati altri elementi comprovanti adeguatamente ulteriori danni”.
Infine, il settimo motivo sarebbe inammissibile o comunque non fondato, dovendo il giudice, nella liquidazione delle spese, fare riferimento al criterio del “disputatum” solo in caso di integrale accoglimento della domanda.
5. Il F. è rimasto solo intimato.
6. Fissata la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., la controricorrente ha depositato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
7. Il ricorso va rigettato.
7.1. Il primo motivo è inammissibile, per più ragioni.
7.1.1. Innanzitutto, come rileva la controricorrente, essendo stato formulato dalla S. uno specifico motivo di appello in ordine all’errata quantificazione del danno da inabilità temporanea (per mancata considerazione del secondo intervento chirurgico, alla quale la donna si sottopose nel dicembre 2015), l’omessa pronuncia su di esso avrebbe dovuto farsi valere, in questa sede, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), “sub specie” di violazione dell’art. 112 c.p.c. e non come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, “in quanto il motivo di gravame non costituisce un fatto principale o secondario, bensì la specifica domanda sottesa alla proposizione dell’appello, sicché, ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, in L. 7 agosto 2012, n. 134, il motivo deve essere dichiarato inammissibile” (Cass. Sez. 3, sent. 16 marzo 2017, n. 6835, Rv. 643679-01; in senso analogo anche Cass. Sez. 6-1, ord. 12 ottobre 2017, n. 23930, Rv. 646046-01).
D’altra parte, il medesimo esito s’impone anche a ritenere che l’omissione addebitata alla Corte territoriale investa il mancato recepimento delle risultanze della CTU (per avere la stessa attestato che il “programmato”, ma non ancora eseguito, secondo intervento chirurgico avrebbe comportato tra i trenta e sessanta giorni di inabilità temporanea).
A tale esito, per un verso, conduce il rilievo che, vertendosi quanto al “dictum” sulla liquidazione del danno non patrimoniale – in una ipotesi di “doppia conforme di merito”, la censura di “omesso esame” è inammissibile ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., u.c..
Al riguardo va, infatti, segnalato che l’appello – essendo stato esperito, “illo tempore”, dall’odierna ricorrente contro una decisione resa dal giudice di prime cure in data 18 agosto 2015 – risulta, per definizione, proposto con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione posteriormente all’11 settembre 2012, ciò che determina l’applicazione “ratione temporis” dell’art. 348-ter c.p.c., u.c. (cfr. Cass. Sez. 5, sent. 18 settembre 2014, n. 26860, Rv. 633817-01; in senso conforme, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 9 dicembre 2015, n. 24909, Rv. 638185-01, nonché Cass. Sez. 6-5, ord. 11 maggio 2018, n. 11439, Rv. 64807501).
All’esito dell’inammissibilità, infine, conduce anche un’altra ragione.
Premesso, invero, che, ai fini ed agli effetti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), “non può ricondursi, di per sé, alla nozione di “fatto storico” la “consulenza tecnica d’ufficio” in quanto tale”, giacché “il “fatto storico” di cui al menzionato articolo è accadimento fenomenico esterno alla dinamica propria del processo, ossia a quella sequela di atti ed attività disciplinate dal codice di rito che, dunque, viene a caratterizzare diversa natura e portata del “fatto processuale”, il quale segna il differente ambito del vizio deducibile, in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4", sicché “la c.t.u. costituisce l’elemento istruttorio”, o per meglio dire il dato processuale, “da cui è possibile trarre il “fatto storico”, rilevato e/o accertato dal consulente, il cui esame il giudice del merito abbia omesso e che la parte è tenuta ad indicare sufficientemente” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 24 giugno 2020, n. 12387, Rv. 658062-01), deve rilevarsi che è proprio tale “sufficiente indicazione” ciò che difetta nel caso che occupa, con conseguente inammissibilità del motivo pure ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).
Difatti, “la parte che si duole di carenze o lacune nella decisione del giudice di merito che abbia basato il proprio convincimento disattendendo le risultanze degli accertamenti tecnici eseguiti, non può limitarsi a censure apodittiche di erroneità o di inadeguatezza della motivazione od anche di omesso approfondimento di determinati temi di indagine, prendendo in considerazione emergenze istruttorie asseritamente suscettibili di diversa valutazione e traendone conclusioni difformi da quelle alle quali è pervenuto il giudice “a quo”, ma, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed il carattere limitato di tale mezzo di impugnazione, è per contro tenuta ad indicare, riportandole per esteso, le pertinenti parti della consulenza ritenute erroneamente disattese, ed a svolgere concrete e puntuali critiche alla contestata valutazione, condizione di ammissibilità del motivo” (Cass. Sez. 1, ord. 3 dicembre 2020, n. 27702, Rv. 659930-01).
Nel caso che occupa, è proprio tale onere di “indicazione delle pertinenti parti della consulenza” che si assumono disattese, da compiersi attraverso la loro riproduzione “per esteso”, ciò che non risulta avvenuto, se è vero che a pag. 24 del ricorso il solo “stralcio” della CTU ad essere riportato (come attesta l’uso delle virgolette) è quello che fa riferimento ad un “periodo di malattia indicativamente di 30-60 giorni”, senza alcuna migliore specificazione, mentre la correlazione di tale affermazione con il “successivo intervento chirurgico” appare frutto di aggiunta operata dal ricorso.
7.2. Il secondo motivo, invece, è in parte inammissibile e in parte non fondato.
7.2.1. Nel suo scrutinio, tuttavia, deve essere disattesa, in via preliminare, l’eccezione di inammissibilità, formulata dalla controricorrente, in relazione al suo carattere “misto”.
Sul punto va, invero, ribadito che “il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sé, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati” (così Cass. Sez. Un., sent. 6 maggio 2015, n. 9100, Rv. 635452-01; in senso sostanzialmente analogo, sebbene “a contrario”, si veda anche Cass. Sez. 3, ord. 17 marzo 2017, n. 7009, Rv. 643681-01).
7.2.2. Ciò detto, il secondo motivo è comunque da rigettare in ogni sua singola doglianza.
7.2.2.1. Difatti, quella che attiene al carattere “modesto ed iniquo” della personalizzazione si risolve in una censura di merito, come tale inammissibile in questa sede.
Quanto, invece, alla richiesta di dare corso ad un’ulteriore CTU medico-legale, deve ribadirsi che, “in tema di consulenza tecnica d’ufficio, il giudice di merito non è tenuto, anche a fronte di una esplicita richiesta di parte, a disporre una nuova ctu, atteso che il rinnovo dell’indagine tecnica rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito, sicché non è neppure necessaria una espressa pronunzia sul punto” (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 29 settembre 2017, n. 22799, Rv. 645507-01), sicché “l’eventuale provvedimento negativo non può essere censurato in sede di legittimità deducendo la carenza di motivazione espressa al riguardo, quando dal complesso delle ragioni svolte in sentenza, in base ad elementi di convincimento tratti dalle risultanze probatorie già acquisite e valutate con un giudizio immune da vizi logici e giuridici, risulti l’irrilevanza o la superfluità dell’indagine richiesta, non sussistendo la necessità, ai fini della completezza della motivazione, che il giudice dia conto delle contrarie motivazioni dei consulenti di fiducia che, anche se non espressamente confutate, si hanno per disattese perché incompatibili con le argomentazioni poste a base della motivazione” (da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 20 agosto 2019, n. 21525, Rv. 645507-01; nello stesso senso anche Cass. Sez. 3, sent. 15 luglio 2011, n. 15666, Rv. 619230-01).
7.2.2.2. Infine, non fondata è la censura con cui la ricorrente lamenta che “il danno esistenziale e il danno morale” avrebbero meritato “una valutazione autonoma rispetto al danno biologico”.
Sul punto, occorre muovere dalla constatazione che la sentenza impugnata dà atto della circostanza che la liquidazione del danno non patrimoniale subito dalla S. è stata effettuata in applicazione delle cd. “tabelle milanesi” (profilo in relazione alla quale non vi è censurai e dunque non suscettibile di sindacato in questa sede), le quali – come testualmente si legge nella decisione della Corte territoriale – “permettono una liquidazione congiunta del c.d. danno biologico, inteso come lesione permanente all’integrità psicofisica della persona, e degli altri profili di danno non patrimoniale, inteso come pregiudizio conseguente ai risvolti anatomo-funzionali e relazionali medi”, consentendo, altresì, “una personalizzazione della liquidazione per particolari condizioni soggettive” dell’interessato (qui costituite dalla rinuncia forzosa ad una serie di attività sportive/ricreative alle quali la S. era dedita prima del sinistro). Pertanto, in applicazione delle suddette tabelle, il giudice di prime cure – osserva sempre la sentenza impugnata – “al valore medio del danno riferito alla percentuale di invalidità riportata e all’età della danneggiata” ha, poi, “apportato un incremento per la personalizzazione del 30%, molto vicino al massimo contemplato nelle tabelle (39%)”, operando, così, una liquidazione “già ampiamente satisfattiva dei vari profili di danno lamentati dall’appellante” (ovvero quelli già illustrati), che, dunque, “il primo giudice mostra di aver considerato”.
7.2.2.2.1. Tanto premesso, l’odierna doglianza della ricorrente circa l’omessa considerazione del danno cd. “esistenziale”, da intendersi come “proiezione esterna dell’essere” (per riprendere le sue esatte parole), risulta non fondata, alla luce della giurisprudenza di questa Corte.
Difatti, essa ha ancora di recente precisato come in presenza di un danno permanente alla salute, “costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l’attribuzione di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale)’; e ciò in quanto, “in presenza di un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari”, giacché “la perduta possibilità di continuare a svolgere una qualsiasi attività, in conseguenza d’una lesione della salute, o costituisce una conseguenza “normale” del danno (cioè indefettibile per tutti i soggetti che abbiano patito una menomazione identica), ed allora sarà compensata con la liquidazione del danno biologico; ovvero è una conseguenza peculiare, ed allora dovrà essere risarcita, adeguatamente aumentando la stima del danno biologico (c.d. “personalizzazione”)” (così, da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 11 novembre 2019, n. 28988, Rv. 655964-01).
Orbene, proprio la seconda di tali evenienze è quella che la Corte lagunare – o meglio, prima di essa, il Tribunale vicentino – ha ravvisato nel caso di specie, ritenendo che la rinuncia forzosa della S. alle attività sportivo/ricreative, analiticamente descritte nel presente ricorso, costituisse conseguenza “peculiare” del danno anatomico/funzionale dalla stessa subito (con valutazione che la società Allianz non ha contestato in nessuna sede processuale e, dunque, non sindacabile da parte di questa Corte), dando rilievo ad essa, sul piano risarcitorio, per l’appunto con la “personalizzazione”. Sotto questo profilo, dunque, nessun “vuoto risarcitorio” può essere lamentato dall’odierna ricorrente, essendosi i giudici di merito attenuti ai criteri indicati dalla giurisprudenza di legittimità per dare rilievo a quelle circostanze peculiari che, nella prospettiva della ricorrente, integrano quello da lei definito come “danno esistenziale”, ma che altro non sono – si ribadisce – se non quelle conseguenze “peculiari” per la vittima alle quali è stato attribuito rilievo, sul piano risarcitorio, attraverso la personalizzazione.
7.2.2.2.2. D’altra parte, non fondata è anche la doglianza relativa al mancato autonomo riconoscimento del cd. “danno morale”, ovvero quello che la ricorrente – questa volta anche con esatta terminologia – identifica nella “interiorizzazione intimistica della sofferenza”.
Sul punto, deve muoversi dalla premessa – assunta correttamente anche dalla ricorrente come presupposto del proprio ragionamento – che “la voce di danno morale mantiene la sua autonomia e non è conglobabile nel danno biologico, trattandosi di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, e perciò meritevole di un compenso aggiuntivo al di là della personalizzazione prevista per gli aspetti dinamici compromessi” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 21 novembre 2020, n. 21564, non massimata; nello stesso senso, tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 17 gennaio 2018, n. 901, Rv. 647125-03; Cass. Sez. 3, ord. 27 marzo 2018, n. 7513, Rv. 648303-01; Cass. Sez. 3, ord. 28 settembre 2018, n. 23469, Rv. 650858-02).
Ne consegue, allora, che il giudice di merito, quando procede alla liquidazione del danno alla salute – facendo applicazione, come nella fattispecie che occupa, delle “tabelle milanesi” – “dovrà: 1) accertare l’esistenza, nel singolo caso di specie, di un eventuale concorso del danno dinamico-relazionale e del danno morale; 2) in caso di positivo accertamento dell’esistenza (anche) di quest’ultimo, determinare il quantum risarcitorio applicando integralmente le tabelle di Milano, che prevedono la liquidazione di entrambe le voci di danno” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 21564 del 2020, cit., che ha cassato la sentenza allora impugnata in quanto, pur “riconosciuta la risarcibilità autonoma del danno morale, non ha considerato che tale voce di danno era già ricompresa nel valore monetario complessivamente indicato nella tabella applicata”, operando, così, una duplicazione della stessa voce di danno, avendo liquidato per quello “morale” un importo aggiuntivo rispetto a quello risultante dalle tabelle).
Nel caso che occupa, la sentenza impugnata dà atto della circostanza che le tabelle applicate, quelle milanesi appunto, “contemplano già, all’interno del punto, una liquidazione media” non del solo danno cd. “biologico”, ma anche “di quello morale”, sicché la pretesa della ricorrente che esso formasse oggetto di autonoma considerazione sul piano della liquidazione del “quantum debeatur” risulta non fondata alla luce dei principi sopra richiamati.
7.3. Il terzo motivo è inammissibile.
7.3.1. Esso, per vero, nel censurare la quantificazione del danno patrimoniale “emergente” (e segnatamente l’avvenuta “liquidazione forfettaria per “spese mediche, trasporti ed altro” nella somma complessiva di Euro 20.000,00"), assume che “il danno emergente comprovato documentalmente” ammonterebbe, invece, “a Euro 47.999,35”.
La doglianza, dunque, benché proposta come “omesso esame di fatto decisivo per il giudizio” si risolve in una censura di errata valutazione delle risultanze documentali in atti, sicché deve farsi applicazione del principio secondo cui l’eventuale “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4) – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01; Cass. Sez. 1, ord. 26 settembre 2018, n. 23153, Rv. 650931-01; Cass. Sez. 3, ord. 30 ottobre 2018, n. 27458, Cass. Sez. 6-2, ord. 18 marzo 2019, n. 7618).
Analogamente, del resto, anche le Sezioni Unite hanno di recente ribadito l’inammissibilità di quel tipo di censure “che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio” – quest’ultima essendo l’ipotesi rilevante nel caso che occupa – “miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito” (da ultimo, Cass. Sez. Un., sent. 27 dicembre 2019, n. 34476, Rv. 656492-03).
Inoltre non è censurata. La conclusione della natura forfetaria della liquidazione posta a base della reiezione del gravame sul punto.
7.4. I motivi quarto, quinto e sesto – suscettibili di trattazione congiunta, in quanto tutti relativi alla quantificazione del danno patrimoniale da “lucro cessante”, operata sulla base delle retribuzioni che la S. avrebbe potuto percepire, fino al 2013, presso la società di cui è stata commessa per ventisei anni, fino all’avvenuto licenziamento (il 24 ottobre 2008) – sono anch’essi da rigettare.
7.4.1. In particolare, il quarto motivo – che censura tale quantificazione perché basata “su errata valutazione di documentazione in atti” – è inammissibile sulla scorta delle stesse considerazioni svolte in relazione al terzo motivo di ricorso, ovvero l’impossibilità di ricondurre a qualsivoglia vizio di legittimità il cattivo apprezzamento di prove non legali.
7.4.2. In ordine, invece, al quinto motivo (che lamenta il mancato svolgimento della CTU contabile), l’infondatezza deriva delle stesse considerazioni illustrate nell’esaminare la seconda delle censure in cui si articola il secondo motivo di ricorso.
Va, dunque, anche qui ribadito come la motivazione circa il rigetto di un’istanza di ammissione di CTU possa essere anche implicita, evenienza che ricorre nel caso di specie, dal momento che la sentenza dà atto di come non siano “stati allegati altri elementi comprovanti adeguatamente ulteriori danni da lucro cessante” (oltre quello da essa liquidato), e ciò “anche per la perdita di chance pure dedotta dalla danneggiata”. Sul punto, dunque, va dato seguito al principio secondo cui “in tema di risarcimento del danno, è possibile assegnare alla consulenza tecnica d’ufficio ed alle correlate indagini peritali funzione “percipiente” quando essa verta su elementi già allegati dalla parte” (evenienza, come detto, esclusa dalla sentenza impugnata), “ma che soltanto un tecnico sia in grado di accertare per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone” (Cass. Sez. 6-3, ord. 3 luglio 2020, n. 13736, Rv. 658504-01; Cass. Sez. 2, sent. 22 gennaio 2015, n. 1190, Rv. 633974-01).
7.4.3. In relazione, invece, al sesto motivo – che censura, in quanto “apodittica, illogica e priva di fondamento sia sotto il profilo probatorio che sotto quello presuntivo”, l’affermazione della Corte territoriale secondo cui “la mancata occupazione post 2013 sarebbe imputabile a problemi connessi al mercato” – deve rilevarsene, sotto più profili, l’inammissibilità.
Quanto, invero, alla doglianza che prospetta l’infondatezza di quella affermazione “sotto il profilo probatorio”, valgono le considerazioni svolte per i motivi terzo e quarto.
In relazione, invece, alla censura di “illogicità” (e di “apoditticità”) dell’affermazione, deve sottolinearsi che, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – nel testo “novellato” dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) – il sindacato di questa Corte è destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonché, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 1, ord. 30 giugno 2020, n. 13248, Rv. 658088-01).
Il vizio motivazionale, dunque, sussiste solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonché, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-0), o perché affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).
La censura, pertanto, si presenta inammissibile, se è vero che il “controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto l’aspetto della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione” – ovvero, come visto, il solo che permane dopo la riformulazione del testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) e che consente “la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge” – presuppone “che esso emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata” (Cass. Sez. Un., sent. n. 8053 del 2014, cit.), vale a dire “prescindendo dal confronto con le risultanze processuali” (così, tra le molte, Cass. Sez. 1, ord. 20 giugno 2018, n. 20955, non massimata). Nel caso di specie, per contro, è proprio un confronto con le risultanze processuali in atti ciò che, nella prospettazione della ricorrente, evidenzierebbe la manifesta illogicità della motivazione.
Quanto poi, per concludere sul punto, al rilievo secondo cui l’affermazione della Corte territoriale sarebbe priva di fondamento sul piano presuntivo (dal momento che, nella specie, si sarebbe potuto almeno presumere che la S. potesse conseguire una promozione presso la società ove lavorò come commessa per ventisei anni), deve ribadirsi come non “possa attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici” (Cass. Sez. 3, sent. 16 novembre 2005, n. 23079, Rv. 584919-01; Cass. Sez. 3, sent. 14 novembre 2006, n. 24211, Rv. 593549-01; Cass. Sez. Lav., sent. 5 febbraio 2014, n. 2632, Rv. 629841-01), o meglio congetturali, e ciò in quanto la prova presuntiva “e’ una deduzione logica”, che, come tale, “si deve fondare su fatti certi” e “si deve dedurre da questi sulla base di massime d’esperienza o dell’id quod plerumque accidit”, mentre la congettura, invece, “e’ una mera supposizione”, che “si fonda su fatti incerti” e “viene dedotta da questi in via di semplice ipotesi” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 28 giugno 2019, n. 17421, Rv. 654353-01).
7.5. Infine, anche il settimo motivo va rigettato, in ciascuna delle due censure in cui si articola.
7.5.1. Difatti, è corretta la decisione della Corte territoriale di liquidare le spese dei due gradi di giudizio con riferimento al danno residuo riconosciuto, in appello, all’odierna ricorrente (Euro 33.084,44), senza tenere conto di quanto complessivamente e spontaneamente versato dalla società Allianz, e dunque di quanto dalla stessa riconosciuto come dovuto alla S. prima ed in corso di causa.
Invero, mentre in caso di rigetto della domanda la liquidazione delle spese di lite avviene sulla base del criterio del “disputatum”, all’opposto, “quando la domanda sia accolta il valore della causa ai fini della liquidazione delle spese deve essere pari alla somma attribuita dal giudice” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 12 giugno 2019, n. 15857, Rv. 654312-01), e ad esso soltanto. Ne’ in senso contrario può richiamarsi quanto sancito dalle Sezioni Unite di questa Corte nell’arresto citato dalla ricorrente, che si limita ad affermare la necessità di “considerare il disputatum e non già il decisum allorché il giudice, sollecitato dalla parte che chieda il rimborso degli onorari sulla base dell’originario valore della – controversia, ritenga la piena fondatezza dell’originaria domanda, accolta solo in parte per il sopravvenuto parziale adempimento nelle more del giudizio” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 11 settembre 2007, n. 19014, Rv. 598765-01); presupposto, dunque, perché non si faccia riferimento al “decisum” non è affatto – come opina l’odierna ricorrente – il (solo) “sopravvenuto parziale adempimento nelle more del giudizio”, ma pure il riconoscimento della “piena fondatezza dell’originaria domanda”, vale a dire un’evenienza che non ricorre nel caso in esame.
7.5.2. La seconda censura e’, invece, inammissibile.
Vero è che, in relazione alle spese del primo grado di giudizio, la differenza tra quanto la Corte lagunare ha liquidato globalmente (Euro 8.464,10) e quanto ha ascritto, specificamente, alla voce compensi (Euro 7.254,00) risulta pari Euro 1.210,10, ma in quest’ultima somma non può includersi quanto già corrisposto, dalla parte poi risultata vittoriosa, a titolo di contributo unificato, importo che essa ha diritto a recuperare “ex se” (da ultimo, Cass. Sez. 1, sent. 1 luglio 2019, n. 18529, Rv. 654658-01). Tenuto conto, dunque, di tale circostanza, nonché del difetto di analitica indicazione, in ricorso, delle singole spese cd. “borsuali” sostenute dall’odierna ricorrente in primo grado, la censura deve ritenersi inammissibile, ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), (essendo onere della ricorrente precisare “le singole spese contestate o dedotte come omesse”; così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 19 ottobre 2014, n. 24635, Rv. 633262-01; Cass. Sez. 3, sent. 26 giugno 2007, n. 14744; Cass. Sez. 3, sent. 21 ottobre 2009, n. 22287, Rv. 609823-01), visto che l’importo di quelle liquidate forfettariamente nella misura del 15%, pari, nella specie, a Euro 1.088,10, non può ritenersi incompatibile con un esborso effettivo di 1.229,00, visto che in tale somma non può includersi, come detto, quanto già versato dall’allora attrice a titolo di contributo unificato.
– Identica valutazione va compiuta con riferimento alle spese del grado di appello, dal momento che – detratta dalla somma complessiva, liquidata dalla Corte territoriale in Euro 10.136,25, quella per compensi, pari a Euro 6.615,00 – la somma dovuta alla parte vittoriosa, tanto per esborsi effettivi che per spese forfettarie, ammonta a Euro 3.521,25, a fronte di spese “borsuali” che la ricorrente quantifica in Euro 2.556,00. Escluso, tuttavia, anche in questo caso, che nell’importo da ultimo indicato possa essere ricompreso quanto versato dall’allora appellante a titolo di contributo unificato per il proposto appello, la somma di Euro 992,25 per spese forfettarie non risulta in astratto incompatibile con quelle effettivamente sostenute, in difetto, anche qui, della loro specifica indicazione nel ricorso.
8. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
9. A carico della ricorrente sussiste, infine, l’obbligo di versare, se dovuto, l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna S.P. a rifondere, alla società Allianz S.p.a., le spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 10.000,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15h ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 30 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2021