LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –
Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 9448/2020 proposto da:
U.E., elettivamente domiciliato in Roma, Via Piemonte n. 117, presso lo studio dell’Avvocato Giulia Perin, rappresentato e difeso dagli Avvocati Alberto Figone, e Damiana Stocco, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
B.M., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’Avvocato Lucio Giommoni, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
contro
Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Venezia;
– intimato –
avverso la sentenza n. 4701/2019 della Corte d’appello di Venezia pubblicata il 31/10/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 15/7/2021 dal Cons. Dott. Alberto Pazzi.
RILEVATO
che:
1. Il Tribunale di Rovigo, con sentenza n. 979/2016, accertava il rapporto di filiazione esistente fra B.M. ed U.E. valorizzando, a dimostrazione della fondatezza della domanda attorea, il comportamento processuale tenuto dal convenuto, il quale aveva rifiutato di sottoporsi al prelevamento di liquidi biologici funzionali all’espletamento di una consulenza tecnica genetica.
2. La Corte d’appello di Venezia, a seguito dell’impugnazione proposta dall’ U., riteneva che il primo giudice, pur in mancanza di alcun altro elemento indiziario, avesse correttamente ritenuto di disporre un’indagine scientifica che non avrebbe avuto alcuna incidenza né sull’integrità fisica né su quella morale del convenuto.
La mancata disponibilità all’espletamento dell’indagine era stata poi ad avviso della Corte distrettuale – giustamente posta a base dell’accoglimento della domanda attorea, in applicazione della giurisprudenza di legittimità secondo cui un simile contegno processuale poteva essere fonte, anche unica, del convincimento del giudice.
3. Per la cassazione della sentenza di rigetto dell’appello, pubblicata in data 31 ottobre 2019, ha proposto ricorso U.E. prospettando quattro motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso B.M..
Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..
CONSIDERATO
che:
4. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 269 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., ed assume che la motivazione offerta sia inesistente o meramente apparente: la Corte d’appello – sottolinea il ricorrente – ha ritenuto di accogliere la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità basandosi soltanto sul fatto che il sig. U. si fosse rifiutato di sottoporsi alle indagini genetiche.
Ciò era avvenuto benché il rifiuto non potesse – in tesi – ritenersi ingiustificato, giacché il convenuto aveva contestato già in limine litis di non aver mai avuto frequentazioni o rapporti con la madre della pretesa figlia e quest’ultima, a fronte di una simile specifica contestazione, non aveva fornito alcuna prova costituita o costituenda a suffragio dei propri assunti.
In assenza di un rifiuto ingiustificato nessun elemento, neppure indiziario, si sarebbe potuto trarre ex art. 116 c.p.c., comma 2, dal contegno processuale tenuto dall’ U. per indurne la paternità rispetto alla controparte.
5. Il motivo è inammissibile ex art. 360-bis c.p.c., n. 1.
5.1 A dire dell’odierno ricorrente in questa materia “la ctu deve essere preceduta da elementi indiziari in fatto, che possano rendere anche solo verosimile il concepimento da parte del convenuto, quando questi abbia a contestare di aver mai avuto relazioni, rapporti o frequentazioni con la madre di colui che oggi si professa figlio” (pagg. 8 e 9) Aggiunge il mezzo in esame che, in base al disposto dell’art. 116 c.p.c., comma 2, “il Giudice può solo desumere elementi di prova dal comportamento processuale delle parti (sub specie di rifiuto ingiustificato a sottoporsi a ispezioni), ma non già porre quel comportamento a base della decisione” (pag. 8).
“Ciò tanto più quando la parte convenuta, nel rispetto dell’art. 115 c.p.c., abbia recisamente contestato i fatti, connessi al concepimento stesso, senza che parte attrice si sia data carico di fornire un minimo elemento di prova” (pag. 8), dovendosi ritenere che in questo caso il rifiuto sia giustificato.
5.2 Simili assunti contrastano con gli approdi a cui è giunta, da tempo e in maniera costante, la giurisprudenza di questa Corte.
Non è possibile, innanzitutto, ritenere che l’espletamento di una consulenza tecnica sia condizionata dall’esistenza di elementi istruttori che suffraghino la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità.
Invero, in questi giudizi l’ammissione di una simile mezzo istruttorio, di carattere percipiente, non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, poiché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269 c.c., comma 2, non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status (Cass. 3479/2016).
Ben può, quindi, il giudice di merito disporre immediatamente l’ammissione di una consulenza tecnica che espleti accertamenti immuno-ematologici o esami genetici, giacché tale indagine rappresenta, attesi i progressi della scienza biomedica, lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l’acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione naturale e con esso il giudice accerta l’esistenza o l’inesistenza di incompatibilità genetiche, ossia di un fatto biologico di per sé suscettibile di rilevazione solo con l’ausilio di competenze tecniche particolari (Cass. 14462/2008).
5.3 Non è possibile neppure sostenere che il giudice possa desumere dal rifiuto della parte di sottoporsi a questo accertamento soltanto elementi di prova da corroborare con ulteriori risultanze.
Nella giurisprudenza di questa Corte, al contrario, è pacifico che nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità naturale il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116 c.p.c., comma 2, di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda (Cass. 6025/2015).
Il che significa che, sebbene la volontà di sottoporsi al prelievo funzionale all’esecuzione degli accertamenti sul DNA non sia coercibile, nulla tuttavia impedisce al giudice di valutare, in caso di rifiuto, sia pur in sé legittimo, ma privo di adeguata giustificazione, il comportamento della parte ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2 (Cass. 32308/2018).
5.4 Ne’ è possibile addurre, quale adeguata giustificazione del comportamento processuale tenuto, la mancanza di ulteriori prove a conforto delle tesi attoree, in quanto una simile interpretazione altro non farebbe se non introdurre in maniera surrettizia – e inammissibile, come in precedenza illustrato, per contrasto con il disposto dell’art. 269 c.c., comma 2 – una limitazione al principio della libertà di prova.
6. Il secondo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 269 c.c., artt. 115,116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e sostiene che la motivazione offerta sia inesistente o meramente apparente, in quanto la Corte d’appello non ha in alcun modo motivato in ordine alle ragioni, vere ed effettive, che hanno indotto il sig. U. a non sottoporsi a C.T.U. genetica.
7. In tesi di parte ricorrente la Corte di merito avrebbe ritenuto ingiustificato il rifiuto opposto dall’ U. senza curarsi di argomentare in ordine alle reali ragioni di siffatto contegno, costituite dall’inammissibilità del mezzo istruttorio richiesto, che il giudice istruttore aveva licenziato sulla base delle sole dichiarazioni attoree, benché le stesse fossero state radicalmente contestate.
Una simile doglianza è inammissibile.
Essa, infatti, non fa altro che introdurre, sotto un profilo motivazionale, la tesi in precedenza sostenuta in termini sostanziali, vale a dire che il rifiuto debba intendersi come giustificato laddove manchino riscontri dell’asserito concepimento.
L’inutilità – come detto – di tali elementi di riscontro fa sì che nessuna motivazione in merito dovesse essere fornita dalla Corte distrettuale al fine di ritenere ingiustificato il contegno processuale tenuto dalla parte.
Il che, peraltro, costituisce la ratio sottesa agli argomenti offerti dalla decisione impugnata, laddove essa sottolinea (a pag. 4) che “il primo giudicante in assenza di ulteriori elementi ben ha ritenuto di procedere con l’indagine scientifica”, così intendendosi sostenere che la mancanza di alcun elemento indiziario della paternità naturale dedotta comunque non impediva, nel senso in precedenza illustrato, l’ammissione della consulenza genetica, sicché la tesi difensiva dell’appellante non valeva a rendere giustificato il rifiuto.
8. Il terzo motivo di ricorso assume la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., confidando che all’accoglimento del ricorso consegua l’imputazione delle spese a controparte.
9. Il motivo è inammissibile.
Esso, infatti, non deduce l’esistenza di alcun errore all’interno della decisione impugnata, ma si limita ad auspicare che la cassazione della stessa comporti gli effetti previsti dall’art. 336 c.p.c..
Ne discende l’inammissibilità del mezzo, che non veicola alcuna critica alla statuizione gravata.
10. Il quarto motivo si duole della violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 133, in quanto la sentenza impugnata ha condannato l’appellante alla rifusione delle spese di lite in favore dell’appellata anziché dell’erario, dato che la sig.ra B. era stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
11. Il motivo è inammissibile.
E’ pacifico fra le parti che B.M. fosse stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
Ciò nonostante la Corte dell’appello, nel regolare le spese di lite, ha condannato l’appellante al pagamento delle stesse in favore dell’appellata anziché dell’erario, in applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 133.
Ora, la parte soccombente, se condannata al pagamento delle spese processuali in favore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, deve effettuare il versamento in favore dell’erario, sicché, ove esso venga disposto, erroneamente, il pagamento in favore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, il dispositivo della sentenza può essere corretto mediante il procedimento di cui all’art. 287 c.p.c. (Cass. 15817/2019).
Una simile correzione deve, però, essere richiesta alla Corte di merito e non a questa Corte.
In vero, la speciale disciplina, dettata dagli artt. 287 c.p.c. e segg., per la correzione degli errori materiali incidenti sulla sentenza, la quale attribuisce la competenza all’emanazione del provvedimento correttivo allo stesso giudice che ha emesso la decisione da correggere, non è applicabile quando contro la decisione stessa sia già stato proposto appello dinanzi al giudice del merito, in quanto l’impugnazione assorbe anche la correzione di eventuali errori;
ciò nondimeno, tale disciplina deve essere osservata rispetto alle decisioni impugnate con ricorso per cassazione, atteso che il giudizio relativo a quest’ultima impugnazione è di mera legittimità e la Corte di cassazione non può correggere errori materiali contenuti nella sentenza del giudice di merito, al quale va, pertanto, rivolta l’istanza di correzione, anche dopo la presentazione del ricorso per cassazione (Cass. 13629/2021).
12. Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso a favore dello Stato, D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 133, delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 8.000 oltre spese prenotate a debito Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri titoli identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 15 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2021