LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 26939-2015 proposto da:
P.P., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZALE CLODIO 56, presso lo studio dell’avvocato MARCELLO PIZZI, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1654/2014 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 10/11/2014 R.G.N. 123/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/05/2021 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;
il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’
STEFANO, visto il D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’Appello di Reggio Calabria ha respinto l’appello proposto da P.P. avverso la sentenza del Tribunale di Palmi che aveva rigettato la domanda volta ad ottenere la condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti dal ricorrente in conseguenza del provvedimento di sospensione cautelare dal servizio adottato il *****.
2. La Corte territoriale ha premesso in punto di fatto che l’appellante, ufficiale giudiziario presso il Tribunale di Palmi, era stato condannato in primo grado per reati asseritamente commessi nell’esercizio delle funzioni ed a seguito della condanna il Ministero aveva disposto, ai sensi dell’art. 27 del CCNL 16.5.1995, la sospensione, revocata allorquando era sopravvenuta il 12 gennaio 2000 sentenza di assoluzione in appello.
3. Richiamati i passaggi motivazionali della sentenza impugnata e sintetizzati i motivi di impugnazione, la Corte ha evidenziato che l’appellante non aveva censurato gli argomenti sulla base dei quali il Tribunale aveva escluso che il potere discrezionale fosse stato esercitato Illegittimamente. Ha precisato che l’illegittimità della sospensione non poteva essere desunta precedente giudicato invocato dal P., perché il procedimento sfociato nella sentenza di questa Corte n. 18835/2013 riguardava un’azione diversa quanto a petitum e causa petendi, poiché aveva ad oggetto la quantificazione dell’importo che il Ministero era tenuto a corrispondere al P. a titolo di restitutio in integrum ex art. 27 del CCNL 1995, una volta cadute le accuse penali ed archiviato il procedimento disciplinare.
4. Ha ritenuto, pertanto, che, esclusa l’illegittimità intrinseca della sospensione, non vi fosse spazio per ottenere, in aggiunta alla restitutio, il risarcimento dei danni.
5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso P.P. sulla base di tre motivi, illustrati da memoria, ai quali ha opposto difese con tempestivo controricorso il Ministero della Giustizia.
6. La Procura Generale ha concluso D.L. n. 137 del 2020, ex art. 23, comma 8 bis, convertito in L. n. 176 del 2020, per l’infondatezza del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 28 Cost. e sostiene che la Corte territoriale, pur avendo correttamente ritenuto che l’azione non fosse preclusa dal precedente giudicato, ha poi errato nell’affermare che l’appellante non avesse censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva escluso l’illegittimità intrinseca della sospensione cautelare. Rileva che, al contrario, con l’atto d’appello era stata dedotta la violazione dell’art. 28 Cost. ed era stata richiamata giurisprudenza di legittimità per sostenere che la Pubblica Amministrazione è tenuta a risarcire i danni cagionati allorquando l’attività provvedimentale risulti negligente o imprudente. Aggiunge che nella fattispecie l’illegittimità della sospensione era già stata acclarata nel giudizio promosso per ottenere la restitutio in integrum che, peraltro, non aveva ristorato integralmente il dipendente del pregiudizio subito.
2. Con la seconda censura, ricondotta al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente addebita alla Corte territoriale di avere violato l’art. 2909 c.c. ed insiste nel sostenere che il precedente giudicato aveva già accertato la responsabilità del Ministero, che, quindi, non poteva essere esclusa.
3. Infine con il terzo motivo il ricorrente denuncia “violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 111 Cost. in punto di mancato riconoscimento di uso illegittimo del potere discrezionale della p.a.” e sostiene che il giudice d’appello non ha motivato l’asserita inesistenza di un abuso nell’adozione della sospensione cautelare.
4. I motivi, da trattare unitariamente in ragione della loro connessione logica e giuridica, sono infondati.
Non sussiste la denunciata violazione dell’art. 132 c.p.c. perché, come evidenziato dalle Sezioni Unite di questa Corte, l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità, quale violazione di legge costituzionalmente rilevante, attiene solo all’esistenza della motivazione in sé, prescinde dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. S.U. n. 34476/2019; Cass. S.U. n. 8053/2014; Cass. S.u. n. 5888/1992).
Il difetto del requisito di cui all’art. 132 c.p.c. si configura, quindi, solo qualora la motivazione o manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero esista formalmente come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum.
Esula, invece, dal vizio di violazione di legge la verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle quaestiones fatti, implicante un raffronto tra le ragioni del decidere adottate ed espresse nella sentenza impugnata e le risultanze del materiale probatorio sottoposto al vaglio del giudice di merito.
4.1. La giurisprudenza di questa Corte, inoltre, è consolidata nel ritenere ammissibile la motivazione per relationem ad altri provvedimenti giudiziari e nell’escludere la nullità della sentenza qualora, attraverso il rinvio, emergano in modo chiaro le ragioni della decisione (Cass. S.U. 16.1.2015 n. 642). Pertanto il giudice di appello, al quale non è imposta l’originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, ben può aderire alla motivazione della statuizione impugnata ove la condivida, senza necessità di ripeterne tutti gli argomenti o di rinvenirne altri (cfr. fra le tante Cass. 26.5.2016 n. 10937; Cass. 23.9.2016 n. 18754; Cass. 19.7.2016 n. 14786). In tal caso per escludere la violazione dell’art. 132 c.p.c. è sufficiente che la sentenza di appello indichi, anche in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le decisioni, di ricavare un percorso argomentativo adeguato (Cass. n. 14786/2016 cit.).
4.2. Sulla base dei principi di diritto sopra richiamati deve escludersi che nella fattispecie possa essere ravvisata la denunciata violazione dell’art. 132 c.p.c. perché la Corte territoriale ha riassunto l’ampia ed articolata motivazione della sentenza di primo grado, alla quale ha dichiarato di voler fare rinvio, e ha poi indicato le ragioni, qui riportate nello storico di lite, per le quali gli argomenti che avevano indotto il Tribunale ad escludere l’illegittimità del provvedimento di sospensione ed a rigettare la domanda risarcitoria, non potevano essere superati dai motivi di appello.
In tal modo il giudice del gravame ha dato conto, sia pure sinteticamente, delle motivazioni poste alla base dell’affermata condivisione della pronuncia di prime cure sicché dalla lettura congiunta della parte motiva di entrambe le sentenze può essere ricavato un percorso argomentativo esaustivo e coerente (Cass. n. 20883/2019).
5. Correttamente, poi, la Corte territoriale ha escluso che ai fini della fondatezza della domanda risarcitoria potessero rilevare gli argomenti sulla base dei quali era stata accolta, con sentenza passata in giudicato, la diversa domanda di restitutio in integrum proposta dopo la riammissione in servizio avvenuta all’esito dell’assoluzione in sede penale.
Questa Corte (cfr. Cass. n. 33377/2018) ha già rimarcato la diversità fra le due azioni, evidenziando che l’illegittimità della misura cautelare adottata dal datore di lavoro in pendenza del processo penale non può essere desunta dalla successiva assoluzione dal delitto contestato, perché la legittimità del provvedimento deve essere valutata al momento della sua adozione e, quindi, il giudice è chiamato ad accertare se a quella data sussistessero o meno le condizioni richieste dalle parti collettive e dalla legge per il valido esercizio del potere di allontanamento del dipendente dal servizio.
Infatti le vicende penali successive all’adozione della sospensione non possono valere a rendere illegittimo un provvedimento cautelare adottato dal datore di lavoro in presenza dei presupposti tutti richiesti dal CCNL, perché non è configurabile inadempimento, fonte di responsabilità risarcitoria, nei casi in cui la condotta si sia conformata alle disposizioni di legge e di contratto che disciplinano il rapporto.
L’interruzione del sinallagma tra prestazione lavorativa e controprestazione, seppure avvenuta ad iniziativa del datore, ove successivamente risulti non giustificata all’esito della conclusione del processo penale e del procedimento disciplinare, se riattivato, fa sorgere il diritto del dipendente alla restitutio in integrum, ossia a percepire il trattamento retributivo che gli sarebbe spettato qualora il provvedimento cautelare non fosse stato adottato, ma di per sé non legittima un’azione di risarcimento del danno, esperibile solo qualora emerga l’insussistenza, al momento dell’adozione della misura, dei presupposti alla cui ricorrenza la stessa era subordinata.
5.1. Nel caso di specie si discute di sospensione disposta in data 24 maggio/13 giugno 1997 nella vigenza del CCNL 16.5.1995 per il personale del comparto ministeri che, all’art. 27, comma 2, consentiva la sospensione cautelare nel caso in cui il dipendente fosse stato “rinviato a giudizio per fatti direttamente attinenti al rapporto di lavoro o comunque tali da comportare, se accertati, l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento ai sensi dell’art. 25, commi 4 e 5.”.
La Corte d’Appello, attraverso il rinvio alla motivazione del Tribunale, ha correttamente evidenziato che la disposizione contrattuale richiede solo, ai fini della valida adozione del provvedimento, che l’amministrazione dia conto dell’entità e della gravità dei fatti di reato contestati, della loro attinenza al rapporto di impiego, della potenziale lesione del prestigio, del buon andamento e della credibilità dell’ente.
Non è invece imposta al datore di lavoro pubblico un’autonoma valutazione sulla fondatezza delle accuse e sulla consistenza delle fonti di prova che il Pubblico Ministero ha acquisito nel corso delle indagini preliminari, perché la sospensione, per la sua stessa natura di misura provvisoria e cautelare, non richiede l’accertamento della sicura colpevolezza del dipendente e, quindi, quando i fatti siano tali da porre in dubbio il corretto adempimento degli obblighi che dal rapporto di impiego derivano, è sufficiente il preliminare giudizio sulla consistenza dell’accusa penale espresso dal G.U.P., posto che il decreto che dispone il giudizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 425 e 429 c.p.p., può essere emesso solo qualora non ricorrano le condizioni per il proscioglimento, che va pronunciato “anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio” (art. 425 c.p.p., comma 3).
5.2. I giudici del merito hanno poi accertato, in punto di fatto, che l’operato del Ministero, oltre a conformarsi alla disciplina dettata dalla contrattazione collettiva, era stato tutt’altro che imprudente perché, a fronte della contestazione di delitti asseritamente commessi nell’esercizio delle funzioni di ufficiale giudiziario (concorso in truffa, turbata libertà degli incanti, falso materiale in atto pubblico, abuso d’ufficio), aveva atteso, a tutela del dipendente, il vaglio dibattimentale delle accuse, disponendo la sospensione non all’esito del rinvio a giudizio, come sarebbe stato possibile, bensì all’indomani della sentenza del Tribunale di Palmi che aveva accertato la penale responsabilità dell’imputato, sia pure con sentenza non definitiva.
Sebbene la normativa non trovi applicazione ratione temporis alla fattispecie, è utile osservare che il legislatore, nel dettare la disciplina della sospensione in relazione ai reati di maggiore gravità commessi dai dipendenti pubblici, ha ritenuto, con la L. n. 97 del 2001, artt. 3 e 4 di imporre la sospensione, solo facoltativa dopo il rinvio a giudizio, in caso di condanna non definitiva, sul presupposto che quest’ultima accresca le esigenze cautelari, minando la credibilità dell’amministrazione che continui ad avvalersi delle prestazioni del dipendente, nonostante l’avvenuto riconoscimento della colpevolezza, all’esito del giudizio di primo grado.
In via conclusiva il giudizio di merito espresso dalla Corte territoriale sul corretto esercizio del potere di sospensione e sull’insussistenza di ragioni intrinseche di illegittimità del provvedimento, è esente da errori giuridici perché fondato su una corretta interpretazione della disciplina contrattuale all’epoca vigente.
6. Il ricorso va, pertanto, rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012. n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in Euro 6.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 12 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2021
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