Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.27625 del 11/10/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25787/2016 proposto da:

COGEIM SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Di Villa Sacchetti 9, presso lo studio dell’avvocato Marini Giuseppe, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1554/2016 della COMM. TRIB. REG. LAZIO, depositata il 29/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/09/2021 dal Consigliere Dott. RUSSO RITA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. De Matteis che ha concluso per l’accoglimento del primo, secondo, terzo e quarto motivo, conseguenze di legge;

udito per il ricorrente l’avvocato Muccari Pierluigi, per delega avv. Marini che si è riportato;

udito per il controricorrente l’avvocato Rocchitta Giammario che si e’ riportato.

FATTI DI CAUSA

La società COGEIM ha impugna l’avviso di liquidazione di maggiori imposte di registro, ipotecarie e catastali, relativo ad un atto di conferimento di ramo di azienda, con il quale l’ufficio contesta che la società abbia realizzato, con più atti collegati una cessione di azienda, stante il breve lasso di tempo intercorso tra il conferimento di ramo di azienda e un altro e diverso atto di cessione di quote societarie.

Il ricorso della contribuente è stato accolto in primo grado, mentre la sentenza d’appello, depositata dalla CTR del Lazio in data 29.3.2016, ha riformato la sentenza impugnata, in accoglimento dell’appello della Agenzia.

Ha proposto ricorso per cassazione la società, affidandosi a cinque motivi. L’Agenzia si è costituita solo per la partecipazione alla discussione orale. Con ordinanza dell’11 dicembre 2019 il processo è stato rinviato al nuovo ruolo in attesa della pronuncia della Corte costituzionale sulla questione sollevata da questa stessa Corte con ordinanza del 23 settembre 2019 n. 23549 relativa al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20. Fissato l’udienza di pubblica discussione del 9 settembre 2021 la società ricorrente ha depositato memoria. Il P.G. e le parti hanno concluso come in epigrafe.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo del ricorso si lamenta la violazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 176, e della Dir. n. 69/335/CE, art. 12, e della Dir. n. 2008/7/CE, art. 6. La parte deduce che gli effetti giuridici conseguenti al conferimento di ramo d’azienda sono ben diversi da quelli della cessione del ramo d’azienda; che la irrilevanza delle operazioni commerciali di conferimento di ramo d’azienda e successiva cessione di quote ai fini della applicazione della normativa antielusiva non è limitata alla sola disciplina della imposte dirette ma proietta i suoi effetti anche sulla imposta di registro; che l’interpretazione dell’art. 20 cit., fornita dall’ufficio è in contrasto con la normativa comunitaria.

Con il secondo motivo del ricorso si lamenta la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, per omessa pronuncia sulla prospettata differenza degli effetti conseguenti al conferimento d’azienda seguito della cessione di quote a terzi rispetto alla cessione di ramo d’azienda.

Con il terzo motivo del ricorso del ricorso si lamenta la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, per motivazione apparente in ordine alla prospettata differenza degli effetti conseguenti al conferimento di azienda, seguito da cessione di quote a terzi, rispetto alla cessione di ramo d’azienda che impedisce la riqualificazione di più negozi in virtù di un non dimostrato nesso teleologico tra i vari negozi posti in essere.

Con il quarto motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione di legge, in relazione al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, perché l’amministrazione finanziaria in violazione delle regole di riparto dell’onere della prova ha presunto l’intento elusivo.

Con il quinto motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per assenza di motivazioni sulla sussistenza nella fattispecie in oggetto delle valide ragioni economiche poste a fondamento delle operazioni contestate.

2.- I primi quattro motivi possono esaminarsi congiuntamente e sono fondati.

Il D.P.R. n. 131 del 1987, art. 20, il quale nella sua attuale formulazione dispone: “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi” non consente di riqualificare il negozio sulla base di atti (esterni) ritenuti collegati né contestare l’abuso del diritto senza le dovute procedure e garanzie.

In effetti, anche nella precedente formulazione della disposizione, in cui non vi era il riferimento esplicito alla irrilevanza degli elementi esterni all’atto, l’art. 20, fondava l’imposizione sugli effetti giuridici dell’atto e sulle conseguenze che questi erano idonei a produrre. Ciononostante, la giurisprudenza maggioritaria era orientata nel senso che dovesse indagarsi la causa reale o concreta dei negozi, dando rilievo al collegamento negoziale tra contratti al fine di valutarne l’effetto finale, ovvero alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali tra loro collegate (Cass. n. 13610/2018).

L’intervento legislativo è avvenuto in due tempi: dapprima con la legge di bilancio 2018 (L. n. 25 del 2017), affermando la necessità di applicare l’imposta “sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati” e la seconda con la legge di bilancio 2019 (L. n. 145 del 2018), affermando che si tratta di una norma di interpretazione autentica e quindi dotata – per definizione – di efficacia retroattiva (cfr. Cass., n. 23549/19), essendo stato chiarito il senso di una norma preesistente, eliminando oggettive incertezze interpretative e rimediando ad una interpretazione giurisprudenziale non in linea con la politica del diritto voluta dal legislatore medesimo.

In questi termini si è espressa la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 158/2020, allorquando ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, posta da questa Corte di legittimità (ord. n. 23549/2019), in relazione agli artt. 3 e 53 Cost., del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, e dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, nella parte in cui prevede che, ai fini dell’imposta di registro, l’interpretazione degli atti presentati alla registrazione debba avvenire solo in base al loro contenuto, senza fare riferimento ad atti collegati o ad elementi extra testuali.

2.1 – La Corte Costituzionale, premesso che l’interpretazione evolutiva, cui la giurisprudenza della Corte di cassazione è pervenuta circa la rilevanza della causa concreta del negozio ai fini della tassazione di registro, non equivale a priori a un’interpretazione costituzionalmente necessitata, ha osservato che l’esclusione dalla rilevanza interpretativa degli elementi extratestuali e degli atti collegati, disposta dal legislatore con i menzionati interventi normativi del 2017 e 2018, non si pone in contrasto con i parametri costituzionali.

Infatti, “il legislatore, con la denunciata norma ha inteso, attraverso un esercizio non manifestamente arbitrario della propria discrezionalità, riaffermare la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro, precisando l’oggetto dell’imposizione in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato per la registrazione, senza che assumano rilievo gli elementi extratestuali e gli atti collegati privi di qualsiasi nesso testuale con l’atto medesimo, salvo le ipotesi espressamente regolate dal testo unico”, salvaguardando “la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico”.

Ha aggiunto che gli evocati parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 53 Cost., non si oppongono in modo assoluto a una diversa concretizzazione da parte legislatore dei principi di capacità contributiva e, conseguentemente, di eguaglianza tributaria, che sia diretta (come stabilito dalla norma censurata) a identificare i presupposti impostivi nei soli effetti giuridici desumibili dal negozio contenuto nell’atto presentato per la registrazione, senza alcun rilievo di elementi tratti aliunde, “salvo quanto disposto dagli articoli successivi” dello stesso testo unico. Ha, inoltre, evidenziato che l’interpretazione evolutiva dell’art. 20, incentrata sulla nozione di causa reale, provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, in quanto “consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale”, pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione Europea.

Ciò non toglie che eventuali condotte di sottrazione all’imposizione di effettiva ricchezza imponibile possa rilevare sotto il profilo dell’abuso del diritto, alla cui repressione, tuttavia, non è funzionale la disposizione di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20.

2.2. – Con successiva sentenza n. 39 del 16 marzo 2021 la Corte Costituzionale ha ribadito il giudizio di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale della L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, in relazione alla violazione degli artt. 3 e 53 Cost..

Nel richiamare la precedente pronuncia la Corte ha ritenuto che la retroattività conseguente alla natura di interpretazione autentica riconosciuta alla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), trova adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasta con altri valori e interessi costituzionalmente protetti, avuto riguardo al carattere di sistema assunto dall’intervento legislativo oggetto di scrutinio, e che, per tale motivo, si sottrae al dubbio sollevato dal remittente.

Evidenzia, inoltre, che la medesima ragione impone di disattendere la censura di irragionevolezza della disposizione anche sotto il profilo della ipotizzata violazione dei “motivi imperativi di interesse generale” desumibili dall’art. 6 CEDU, sottolineando che le norme della CEDU sono volte a tutelare i diritti della persona contro il potere dello Stato e della Pubblica Amministrazione e non viceversa. 3.- In sintesi, il legislatore, con un intervento ritenuto conforme ai parametri costituzionali, ha voluto imporre una interpretazione isolata dell’atto da sottoporre a registrazione, fondata unicamente sugli elementi da esso desumibili, ribadendo così la natura d’imposta d’atto dell’imposta di registro, la quale colpisce l’atto sottoposto a registrazione quale risulta dallo scritto.

La più recente giurisprudenza di questa Corte si è pertanto orientata nel senso che: “In tema di imposta di registro, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 – nella formulazione successiva alla L. n. 205 del 2017, che, secondo la L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, ne ha fornito l’interpretazione autentica e alla luce delle sentenze della Corte Cost. n. 158 del 2020 e Corte Cost. n. 39 del 2021 – è legittima l’attività di riqualificazione dell’atto da registrare da parte dell’Amministrazione soltanto se operata “ab intriseco”, cioè senza alcun riferimento agli atti ad esso collegati e agli elementi extra-testuali, non potendosi essa fondare sull’individuazione di contenuti diversi da quelli ricavabili dalle clausole negoziali e dagli elementi comunque desumibili dall’atto” (Cass. n. 10688/2021; Cass. n. 9065/2021).

Pertanto, nel caso sottoposto all’esame di codesta Corte, la cessione di quote sociali preceduta dal conferimento di ramo d’azienda non può essere riqualificata, D.P.R. n. 131 del 1986, ex art. 20, come cessione di azienda e assoggettata alla relativa imposizione, dovendosi ritenere impedita all’ufficio la riqualificazione di un unico negozio, come di più o meno articolate sequenze negoziali, sulla base della valorizzazione di elementi extratestuali.

3.1- Ne’ può dirsi la riqualificazione sia diretta di per sé a far rilevare una forma di abuso del diritto o di elusione fiscale, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, trattandosi di ipotesi estranea alla ermeneutica dell’atto da registrare.

L’azione accertatrice, in tali casi, si deve attuare mediante apposito e motivato atto impositivo, preceduto – a pena di nullità – da una richiesta di chiarimenti, che il contribuente può fornire entro un certo termine, il tutto da svolgersi all’interno di uno specifico procedimento di garanzia.

Pertanto, se una diversa lettura del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, così come risulta autenticamente interpretato dal legislatore, non appare più consentita dopo la sentenza n. 158/2020 della Corte Costituzionale, ove ricorra l’abuso del diritto, mediante l’applicazione dello Statuto del Contribuente, art. 10 bis, stante l’espresso richiamo contenuto nel D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, si richiede, per superare la qualificazione formale dell’atto, la prova dell’illegittimo risparmio fiscale, oltre che il rispetto delle garanzie procedimentali di cui si è detto (Cass. n. 10688/2021).

Ne consegue in accoglimento dei primi quattro motivi del ricorso assorbito il quinto, l’accoglimento del ricorso, la cassazione della sentenza impugnata e non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto può decidersi nel merito, accogliendo l’originario ricorso della società contribuente. Le spese del giudizio di legittimità e dei gradi di merito possono essere compensate, per la complessità della questione interpretativa trattata, e in ragione del recente consolidamento della giurisprudenza nei termini sopra precisati.

P.Q.M.

In accoglimento del primo, secondo terzo e quarto motivo del ricorso, assorbito il quinto, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito accoglie l’originario ricorso del contribuente. Compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 9 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2021

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