LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –
Dott. MANCINO Rossana – rel. Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –
Dott. CAVALLO Aldo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2298-2018 proposto da:
VODAFONE ITALIA S.P.A. (già VODAFONE OMNITEL B.V., già VODAFONE OMNITEL N. V.), società soggetta a direzione e coordinamento di VODAFONE GROUP PLC, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VIRGILIO, 8, presso lo studio degli avvocati ANDREA MUSTI, ENRICO CICCOTTI, che la rappresentano e difendono unitamente all’avvocato FRANCO TOFACCHI;
– ricorrente-
contro
D.D., S.T., elettivamente domiciliati in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE 139, presso lo studio dell’avvocato LUCA SILVESTRI, rappresentati e difesi dall’avvocato ERNESTO MARIA CIRILLO;
– controricorrenti –
nonché contro COMDATA S.R.L.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 5492/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 27/07/2017 R.G.N. 631/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/03/2021 dal Consigliere Dott. PATTI ADRIANO PIERGIOVANNI;
il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE ALBERTO visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza 27 luglio 2017, la Corte d’appello di Napoli accertava l’inefficacia nei confronti di S.T. e D.D. della cessione del rapporto di lavoro conseguente alla cessione del ramo d’azienda, cui essi erano addetti, dalla datrice Vodafone Omnitel N. V, ora Italia s.p.a. a Comdata Care s.p.a. con il contratto 5 novembre 2007, ordinando alla prima il ripristino dei relativi rapporti: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece rigettato la domanda dei lavoratori.
2. In applicazione dei principi enunciati in materia dalla Corte di legittimità e in esito ad argomentato scrutinio della fattispecie alla luce delle risultanze istruttorie, sull’essenziale rilievo della mancata cessione degli indispensabili supporti informatici utilizzati per le attività di gestione delle pratiche (elemento diverso dalla banca dati della clientela e dei programmi di accesso ad essa, obbligatoriamente nella proprietà della società di telecomunicazione cedente), invece oggetto di una particolareggiata regolazione nell’utilizzazione dalla cessionaria, per la somministrazione dei servizi oggetto di un separato e contestuale contratto di appalto (così da mantenere i dipendenti trasferiti “in continuo collegamento direttivo, funzionale e di controllo da parte della Vodafone”), la Corte territoriale negava la ricorrenza dell’autonomia funzionale del ramo ceduto: prevista dall’art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32, per l’implicito presupposto logico-giuridico, pur non più menzionato, di preesistenza (mantenuta nel trasferimento) nella configurazione di un’articolazione funzionalmente autonoma dell’impresa, indipendente dalla coeva stipulazione di contratti di fornitura di servizi tra le parti.
3. Con atto notificato in data 12 (20) gennaio 2018, la società cedente ricorreva per cassazione, previa istanza di rinvio pregiudiziale alla CGUE ai sensi dell’art. 267 TFUE, con unico motivo, illustrato da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui i lavoratori resistevano con controricorso. La società cessionaria intimata non svolgeva attività difensiva.
4. Il P.G. rassegnava conclusioni scritte nel senso del rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con unico motivo, la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 2112 c.c., per erronea esclusione, alla luce della richiamata giurisprudenza Eurounitaria della consistenza di ramo d’azienda (nel caso di specie consistente negli interi reparti di gestione amministrativa delle pratiche di attivazione e variazione e di gestione del credito – cd. back office, con tutti i dipendenti; con messa a disposizione degli strumenti operativi e dei contratti di locazione, ad eccezione dei data base e dei softwares abilitanti all’accesso a questi contenenti i dati dei clienti) ceduto da Vodafone (già Omnitel N. V ora) Italia, s.p.a. a Comdata (già Care) s.p.a. con contratto del 5 novembre 2007 (e stipulazione in pari data di un contratto di appalto di servizi, mediante il quale Comdata si impegnava a svolgere, senza soluzione di continuità e per mezzo del ramo ceduto, il servizio di back office per Vodafone, con piena gestione ed organizzazione del personale), alla stregua della sua definizione dall’art. 2112 c.c., come modificato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32 (di adeguamento alla Direttiva 2001/23/CE), avendo la cessionaria proseguito lo svolgimento del servizio attraverso di esso ed i mezzi ed il personale (erroneamente ritenuto non dotato di un particolare know how o comunque di specifica né elevata professionalità, nonostante la prosecuzione dell’attività senza necessità di alcuna formazione) mantenuto pienamente intatto il nesso di interdipendenza funzionale con il servizio svolto, gestito, organizzato e diretto dalla predetta, anche attraverso mezzi (non ceduti, sibbene) messi a disposizione dalla cedente.
2. Esso è infondato.
3. In applicazione dei principi di diritto in materia (con richiamo degli arresti di legittimità a pgg. 4 e 5 della sentenza), la Corte territoriale ha criticamente disaminato (dal primo capoverso di pg. 6 al secondo di pg. 7 della sentenza) il contratto di cessione di ramo stipulato il 5 novembre 2007 tra (le allora denominate) Comdata s.r.l. e Vodafone Omnitel s.p.a. e quindi (dato atto dalle stesse parti della coeva stipulazione di un contratto “per la fornitura da Comdata Care s.r.l.”, società di nuova costituzione interamente partecipata dal Comdata s.p.a., “a Vodafone dei servizi di back office consumer, back office corporate e gestione credito”: così al terzo capoverso di pg. 7 della sentenza), il detto contratto di fornitura appunto del 5 novembre 2007 (dall’ultimo capoverso di pg. 8 al primo capoverso di pg. 9 della sentenza).
In esito ad un tale argomentato scrutinio, la Corte partenopea ha accertato che “le attività cedute non sono in grado di gestirsi autonomamente anche tenuto conto che alcuni dei beni necessari per l’esercizio delle attività in parola non sono stati trasferiti ma sono rimasti di proprietà della società cedente” (così al secondo capoverso di pg. 9 della sentenza): non essendo stati oggetto di cessione, come invece avrebbero potuto e dovuto, (essendo diversi sia dalla banca dati che dai programmi di accesso ad essa) i diversi strumenti informatici utilizzati per l’espletamento delle attività trasferite (come spiegato al primo capoverso di pg. 10 della sentenza).
A conclusione del critico ragionamento argomentativo svolto, essa ha negato l’autonomia funzionale del ramo ceduto concluso, per il mantenimento dei dipendenti trasferiti “in continuo collegamento direttivo, funzionale e di controllo da parte della Vodafone” (così dal sestultimo al penultimo alinea di pg. 11 della sentenza).
4. Secondo il costante insegnamento di questa Corte, un tale accertamento in fatto non è sindacabile in sede di legittimità, posto che la verifica dei presupposti fattuali che consentano l’applicazione o meno del regime previsto dall’art. 2112 c.c. implica una valutazione di merito, ove espressa con motivazione sufficiente e non contraddittoria (Cass. n. 20422 del 2012; Cass. n. 5117 del 2012; Cass. n. 1821 del 2013; Cass. n. 2151 del 2013; Cass. n. 24262 del 2013; Cass. n. 10925 del 2014; Cass. n. 27238 del 2014; Cass. n. 22688 del 2014; Cass. n. 25382 del 2017; di recente, ancora: Cass. n. 2315 del 2020 e Cass. n. 6649 del 2020). D’altro canto, ciò è inevitabile sul rilievo per il quale l’accertamento in concreto dell’insieme degli elementi fattuali idonei o meno a configurare la fattispecie legale tipica del trasferimento di ramo d’azienda, delineata in astratto dall’art. 2112 c.c., comma 5, implica prima una individuazione ed una selezione di circostanze concrete e poi il loro prudente apprezzamento, traducendosi in attività di competenza del giudice di merito, cui non può sostituirsi il giudice di legittimità.
In particolare, non può negarsi che la valutazione, nella concretezza della vicenda storica, dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto e della sua preesistenza è di certo una quaestio facti che opera, come tale, sul piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del merito, per l’accertamento della ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo dell’art. 2112 c.c.. Sicché, come già ritenuto da questa Corte, “spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (testualmente in motivazione: Cass. n. 15661 del 2001, con la copiosa giurisprudenza ivi citata; e così pure: Cass. n. 18247 del 2009 e n. 7838 del 2005).
5. In linea di diritto, questa Corte ha ribadito che, anche nel testo modificato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32, ai fini del trasferimento di ramo d’azienda previsto dall’art. 2112 c.c., rappresenta elemento costitutivo della cessione “l’autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario – il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente al momento della cessione” (sul tema diffusamente: Cass. n. 11247 del 2016; di analogo tenore, assunte in decisione nella medesima udienza pubblica del 26 febbraio 2016: Cass. nn. 9682, 10243, 10352, 10540, 10541, 10542, 10730, 11248 del 2016; tra le successive conformi: Cass. n. 19034 del 2017; Cass. n. 28593 del 2018).
5.1. Tali pronunce sono significative anche nel caso che ci occupa perché hanno confermato la sentenza d’appello che aveva escluso l’operatività dell’art. 2112 c.c., nella sua formulazione successiva al 2003, tra l’altro, per “la mancata cessione dei programmi e dei sistemi informatici che venivano utilizzati dai dipendenti prima dello scorporo”, sancendo poi, nel principio di diritto enunciato in funzione nomofilattica, l’indipendenza “dal coevo contratto di fornitura di servizi che venga contestualmente stipulato tra le parti” (analogamente: Cass. n. 1316 del 2017 e Cass. n. 19034 del 2017, in ipotesi di cessione di un call center in cui i programmi informatici erano rimasti nella proprietà esclusiva della cedente).
5.2. Negli arresti in discorso non si è poi disconosciuta la legittimità di cessioni di rami aziendali “dematerializzati” o “leggeri” dell’impresa, nei quali il fattore personale sia preponderante rispetto ai beni, in conformità con principi, anche comunitari (Corte di Giustizia 11 marzo 1997, Suzen, C-13/95, punto 18; Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, C-127/96, C-229/96, C-74/97, Hernandez Vidal e a., punto 31; Corte di Giustizia, 20 gennaio 2011, C-463/09, CLECE, punto 36), che si sono affermati essenzialmente nel campo della successione negli appalti laddove siano i lavoratori ad invocare l’applicazione dell’art. 2112 c.c., per transitare nell’impresa subentrante, per i quali principi oggetto del trasferimento del ramo può essere anche un gruppo organizzato di dipendenti specificamente e stabilmente assegnati ad un compito comune, senza elementi materiali significativi (in precedenza, tra molte: Cass. n. 17207 del 2002; Cass. n. 206 del 2004; Cass. n. 20422 del 2012; Cass. n. 5678 del 2013; Cass. n. 21917 del 2013; Cass. n. 9957 del 2014); ma si è tuttavia confermato il compito del giudice del merito di verificare quando il gruppo di lavoratori trasferiti sia dotato “di un comune bagaglio di conoscenze, esperienze e capacità tecniche, tale che proprio in virtù di esso sia possibile fornire lo stesso servizio”, così “scongiurando operazioni di trasferimento che si traducano in una mera espulsione di personale, in quanto il ramo ceduto dev’essere dotato di effettive potenzialità commerciali che prescindano dalla struttura cedente dal quale viene estrapolato ed essere in grado di offrire sul mercato ad una platea indistinta di potenziali clienti quello specifico servizio per il quale è organizzato” (in termini Cass. n. 11247/2016 cit.; di recente anche Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017, Ellinika Nafpigeia AE, punto 69, ha sottolineato come l’autonomia del ramo ceduto, dopo il trasferimento, non debba dipendere da scelte economiche effettuate “unilateralmente” da terzi, senza che vi siano garanzie sufficienti che le assicurino l’accesso ai fattori di produzione).
5.3. Nel complesso di pronunce assunte in decisione nel febbraio del 2016, l’elemento costitutivo rappresentato dall’autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto viene letto in reciproca integrazione con il requisito della preesistenza di esso, “nel senso che il ramo ceduto deve avere la capacità di svolgere autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario il servizio o la funzione cui esso risultava finalizzato già nell’ambito dell’impresa cedente anteriormente alla cessione”, perché l’indagine non deve “basarsi sull’organizzazione assunta dal cessionario successivamente alla cessione, eventualmente grazie alle integrazioni determinate da coevi o successivi contratti di appalto, ma all’organizzazione consentita già dalla frazione del preesistente complesso produttivo costituita dal ramo ceduto”.
A conforto si richiama anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo cui l’impiego del termine “conservi” nell’art. 6, par. 1, commi 1 e 4 della direttiva, “implica che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento”, (Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a., punto 34).
Anche dopo le modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32, con l’insieme delle decisioni citate si conferma, dunque, la necessità della preesistenza del ramo al fine di sussumere la vicenda circolatoria nell’alveo dell’art. 2112 c.c.; principio già presente nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 19842 del 2003; Cass. n. 8017 del 2006; Cass. n. 2489 del 2008; Cass. n. 8757 del 2014) – pure sul rilievo che la conservazione dell’identità dell’entità ceduta di matrice comunitaria (da ultimo: Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017, Ellinika Nafpigeia AE, punti 61, 62 e 63) postula che possa conservarsi solo qualcosa che già esista – e costantemente ribadito sino ai giorni nostri con innumerevoli sentenze (tra le più recenti: Cass. n. 30667 del 2019; Cass. n. 6649 del 2020; Cass. n. 18954 del 2020; Cass. n. 20240 del 2020), tanto da assurgere oramai a principio consolidato del diritto vivente, dal quale, per evidenti ragioni dettate anche dall’esigenza di non recare vulnus all’eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, non si ravvisa ragione per discostarsi.
6. Quanto all’istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 citato (già art. 234 del Trattato che istituisce la Comunità Europea), giova premettere che un tale obbligo per il giudice nazionale di ultima istanza viene meno quando non sussista la necessità di una pronuncia pregiudiziale sulla normativa comunitaria, in quanto la questione sollevata sia materialmente identica ad altra, già sottoposta alla Corte in analoga fattispecie, ovvero quando sul problema giuridico esaminato si sia formata una consolidata giurisprudenza di detta Corte (tra molte: Cass. n. 4776 del 2012); similmente, il rinvio pregiudiziale, quantunque obbligatorio per i giudici di ultima istanza, presuppone che la questione interpretativa controversa abbia rilevanza in relazione al thema decidendum sottoposto all’esame del giudice nazionale e alle norme interne che lo disciplinano (Cass. SS.UU. n. 8095 del 2007).
Invero è noto (Cass. SS.UU. n. 20701 del 2013) che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia non costituisce un rimedio giuridico esperibile automaticamente a semplice richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità: infatti, esso ha la funzione di verificare la legittimità di una legge nazionale rispetto al diritto dell’Unione Europea e se la normativa interna sia pienamente rispettosa dei diritti fondamentali della persona, quali risultanti dall’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo e recepiti dal Trattato sull’Unione Europea; sicché il giudice, effettuato tale riscontro, non è obbligato a disporre il rinvio solo perché proveniente da istanza di parte (tra le altre: Cass. n. 6862 del 2014; Cass. n. 13603 del 2011).
D’altro canto, è incontrastato l’enunciato, più volte ribadito da questa Corte a Sezioni unite, secondo cui la Corte di Giustizia Europea, nell’esercizio del potere di interpretazione di cui all’art. 234 del Trattato istitutivo della Comunità economica Europea, non operi come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale, in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale (Cass. SS.UU. n. 30301 del 2017; in precedenza: Cass. SS.UU. nn. 16886/2013, 2403/14, 2242/15, 23460/15, 23461/15, 10501/16 e 14043/16).
Pertanto, il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all’obbligo di rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità Europee la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in presenza di un “acte clair” che, in ragione dell’esistenza di precedenti pronunce della Corte ovvero dell’evidenza dell’interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (Corte di giustizia, 6 ottobre 1982, causa C-283/81, Cilfit; e, per la giurisprudenza di questa Corte, tra le altre: Cass. SS.UU. n. 12067 del 2007; Cass. n. 22103 del 2007; Cass. n. 4776 del 2012; Cass. n. 26924 del 2013).
6.1. Ciò premesso, non reputa questo Collegio che le articolate difese dell’istante introducano nuovi elementi di valutazione, pertinenti alla materia del contendere, tali da giustificare un rinvio alla Corte di Giustizia che già si è espressa, più volte, sulle problematiche di diritto sottese alle enunciate richieste ai sensi dell’art. 267 TFUE.
Ed infatti, i quesiti di compatibilità dell’interpretazione di questa Corte in materia con la disciplina dell’Unione Europea attengono all’essenziale rilevanza, piuttosto che del mantenimento di una preesistente “entità autonoma produttiva”, dello svolgimento di una medesima attività economica, variamente declinato (quesiti sub A, C a pgg. 28 e 30 del ricorso), con particolare riguardo allo svolgimento di attività di back office (come declinate sub B a pg. 29 del ricorso).
6.2. In proposito, deve osservarsi che in passato la giurisprudenza della Corte di Giustizia (Corte di Giustizia, 18 marzo 1986, C-24/85, Spijkers, punti 11 e 12) ha adottato un concetto di entità economica per delineare la cd. “unità minima di impresa” funzionale alla nozione di trasferimento d’azienda, giudicando come criterio decisivo il “mantenimento dell’identità economica trasferita”, al fine di non determinare una mera cessione di elementi patrimoniali con l’esclusione del passaggio dei rapporti di lavoro, ma successivamente (v. Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C 13/95, Silzen, punto 14) ha iniziato a valorizzare – come si è detto – una valutazione sistematico-complessiva di indici da cui desumere l’esistenza di una entità economica organizzata (mezzi di gestione, organizzazione del lavoro, personale).
Tale scelta giurisprudenziale fu adottata dal legislatore comunitario, in modo sistematico ed organico, appunto nella direttiva 2001/23/CE e va qui ribadito che per l’ordinamento comunitario il trasferimento deve riguardare una entità economica organizzata in modo stabile (la cui attività non si limiti all’esercizio di un’opera determinata), la quale sia costituita da qualsiasi complesso organizzato di persone e di elementi che consenta l’esercizio di una attività economica finalizzata al perseguimento di uno specifico obiettivo e sufficientemente strutturata ed autonoma, di talché l’entità economica deve, in particolare, godere anteriormente al trasferimento di una autonomia funzionale sufficiente (per tutte: Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a., punto 34).
Secondo la CGUE, il requisito della preesistenza sta, quindi, a indicare che il complesso organizzativo deve essere già concretamente preordinato presso il cedente all’esercizio dell’attività economica, in una sintesi tra elemento strutturale e profilo funzionale.
Per la Corte di Giustizia è escluso che il legame tra autonomia funzionale del ramo di azienda ceduto e la materialità dello stesso possa derivare (soggettivamente) solo dalla qualificazione fattane dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento, consentendo ai soggetti stipulanti il negozio traslativo la libera definizione della fattispecie cui la norma inderogabile si applica, perché ciò sarebbe in contrasto con la disciplina comunitaria sulla inderogabilità dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di azienda.
L’atto di identificazione da parte del cedente, coerentemente con l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di questa Corte, deve quindi avere un contenuto accertativo e non costitutivo, nel senso che la cessione presuppone l’individuazione del ramo nel contesto aziendale, ma non la sua creazione.
6.3. Relativamente, poi, alla tematica dell’identità dell’azienda, dopo il trasferimento, con la sentenza del 12 febbraio 2009 (Corte di Giustizia, causa C466/07, Klarenberg, punti da 45 a 48) è stato precisato che l’art. 1 n. 1 lett. b) della direttiva 2001/23/CE definisce esso stesso l’identità di una entità economica facendo riferimento a un “insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria” e ponendo così l’accento non solo sull’elemento organizzativo dell’entità trasferita, ma anche su quello del proseguimento della sua attività economica.
E’ stato affermato che la condizione relativa al mantenimento dell’identità di una entità economica ai sensi della Direttiva 2001/23 va interpretata prendendo in considerazione i due elementi, quali previsti dall’art. 1 n. 1 lett. b), della direttiva 2001/23 che, considerati nel loro insieme, costituiscono tale identità nonché l’obiettivo della protezione dei lavoratori contemplato da tale direttiva. Il mantenimento di un siffatto nesso funzionale tra i vari fattori trasferiti consente al cessionario di utilizzare questi ultimi, anche se essi sono integrati, dopo il trasferimento, in una nuova diversa struttura organizzativa al fine di continuare un’attività economica identica o analoga.
Parimenti, in altra sentenza (Corte di Giustizia, 27 febbraio 2020, causa C298/18, Grafe, punto 26) è stato ribadito che il fatto, per una entità economica, di rilevare l’attività economica di un’altra non consente di concludere nel senso che sia stata conservata l’identità di quest’ultima, non potendo l’identità di siffatta entità essere ridotta all’attività che le è affidata. L’identità emerge, secondo la CGUE, da una pluralità di elementi inscindibili tra loro, quali il personale che la compone, i suoi quadri direttivi, l’organizzazione del lavoro, i metodi di gestione ed eventualmente anche i mezzi di gestione a sua disposizione (anche Corte di Giustizia, 20 luglio 2017, causa C-416/16, Piscarreta Ricardo, punto 43), nonché il trasferimento o meno della clientela, il grado di somiglianza delle attività esercitate prima e dopo il trasferimento e la durata di una eventuale sospensione di queste ultime. Il tutto in un’ottica secondo la quale tali elementi costituiscono soltanto aspetti parziali della valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere considerati isolatamente (Corte di Giustizia, 26 novembre 2015, causa C-509/14, Administrador de Infraestructuras Ferroviarias, punto 32).
La Corte di Giustizia ha, quindi, sottolineato che spetta sempre al giudice del rinvio valutare se, all’esito dell’accertamento del procedimento principale, l’identità dell’entità trasferita sia stata conservata (per tutte Corte di Giustizia, 20 luglio 2017, causa C-416/16, Piscarreta Ricardo, punto 45; Corte di Giustizia, 27 febbraio 2020, causa C-298/18, Grafe, punto 36), in virtù, come dinanzi più volte evidenziato, di un giudizio globale del complesso delle circostanze che caratterizzano l’operazione.
6.4. Dato atto degli orientamenti della Corte di Giustizia in materia (che devono ritenersi idonei, per la loro chiarezza, a risolvere i quesiti di compatibilità avanzati dalle società ricorrenti), né essendo ravvisabili ulteriori elementi che impongano l’attivazione di un nuovo rinvio pregiudiziale, perché le problematiche di diritto prospettate non si pongono in contrasto con la normativa comunitaria ma richiedono unicamente una valutazione di fatto degli elementi da parte del giudice nazionale, vanno disattese tutte le richieste di rinvio alla Corte di Giustizia, “non esistendo alcun diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale ogni qualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive, bastando che le ragioni del diniego siano espresse (Corte EDU, caso Ullens de Schooten & Rezabek c. Belgio) ovvero implicite laddove la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata (Corte EDU, caso Wind Telecomunicazioni vs. Italia, p.36)” (in termini: Cass. Sez. Un. 14042 del 2016; conf.: Cass. n. 14828 del 2018).
6.5. Quanto, infine, al quesito relativo all’esclusione di esclusione dall’ambito di applicazione della Direttiva 2001/23/CE dell’interpretazione di questa Corte del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 3, anche in relazione all’art. 2112 c.c., comma 6, in riferimento ad un gruppo organizzato di lavoratori (come declinato sub D a pg. 30 del ricorso), al di là del richiamo della giurisprudenza citata al superiore p.to 5.2. (cui adde: Cass. n. 24972 del 2016, che, al p.to 3 in motivazione, ha chiarito come la prima norma debba essere interpretata in modo coerente con l’art. 2112 c.c., senza contraddizione con la giurisprudenza in materia della CGUE), esso è irrilevante rispetto al percorso decisionale osservato dalla Corte territoriale, esclusivamente limitatasi “da ultimo… “all’esclusione, con accertamento in fatto insindacabile, nei dipendenti ceduti, quale elemento di puro completamento argomentativo (“neanche emerso…”) di un “particolare ed esclusivo bagaglio di conoscenze e competenze (cd. know-how) funzionale allo svolgimento di quelle determinate attività” (così al secondo capoverso di pg. 12 della sentenza).
7. Dalle superiori argomentazioni discende allora il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza; con raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna Vodafone Italia s.p.a. alla rifusione, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 10.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 16 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2021