Interpretazione del contratto, criteri, interpretazione oggettiva, principio di gerarchia

Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.29250 del 20/10/2021

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Interpretazione del contratto, criteri, interpretazione oggettiva, principio di gerarchia

Le regole legali di ermeneutica contrattuale sono governate da un principio di gerarchia, in forza del quale i criteri degli artt. 1362 e 1363 c.c. prevalgono su quelli integrativi degli artt. 1365-1371 c.c., posto che la determinazione oggettiva del significato da attribuire alla dichiarazione non ha ragion d’essere quando la ricerca soggettiva conduca ad un utile risultato. Il che è maggiormente vero, in particolare, con riguardo all’art. 1371 c.c., giacché detto criterio di interpretazione oggettiva, posto dal codice quale ultimo presidio dell’interpretazione, in tanto si giustifica in quanto “nonostante l’applicazione delle norme contenute in questo capo”, il significato del testo contrattuale “rimanga oscuro”.

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4468/2017 proposto da:

Valetudo S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, B.A., B.V., D.D.L., M.S., elettivamente domiciliati in Roma, Via Pompeo Magno n. 1, presso lo studio dell’avvocato Zito Giuseppe Fabrizio, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Rampinelli Roberto, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

S.M., elettivamente domiciliato in Roma, Lungotevere dei Mellini n. 7, presso lo studio dell’avvocato Silvetti Massimiliano, rappresentato e difeso dagli avvocati Frangini Alfredo, Vozza Lia, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

Fadesco S.r.l.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 3911/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 20/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/06/2021 dal cons. Dr. DI MARZIO MAURO.

FATTI DI CAUSA

1. – Con sentenza del 20 ottobre 2016 la Corte d’appello di Milano, provvedendo in riforma di sentenza resa tra le parti dal locale Tribunale, ha condannato Valetudo S.r.l., B.V., B.A., D.D.L. e M.S. al pagamento, in favore di FA.DES.CO. S.r.l., a titolo di risarcimento del danno, di una somma pari alla differenza tra quanto dovuto in forza di un contratto di licenza intercorso tra le due società, FA.DES.CO. S.r.l. licenziante e Valetudo S.r.l. licenziataria, nella misura di Euro 250.000,00, e quanto versato dalla licenziataria a titolo di royalties maturate per gli anni 2008-2012, oltre interessi legali dalla domanda al saldo.

2. – Investita dell’appello proposto da S.M., originario attore, quale socio di FA.DES.CO. S.r.l., nei confronti di Valetudo S.r.l., B.V., B.A., D.D.L. e M.S., nonché di FA.DES.CO. S.r.l., la Corte territoriale ha osservato: “7. Questa corte ritiene di dover aderire alla lettura e interpretazione del Contratto di Licenza… proposte dall’odierno appellante, che dal combinato disposto delle clausole sub 8.1 e D.4 evince l’esistenza di un importo minima garantito previsto annualmente in favore di Fadesco. Dette clausole, infatti, fanno esplicito riferimento, rispettivamente, alla percentuale di royalties dovute da Valetudo in favore di Fadesco da calcolarsi sul fatturato annuo… e all’impegno, assunto da Valetudo, di conseguire un ben determinato fatturato minimo… Posto che i canoni ermeneutici previsti dall’ordinamento per l’interpretazione dei contratti (in particolare gli artt. 1362 e 1363 c.c.) non consentono di limitarsi al dato letterale delle parole, ma impongono di fare riferimento anche al senso che risulta dal complesso dell’atto, interpretando le clausole le une per mezzo delle altre, si osserva come l’impegno a conseguire un fatturato minimo costituisse un vero e proprio obbligo, visto anche il successivo traguardo minima di Euro 1.000.000 da raggiungere entro l’anno 2011. Se, dunque, Valetudo doveva fatturare almeno Euro 500,000 per l’anno 2008, per tale anno di conseguenza avrebbe dovuto corrispondere a Fadesco almeno Euro 50.000 a titolo di royalties, pari al 10% di detto fatturato minimo. Peraltro, una simile conclusione, oltre ad essere l’unica in grado di consentire di realizzare l’equo contemperamento degli interessi delle parti (art. 1371 c.c.), vista anche la relazione di controllo intercorrente tra le due società, non può che ritenersi ulteriormente avvalorata dalla missiva del 6.4.2010… in cui Valetudo si dichiara “non più in grado di onorare il proprio impegno a conseguire i minimi annui di fatturato previsti dal contratto in oggetto”, di fatto dimostrandosi ben consapevole del proprio onere. 8. D’altra parte, interpretando diversamente il contratto, risulterebbe scarsamente significativa la clausola… che attribuisce alla (sola) licenziataria, Valetudo, una facoltà di recesso in caso di mancato raggiungimento del fatturato minimo annualmente previsto. Detta facoltà, invece, troverebbe agevole e ragionevole spiegazione considerando, per un verso, Fadesco comunque garantita da un doveroso pagamento di royalties fissato a un livello minimo (Euro 50.000 su 500.000) e, per altro verso, Valetudo legittimata a recedere in caso di mancato raggiungimento dei previsti obiettivi minimi di fatturato, che comunque la obbligherebbe al versamento di un importo minima a titolo di royalties di almeno Euro 50.000. Con il che, pure, si realizzerebbe l’equo contemperamento degli interessi delle parti ex art. 1371 c.c..

3. – Per la cassazione della sentenza Valetudo S.r.l., B.V., B.A., D.D.L. e M.S. propongono ricorso affidato a due mezzi, illustrati da memoria. S.M. resiste con controricorso e deposita memoria. FA.DES.CO. S.r.l. non svolge difese in questa sede.

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. – Il ricorso contiene due motivi.

4.1. – Il primo mezzo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. ed è svolto nei termini che seguono: “Il Contratto di licenza 24.10.2007… concluso tra FA. DES. CO. S.r.l. e Valetudo S.r.l. prevedeva che la licenziataria (Valetudo S.r.l.) avrebbe prodotto e commercializzato articoli di dermocosmesi ottenuti sulla base di specifiche ricette di proprietà della Licenziante (FA.DES.CO. S.r.l.) verso il pagamento di un importo pari al 10% del fatturato realizzato attraverso la vendita degli indicati articoli, a titolo di royalties. In particolare, la clausola B. ROYALTIES dell’indicato contratto prevedeva testualmente: “B.1 La Licenziataria verserà alla Licenziante, a titolo di royalties, un importo pari al 10% (dieci per cento) del fatturato… relativo alla vendita degli articoli prodotti sulla base delle ricette licenziate con il presente contratto”… Con la successiva clausola D. MINIMO FATTURATO ANNUO si stabiliva testualmente: “D.1 La Licenziataria si impegna a conseguire, con la vendita degli articoli a marchio Fa.Des.Co. un fatturato minimo di 500.000 Euro per l’anno 2008. D.2 Per gli anni successivi al 2008 il fatturato contrattuale minimo verrà fissato di anno in anno, in modo da raggiungere entro l’anno 2011 il traguardo minimo di Euro 1.000.000… D.3 Nel caso in cui in un anno non venga raggiunto il fatturato minimo prestabilito la Licenziataria avrà facoltà di recedere dal contratto con semplice comunicazione a mezzo lettera raccomandata con ricevuta di ritorno da effettuarsi entro il 28 febbraio dell’anno successivo… D.4 Nel caso di disdetta del contratto la Licenziataria si impegna a restituire le ricette, cessando contestualmente la produzione e la commercializzazione dei relativi articoli. 0.4 Nel caso di disdetta dal contratto la Licenziataria si impegna a cessare l’utilizzo del marchio Fa.Des.Co.”… La interpretazione delle indicate clausole operata dalla Corte di appello è errata ed illegittima per violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c.. Invero, come risulta dalle parole e dalle espressioni letterali utilizzate dai contraenti, il Contratto di licenza de quo non prevede alcun “minimo garantito”.

Infatti, la clausola D.1 non prevede che Valetudo S.r.l. debba corrispondere un minimo garantito annuo a FA.DES.CO S.r.l., ma prevede, a carico della medesima Valetudo S.r.l., esclusivamente un impegno a conseguire un fatturato minimo di Euro 500.000,00 solo per l’anno 2008. Tanto ciò è vero che non è prevista alcuna sanzione contrattuale a carico di Valetudo S.r.l. in caso di mancato raggiungimento del fatturato minimo per l’anno 2008: il mancato conseguimento dell’obiettivo non comporta l’obbligo per Valetudo S.r.l. del pagamento di un minimo garantito (quasi che fosse una penale) bensì la facoltà di recesso dal contratto. D’altro canto se le Parti contrattuali avessero inteso prevedere la corresponsione di un minimo garantito l’avrebbero certamente contemplato, con l’espresso richiamo nella clausola 8.1 della clausola D. Invece, le parti, si ribadisce, hanno inteso commisurare le royalties dovute esclusivamente al fatturato effettivo: ciò risulta chiaramente dal tenore delle clausole 8. e C. del più volte citato Contratto di licenza stipulato inter partes e dalla comune intenzione delle parti. In merito all’interpretazione dei contratti ha avuto modo di esprimersi più volte la giurisprudenza di codesta Corte suprema… Cass., Sez. III civ., 10/6/2015, n. 12082; Cass., Sez. I civ., 17/12/2012, n. 23208… Cass., Sez. III civ., 26/5/2016, n. 10896).

In aderenza agli indicati principi, la Corte di appello avrebbe dovuto confermare la sentenza di primo grado, atteso che, dal significato letterale delle parole contenute nel richiamato Contratto di licenza, non vi è alcun riferimento all’obbligo di aumento da parte della licenziataria di un ammontare minimo di royalties, la cui misura, anzi, è espressamente parametrata al fatturato… Tuttavia, la Corte di appello ha ritenuto di dover ulteriormente interpretare il contenuto delle richiamate clausole per introdurre nel Contratto di licenza la previsione di un “minimo garantito”, nella convinzione che tale operazione ermeneutica fosse la sola “in grado di consentire di realizzare l’equo contemperamento degli interessi delle parti”… Altro motivo che avvalora la tesi secondo cui il Contratto di licenza è stato interpretato dalla Corte di appello in violazione degli artt. 1364 e 1363 c.c. e che, in effetti, non prevede il pagamento di un “minimo garantito”, è costituito dalla disposizione secondo cui il fatturato minimo che Valetudo S.r.l. si è impegnata a conseguire era previsto solo per l’anno 2008. Per gli anni successivi “il fatturato contrattuale minimo verrà fissato di anno in anno”…, cosi svincolando il fatturato stesso dall’importo di Euro 500.000,00 e rimettendolo alla determinazione, evidentemente congiunta, dei contraenti. Tale previsione non avrebbe senso se si ritenesse, come erroneamente operato la Corte di appello, che Valetudo S.r.l. fosse obbligata a corrispondere a FA.DES.CO. S.r.l. un importo “minimo garantito” annuale calcolata sulla base di Euro 500.000,00".

4.2. – Il secondo mezzo denuncia: “Violazione o falsa applicazione degli art. 2476 e 2497 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Secondo i ricorrenti la illegittima applicazione, da parte della Corte territoriale, delle regole ermeneutiche approntate dall’ordinamento per la interpretazione del Contratto di licenza avrebbe comportato un’altrettanta illegittima applicazione degli artt. 2476 e 2497 c.c..

5. – La società ricorrente ha formulato eccezione di inammissibilità del controricorso per difetto di procura, evidenziando che essa, collocata in calce all’atto, mancava dell’indicazione del nominativo dei difensori officiati dallo S.M..

L’eccezione va respinta.

Non v’e’ dubbio che la procura alle liti debba indicare il nominativo del procuratore al quale essa è conferita. Tuttavia, nella pratica, non di rado si presentano casi di procure nelle quali l’identificazione del difensore è omessa.

In proposito, la giurisprudenza di questa Corte manifesta da tempo un atteggiamento comprensibilmente elastico ed antiformalistico, ritenendo che la mancanza del nome del difensore nella procura ad litem non determini la nullità dell’atto quando, avuto riguardo agli altri riferimenti in esso contenuti ed al contesto in cui la procura è inserita, non possa sorgere alcun ragionevole dubbio sulla individuazione del difensore e sulla legittimazione del medesimo alle attività processuali da lui compiute. Sono state dunque giudicate valide, ad esempio:

-) la procura apposta nella copia notificata di un decreto ingiuntivo, priva dell’indicazione del difensore, sul rilievo che egli era chiaramente individuabile dal nominativo dell’avvocato che aveva autenticato la sottoscrizione della procura, contenente l’elezione di domicilio presso il suo studio, e che, successivamente, si era effettivamente costituito in giudizio, depositando tale copia notificata munita della procura (Cass. 14 aprile 2010, n. 8903);

-) la procura mancante dell’indicazione del difensore, risultante però dalla firma apposta per la certificazione dell’autenticità della sottoscrizione del conferente, nonché dall’indicazione del procuratore risultante dall’intestazione dell’atto (Cass. 10 aprile 2000, n. 4495, e già Cass. 8 ottobre 1970, n. 1874).

Nel caso di specie, se è vero che la procura in calce al controricorso manca dell’indicazione dei difensori, è altrettanto vero che essa è sottoscritta per autentica dall’avvocato Alfredo Frangini, che è indicato come difensore nell’intestazione dell’atto unitamente all’avvocato Lia Vozza, di guisa che non v’e’ ragione di dubitare che la procura, nonostante la materiale mancanza dell’indicazione dei nomi, sia in effetti riferita a tali due professionisti.

6. – Il ricorso va accolto.

6.1. – E’ fondato il primo motivo.

6.1.1. – L’art. 1362 c.c. stabilisce al comma 1 che, nell’interpretare il contratto, “si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole”. Ciò sta a significare che lo scrutinio della lettera non è mai esaustivo e, cioè, che il dato letterale, pur di fondamentale rilievo, non può essere, da solo, decisivo, atteso che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito esclusivamente al termine del processo interpretativo che deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un’espressione prima facie chiara può non apparire più tale se collegata alle altre contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti (p. es. Cass. 26 luglio 2019, n. 20294; Cass. 1 dicembre 2016, n. 24560; Cass. 11 gennaio 2006, n. 261). In sintesi, può dirsi, come questa Corte ha talora espressamente affermato, che l’ordinamento non accoglie il principio riassunto nel latinetto in claris non fit interpretatio (p. es. Cass. 1 dicembre 2015, n. 24421).

La lettera, da sola, dunque, non basta: non basta il testo, ma occorre considerare il contesto. E però è cosa ovvia che la ricerca dell’interpretazione, nel quadro della verifica dell’intenzione dei contraenti, alla luce degli elementi testuali ed extratestuali considerati, non può tradursi nella totale pretermissione del dato letterale, la quale pretermissione, tenendo in non cale il precetto dettato dalla norma, che proprio dal dato letterale impone di partire, consenta al giudice di attribuire alla previsione contrattuale un significato esorbitante rispetto all’orizzonte delimitato, sia pur nella sua massima latitudine, dal significante: nel qual caso il giudice, lungi dall’interpretare, finisce per creare, attraverso il distorto impiego delle regole di ermeneutica, un precetto contrattuale fondato non sulla lettera, quantunque intesa nella sua massima potenzialità di significato, ma esclusivamente su una ipotizzata intenzione dei contraenti da egli ricostruita secondo la propria soggettiva opinione, così da venir meno al dovere d’interpretazione secondo i canoni legali, in favore di un’esegesi svincolata da regole conoscibili, nel senso di verificabili ex post attraverso il riscontro del testo e degli altri elementi disponibili (v. in questo senso Cass. 25 novembre 2019, n. 30686).

Insomma, nell’interpretazione, che è attività riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni ermeneutici o vizio di motivazione, occorre pur sempre prestare ossequio al carattere prioritario dell’elemento letterale, sebbene esso, come si è visto, non possa essere inteso in senso assoluto, ma debba in ogni caso tener conto degli altri elementi di cui si è detto (v. p. es. la già citata Cass. 26 luglio 2019, n. 20294).

6.1.2. – Nel caso in esame, la lettura offerta dalla Corte territoriale integra una palese violazione dell’art. 1362 c.c., laddove, a fronte di un dato testuale che non contiene il benché minimo riferimento ad un’obbligazione di pagamento di un “minimo garantito”, a carico della licenziataria, proietta sull’esegesi del contratto il proprio personale apprezzamento su ciò che essa ravvisa quale “equo contemperamento degli interessi delle parti”.

La Corte d’appello, quindi, ha attribuito al combinato disposto delle due clausole contrattuali prima ricordate un significato, quello secondo cui esse avrebbero previsto il pagamento di un “minimo garantito” rapportato ai fatturato, privo di qualunque base testuale.

6.1.3. – Tale operazione, per di più, è stata compiuta in applicazione di un criterio ermeneutico, quello desunto dall’art. 1371 c.c., che la Corte d’appello non poteva affatto applicare.

E’ cosa nota, in generale, che le regole legali di ermeneutica contrattuale sono governate da un principio di gerarchia, in forza del quale i criteri degli artt. 1362 e 1363 c.c. prevalgono su quelli integrativi degli artt. 1365-1371 c.c., posto che la determinazione oggettiva del significato da attribuire alla dichiarazione non ha ragion d’essere quando la ricerca soggettiva conduca ad un utile risultato (Cass. 24 gennaio 2012, n. 925). Il che è maggiormente vero, in particolare, con riguardo all’art. 1371 c.c., giacché detto criterio di interpretazione oggettiva, posto dal codice quale ultimo presidio dell’interpretazione, in tanto si giustifica in quanto “nonostante l’applicazione delle norme contenute in questo capo”, il significato del testo contrattuale “rimanga oscuro” (v. p. es. Cass. 6 novembre 2008, n. 26626).

In questo caso, viceversa, lungi dall’impiegare la clausola finale di interpretazione oggettiva a fronte di un testo contrattuale altrimenti non decidibile, la Corte d’appello ha usato l’art. 1371 c.c. come criterio guida per la formulazione, a prescindere dal testo, di un’interpretazione che ad essa Corte paresse sostanzialmente equilibrato.

Operazione, questa, inibita al giudice, che non ha il compito di stabilire in sede di interpretazione quale regolamentazione sia più appropriata secondo il suo personale punto di vista – altra cosa è l’equità integrativa di cui all’art. 1374 c.c., che non ha nulla a che vedere con la vicenda in esame -, ma di accertare quale fosse la volontà delle parti.

6.1.4. – Nella sentenza impugnata, poi, l’interpretazione patrocinata trova appoggio altresì nel criterio di interpretazione sistematica, ossia nella previsione dettata dall’art. 1363 c.p.c., secondo cui le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto. Sicché – ha in breve ragionato la Corte d’appello – sarebbe giocoforza ritenere la pattuizione del “minimo garantito”, non potendosi altrimenti comprendere, secondo la sentenza impugnata, la previsione del diritto di recesso riconosciuto alla licenziataria in caso di omesso conseguimento del risultato convenzionalmente previsto in termini di fatturato. In altri termini, il sinallagma si sarebbe atteggiato nel modo che segue, secondo la Corte d’appello: la licenziataria avrebbe avuto da un lato il diritto di recesso, la licenziante dall’altro lato il diritto al “minimo garantito”.

Ma, l’interpretazione delle clausole le une per mezzo delle altre ha da essere svolta in relazione alla pattuizione contrattuale considerata nel suo complesso (oltre alle decisioni già citatz v. p. es. Cass. 15 luglio 2016, n. 14432), senza che sia data al giudice la facoltà di omettere arbitrariamente di considerare altre clausole, quantunque, rilevanti ai fini dell’interpretazione.

Ora, la Corte d’appello, nell’affermare che il “minimo garantito”, rapportato al fatturato, andava di pari passo con il diritto di recesso della licenziataria, ha omesso di considerare che le parti neppure avevano pattuito le successive soglie di fatturato, successivamente al primo anno e fino al 2010, riservandosi di stabilire anno per anno l’entità del fatturato da raggiungere: sicché, al di là dell’assenza di un dato letterale che, nel quadro di applicazione dell’art. 1362 c.c., consentisse l’interpretazione prescelta, la Corte territoriale, in ossequio all’art. 1363 c.c., avrebbe dovuto comunque farsi carico di spiegare come la previsione del minimo garantito rapportato al fatturato potesse armonizzarsi con il fatto che il fatturato, nell’arco temporale considerato, non fosse stato neppure determinato.

6.1.5. – Quanto poi alla missiva in cui la licenziataria aveva dichiarato di essere “non più in grado di onorare il proprio impegno a conseguire i minimi annui di fatturato previsti dal contratto in oggetto”, la motivazione addotta dalla Corte d’appello è incomprensibile: è un fatto che il contratto prevedesse un progressivo aumento del fatturato, la qual cosa è lampante e non oggetto di discussione tra le parti, e la missiva non ribadisce null’altro che quanto emergente dal testo contrattuale; è un incolmabile salto logico l’affermazione della Corte d’appello secondo cui il riconoscimento della licenziataria di non essere in grado di raggiungere la soglia del fatturato consentisse di desumere, per insondabili ragioni, il suo impegno a pagare il “minimo garantito”.

6.2. – Il secondo mezzo è assorbito.

7. – La sentenza è cassata in relazione al motivo accolto e rinviata alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione, che si atterrà a quanto dianzi indicato e provvederà anche sulle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2021

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