Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.30458 del 28/10/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12521/2019 proposto da:

P.A., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato UMBERTO BELLOMARE;

– ricorrente –

contro

SICILY BY CAR S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEL GESU’ N. 46, presso lo studio dell’avvocato CALOGERO VALERIO SCIMEMI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARCELLA LOMBARDO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 233/2019 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 05/03/2019 R.G.N. 178/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/02/2021 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA.

RILEVATO

Che:

1. la Corte di Appello di Palermo, con sentenza del 5 marzo 2019, in riforma della pronuncia di primo grado pronunciata all’esito di un giudizio ex lege n. 92 del 2012, ha rigettato la domanda di P.A. volta ad accertare l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato il 3 gennaio 2017 da SICILY BY CAR spa;

2. la Corte – in estrema sintesi e per quanto qui ancora rileva – ha rivalutato il materiale istruttorio già acquisito in prime cure in relazione ai tre addebiti contestati alla lavoratrice ed ha ritenuto che “i fatti accertati e soprattutto il primo, per il suo carattere intenzionale volto ad alterare, per rimediare a mancate tempestive registrazioni contabili, la regolare tenuta della stessa contabilità aziendale, unitariamente valutati integrano gli estremi della giusta causa di recesso”, dovendosi altresì escludersi – secondo la Corte – che il CCNL applicato al rapporto configuri per tali tipi di mancanze una sanzione di tipo conservativo (la circostanza è stata solo adombrata dalla difesa della lavoratrice, senza tuttavia indicazione specifica della relativa norma collettiva) dovendosi avere riguardo, quindi, al concetto generale di giusta causa fissato dalla legge”;

3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente con 3 motivi, cui ha resistito la società con controricorso.

CONSIDERATO

Che:

1. i motivi possono essere come di seguito sintetizzati, secondo le rubriche articolate dalla stessa parte ricorrente;

il primo denuncia: “violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012 e della L. n. 604 del 1966, art. 8, così come sostituito dalla L. n. 108 del 1990, art. 2, nonché degli accordi collettivi nazionali di lavoro, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”; si sostiene l’insussistenza del fatto contestato e la punibilità, in ogni caso, con sanzione conservativa; si deduce che la condotta ascritta non sarebbe riconducibile all’art. 55 del CCNL per i dipendenti da imprese esercenti autorimesse che prevede le ipotesi di licenziamento disciplinare;

il secondo motivo lamenta “violazione e falsa applicazione degli artt. 2104 e 2106 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, sostenendo che, “anche nel caso in cui si ritenessero fondate le condotte contestate l’oggettiva modesta rilevanza disciplinare delle stesse avrebbe dovuto originare una sanzione di minore gravità”;

il terzo mezzo denuncia: “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, criticando la sentenza impugnata per aver “omesso di disaminare le specifiche inequivoche dichiarazioni testimoniali”, lamentando altresì “l’assoluta incoerenza del percorso logico” seguito dalla Corte territoriale;

2. le censure, per come formulate, sono tutte palesemente inammissibili;

invero il ricorso per cassazione, in quanto ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera chiara ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione (tra molte: Cass. n. 9228 del 2016); il rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione – da intendere alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – comporta, fra l’altro, l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito (Cass. n. 23675 del 2013), in quanto è solo l’esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. n. 25044 del 2013; Cass. n. 17739 del 2011; Cass. n. 7891 del 2007; Cass. n. 7882 del 2006; Cass. n. 3941 del 2002); l’osservanza del canone della chiarezza e della sinteticità espositiva rappresenta l’adempimento di un preciso dovere processuale il cui mancato rispetto, da parte del ricorrente per cassazione, lo espone al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione (Cass. n. 19100 del 2006; Cass. n. 17178 del 2014 e giurisprudenza ivi richiamata);

in particolare le censure, contenute nel primo e secondo motivo, di violazione e falsa applicazione di legge, così come di contratto collettivo nazionale di lavoro (rispetto al quale neanche si specifica dove e quando sia stato integralmente depositato), trascurano di considerare che il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012); in realtà il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione posta dal giudice a fondamento della decisione, per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte (in caso positivo vertendosi in controversia sulla “lettura” della norma stessa), non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (Cass. n. 26307 del 2014; Cass. n. 22348 del 2007); sicché il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti;

nella specie., nonostante l’invocazione solo formale di violazioni o false applicazioni di norme, nella sostanza le censure investono l’accertamento dei fatti contestati alla P. così come compiuto dai giudici d’appello ed il loro apprezzamento in ordine alla sussistenza di una giusta causa di licenziamento ed alla proporzionalità della sanzione espulsiva; tali accertamenti non sono suscettibili di sindacato in questa sede di legittimità sotto la prospettata forma della violazione di legge, non avendo parte ricorrente neanche indicato quale sarebbe la norma collettiva che prevederebbe la riconducibilità della condotta ascritta alla làvoratrice nell’ambito di una sanzione conservativa;

infine, nel terzo mezzo in cui si invoca l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si trascura del tutto di considerare l’applicabilità al giudizio della formulazione novellata nel 2012, così come rigorosamente interpretata dalle Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014, con principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici), dei cui enunciati parte ricorrente non tiene alcun conto, in particolare mancando di enucleare il “fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere realmente decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”, considerato altresì che “l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie”;

ancora di recente le Sezioni unite hanno ribadito l’inammissibilità di censure che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, così travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 c.p.c., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950 del 2020);

3. conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;

occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 5.250,00, oltre esborsi pari ad Euro 200,00, spese generali al 15% ed accessori secondo legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2021

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