Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.30748 del 29/10/2021

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22752-2015 proposto da:

S.C., + ALTRI OMESSI, tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 25, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO ERRANTE, rappresentati e difesi dall’avvocato MASSIMO BARRILE;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI TERMINI IMERESE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FRANCESCO SIACCI 39, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO SINESIO, rappresentato e difeso dall’avvocato LORENZO MARIA DENTICI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 267/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 01/04/2015 R.G.N. 632/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/03/2021 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’.

RITENUTO

CHE:

1. la Corte d’Appello di Palermo, in riforma della sentenza del Tribunale di Termini Imerese, ha rigettato la domanda con la quale vari dipendenti del Comune di quest’ultima città avevano chiesto l’accertamento dell’illegittimità del recupero di somme da essi percepite in forza di Contratti Collettivi Integrativi (di seguito CCI) del personale dell’ente, ritenuti illegittimi dal datore di lavoro;

la Corte territoriale premetteva che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40 anche nella formulazione previgente a quella di cui alla c.d. Riforma Brunetta (D.Lgs. n. 150 del 2009), doveva essere ritenuta norma imperativa tale da determinare l’invalidità delle contrattazioni concluse in contrasto con le procedure previste dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (di seguito CCNL);

rilevava poi come la Ragioneria Generale dello Stato, in sede di ispezione, avesse accertato che i CCI interessati non erano stati trasmessi al collegio dei revisori dei conti per la verifica della compatibilità economico-finanziaria, né erano stati trasmessi all’Aran;

in ogni caso, la Corte riteneva che sussistessero profili di contrasto tra i predetti CCI, in relazione alle indennità oggetto di causa, rispetto ai CCNL di riferimento, con particolare riguardo, quanto all’indennità di rischio, al fatto che i CCNL la riconnettevano alla sussistenza di una continua e diretta esposizione a pericoli per la salute e l’integrità psicofisica, sicché non era legittimo che essa fosse stata attribuita indistintamente a tutto il personale della Polizia Municipale, che tra l’altro già percepiva l’indennità di vigilanza;

analogamente, l’indennità di disagio era a propria volta prevista dal CCNL per situazioni “particolarmente disagiate” e, secondo la Corte d’Appello, non era pertanto legittimo che essa fosse stata attribuita a tutto il personale che operasse, secondo certificazione del dirigente responsabile, per almeno tre ore su videoterminale;

infine, l’indennità per particolari responsabilità, prevista dal CCNL per il personale di categoria B, C e D non titolare di posizioni organizzative e non appartenente al corpo di Polizia Municipale, era dovuta per prestazioni che comportassero specifiche responsabilità ed era stata invece attribuita a tutti i dipendenti di cat. D e D3, così trasformando – osservava ancora la Corte distrettuale – la prestazione accessoria in componente fissa della retribuzione;

2. i lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione con sei motivi, resistiti da controricorso del Comune;

entrambe le parti hanno infine depositato memorie.

CONSIDERATO

CHE:

1. con il primo motivo i lavoratori adducono la violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2 e art. 40, comma 3, nonché dell’art. 1418 c.c. e degli artt. 1362 e 1363c.c. ed ancora dell’art. 4 del CCNL del Comparto Autonomie Locali 22.1.2004, dell’art. 7 del CCNL del 9.5.2006, dell’art. 5 del CCNL 1.4.1999 e dell’art. 4 del CCNL 22.1.2004, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto la nullità dei Contratti Collettivi Integrativi decentrati del 6.6.2000 e del 26.1.2007, nonché degli accordi decentrati annuali per il personale non dirigenziale del Comune di Termini Imerese;

il motivo sostiene che non potevano essere le violazioni procedurali a determinare la nullità dei contratti integrativi, ma solo il fatto che in ipotesi risultasse carente la coerenza finanziaria di essi;

con il secondo motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2 e art. 40, comma 3, dell’art. 1418 c.c., dell’art. 1322c.c., nonché degli artt. 1362 e 1363 c.c., in relazione all’art. 37 del CCNL 14.9.2000, dell’art. 17, comma 2, lett. e) CCNL 1.4.1999, dell’art. 17, comma 2, lett. f) CCNL 1.4.1999, come modificato dal CCNL 22.1.2004;

secondo i ricorrenti la Corte territoriale avrebbe infatti erroneamente ritenuto illegittime le clausole del CCI 6.6.2000 (art. 35) e del CCI 26.1.2007 (art. 42), per carenza dei presupposti di cui al CCNL di comparto, invadendo, con la propria interpretazione, i margini di autonomia comunque da riconoscere ai CCI, cui i CCNL rimettevano l’individuazione concreta delle fattispecie in cui fare applicazione dei benefici economici da essi previsti;

con il terzo motivo i ricorrenti affermano la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., nonché l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5) e con esso, oltre a sostenersi che la contrattazione integrativa si sarebbe svolta in conformità con le prescrizioni legislative e della contrattazione nazionale vigenti, si sottolinea come i costi degli accordi economici annuali avessero trovato piena copertura finanziaria negli appositi capitoli di bilancio, profili rispetto ai quali si lamenta anche la mancata ammissione delle richieste di interrogatorio formale e prova per testi articolate in primo grado e riproposte in appello;

2. va data precedenza alla disamina del secondo motivo, in quanto soltanto esso riguarda tutte le erogazioni oggetto di causa, mentre i vizi procedurali riguardano solo alcuni dei CCI coinvolti dal giudizio;

2.1 il motivo affronta il tema dell’applicazione che i CCI hanno fatto delle previsioni di CCNL riguardanti l’indennità di “rischio” (art. 37 CCNL 2000), quella per “condizioni particolarmente disagiate” (art. 17, comma 2, lett. e CCNL 1999) nonché l’indennità “per specifiche responsabilità” (art. 17, comma 2, lett. f del medesimo CCNL) ed è inammissibile;

2.2 intanto, rispetto all’indennità di rischio ed alla sua attribuzione alla polizia municipale, il motivo non contiene la trascrizione dei CCI nella parte di interesse, sicché, mantenendosi tra l’altro una qualche incertezza tra chi fossero i beneficiari, ovverosia tutti gli addetti alla polizia o solo gli agenti o quant’altro, vi è difetto di specificità;

la formulazione si pone infatti in contrasto con i presupposti di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1 (Cass. 24 aprile 2018, n. 10072) e di autonomia del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso esprime, con riferimento in particolare, qui, ai nn. 4 e 6 stessa disposizione, da cui si desume la necessità che la narrativa e l’argomentazione siano idonee, riportando anche la trascrizione esplicita dei passaggi degli atti e documenti su cui le censure si fondano, a manifestare pregnanza, pertinenza e decisività delle ragioni di critica prospettate, senza necessità per la S.C. di ricercare autonomamente in tali atti e documenti i corrispondenti profili ipoteticamente rilevanti (v. ora, sul punto, Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34469);

2.3 in ogni caso, sia per tale indennità, sia per le altre, la Corte d’Appello ha fondato il proprio ragionamento su un’interpretazione dei CCNL e delle clausole interessate intesa a valorizzare il tratto spiccatamente selettivo delle previsioni negoziali;

interpretazione che, oltre a trovare riscontro nella stringenza delle previsioni sull’indennità di rischio (che richiede una “continua e diretta esposizione”) è insita nella lettera delle altre due norme di CCNL, formulate come riguardanti condizioni “particolarmente” disagiate e “particolari” responsabilità;

2.4 ciò posto, l’apprezzamento, consequenziale alla menzionata base interpretativa, in ordine al mancato rispetto di tale canone di forte selettività da parte dei CCI non costituisce, a differenza di quanto sostenuto dai ricorrenti, indebita invasione della sfera di autonomia negoziale;

esso è invece valutazione necessaria al fine di apprezzare la validità o meno dei CCI attraverso il raffronto con le previsioni ed i limiti di CCNL che dei CCI costituiscono parametri di legittimità ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 3, nel testo illo tempore vigente;

tale raffronto, d’altra parte, è valutazione propria del giudice di merito, la quale, per come in concreto svolta, non è stata attinta da puntuali indicazioni di violazione, nell’interpretazione dei CCI, di canoni ermeneutici, tale non essendo il mero richiamo in rubrica agli artt. 1362 e 1363 c.c.;

vale infatti il principio per cui a fronte di contratto collettivo integrativo non è consentito a questa Corte procedere ad una interpretazione diretta della clausola contrattuale denunciata in quanto l’art. 360 c.p.c., n. 3 richiama soltanto i contratti collettivi nazionali di lavoro, sicché “l’interpretazione del contratto collettivo integrativo è rimasta attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione” (così, Cass. 3 dicembre 2013. n. 27062, v. anche Cass. 30 marzo 2018, n. 7981);

ne deriva altresì l’applicazione del principio consequenziale, già affermato da questa S.C., per cui “in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei canoni legali d’interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss.. Ne consegue che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali” (Cass. 15 novembre 2017, n. 27136; Cass., 9 ottobre 2012, n. 17168);

in definitiva l’apprezzamento svolto dalla Corte territoriale rispetto ai CCI, quale riepilogato nello storico di lite, nel senso che essi risultavano esorbitare dai criteri di selettività e quindi dai limiti imposti dal CCNL, non intercetta alcun vizio di legittimità e, rispetto ad esso, gli assunti dei ricorrenti si traducono in una diversa lettura complessiva delle regole negoziali, inammissibile come tale nel giudizio di cassazione;

3. il motivo, volto a censurare l’apprezzamento sulla nullità delle clausole dei CCI che hanno concretizzato le erogazioni controverse è dunque infondato e ciò risulta assorbente rispetto alle questioni sull’invalidità per profili attinenti alle violazioni procedurali in punto spesa o alla questione sulla concreta capienza patrimoniale del bilancio rispetto a quei costi, di cui al primo e terzo motivo; infatti, la invalidità sostanziale ritenuta della Corte territoriale, per incoerenza tra CCI e CCNL, sviluppata con autonoma ratio decidendi in riferimento a tutte le indennità oggetto di causa, resistendo al ricorso per cassazione rende superfluo discorrere di altre eventuali invalidità;

per completezza, si osserva come neppure si pone in causa il problema dell’eventuale applicazione del D.L. n. 16 del 2014, art. 4, comma 3, conv. in L. n. 68 del 2014, anche al di là dei dubbi esistenti sulla possibilità di estendere la norma alle contrattazioni anteriori al D.Lgs. n. 150 del 2009;

infatti, non solo la fattispecie non è stata evocata dalle parti, ma non risultano neppure addotti i rigorosi presupposti (regolarità dell’ente rispetto al c.d. patto di stabilità interno; rispetto della disciplina vigente in materia di spese – in realtà positivamente violata nei casi in cui mancasse il parere preventivo dei Revisori e assunzione di personale; rispetto delle disposizioni di cui al D.L. n. 78 del 2010 in tema di contenimento della spesa, oltre all’assenza di riconoscimento giudiziale di responsabilità erariale) indicati dalla predetta norma;

4. vanno poi disattesi anche il quarto ed il quinto motivo, con i quali i ricorrenti censurano la sentenza impugnata sotto il profilo dell’omessa pronuncia (art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4) e comunque dell’errore di diritto (art. 2126 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per non avere la Corte territoriale deciso e non avere accolto la difesa con cui essi avevano sostenuto che la nullità dei CCI non avrebbe dovuto avere effetto nei loro confronti in ragione del disposto dell’art. 2126 c.c., comma 2;

si tratta di affermazione giuridicamente errata, perché l’art. 2126 c.c., comma 2, consente, nonostante la nullità del contratto di lavoro, la salvaguardia del diritto alle retribuzioni, mentre qui il caso è diverso, in quanto la nullità riguarda proprio le clausole che hanno previsto un certo beneficio, che si è pertanto accertato non essere dovuto;

la manifesta infondatezza in diritto non consente di valorizzare neppure l’omessa pronuncia, valendo il principio per cui “la mancanza di motivazione su questione di diritto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame” (Cass., S.U. 2 febbraio 2017, n. 2731), essendo sufficiente procedere alla correzione della motivazione carente sul punto specifico, qui da intendersi attuata, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, nei termini giuridici appena esplicitati;

5. il sesto ed ultimo motivo afferma infine la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) in quanto, in virtù dell’erroneità (asserita) della sentenza impugnata, la P.A. resistente avrebbe dovuto essere condannata alla relativa rifusione;

si tratta di motivo mal posto, in quanto è evidente che l’eventuale cassazione avrebbe ex se travolto, per effetto dell’art. 336 c.p.c., il capo riguardante le spese, senza necessità di formulare un motivo, in sé solo tra l’altro infondato, in quanto non avrebbe potuto esservi condanna alle spese, nella sentenza impugnata, ai danni di un soggetto – la P.A. – che non era in quella sede identificato come soccombente;

oltre a ciò, i motivi di ricorso riguardanti il merito vengono qui rigettati e dunque anche la censura qui in esame va comunque disattesa;

6. al rigetto integrale del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 8.000,00 per competenze professionali oltre al rimborso spese generali del 15 % ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 24 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2021

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472