LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CONTI Roberto Giovanni – Presidente –
Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –
Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –
Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –
Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 25898-2019 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, *****, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;
– ricorrente –
contro
T.M.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1232/3/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DELLA PUGLIA, depositata il 16/04/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 14/09/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MAURA CAPRIOLI.
Ritenuto che:
La CTR di Bari accoglieva l’appello proposto da T.M. avverso la decisione della CTP di Bari con cui era stato respinto il ricorso del contribuente relativo all’impugnazione di un avviso di accertamento avente ad oggetto l’accertamento di un maggior reddito di partecipazione derivante dal maggior reddito accertato e definito per omessa impugnazione in capo alla società Servile Tecnology di T.M. & s.a.s..
Il giudice di appello rilevava che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, non dispone il raddoppio dell’ordinario termine decadenziale per l’attività di accertamento anche per i soci di una società che abbia commesso una violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, anche perché per le violazioni di carattere penale ne risponde il rappresentante legale della società e non il socio.
Sosteneva che l’ampliamento dei termini nei confronti di altri soggetti d’imposta legato al soggetto che ha commesso la violazione è frutto dell’interpretazione fornita dall’Agenzia delle Entrate con circolare del dicembre 2009, n. 54/E, che non vincolano né i contribuente né i giudici.
Osservava che l’avviso di accertamento divenuto definitivo nei confronti della società era carente della sottoscrizione e non risultava provato il conferimento della delega al funzionario firmatario dell’atto non potendosi ritenere tale la delega prodotta in sede di discussione.
Avverso tale decisione l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
L’intimato non si è costituito.
Considerato che:
Con il primo motivo si denuncia la nullità della sentenza per motivazione perplessa e contraddittoria ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Si sostiene che la motivazione espressa in ordine alla questione dell’ampliamento dei termini dell’avviso di accertamento quando sussiste un obbligo di denuncia ex art. 331 c.p.p., non sarebbe comprensibile.
Con il secondo motivo si deduce la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si rileva, in primo luogo, che T.M. rivestiva la qualità di socio e di legale rappresentante sicché, contrariamente a quanto affermato, nessuna censura avrebbe potuto essere addebitata all’Amministrazione finanziaria quanto all’osservanza dei termini previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, per la duplice qualità ricoperta dallo stesso.
Si osserva, comunque, sulla scorta degli insegnamenti espressi dalla Suprema Corte, che il raddoppio dei termini di accertamento applicabile nei confronti di una società di persone può legittimamente estendersi anche ai soci di tale società a prescindere dalla verifica di una violazione penalmente rilevante.
Con il terzo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, per avere la CTR ritenuta tardiva la produzione documentale offerta agli atti dall’Agenzia siccome effettuata in secondo grado.
Il primo motivo è infondato.
E’ infatti orientamento di questa Corte che la nullità di una sentenza di grado di appello (o unico grado) per difetto di forma possa essere dichiarata solo quando la contestata carenza non consenta di desumere quale sia stato l’iter logico-giuridico che ha convinto il giudice ad adottare la specifica decisione in relazione ai motivi di impugnazione proposti dalle parti. In sostanza la motivazione, pur concisa, non può prescindere dall’esistenza di una pur succinta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione impugnata, la cui assenza configura motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione (v. Cass., V, ord. n. 25856/2016).
Nel caso di specie le argomentazioni esposte rendono ben comprensibile il ragionamento seguito dal giudice d’appello per giungere alla decisione finale e che, come tale, ben può essere sottoposto allo scrutinio di questa Corte.
La CTR ha ritenuto che il raddoppio dell’ordinario termine decadenziale per l’attività di accertamento previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, non fosse estensibile anche ai soci di una società che abbia commesso una violazione che comporti l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p., precisando poi che l’estensione operata dall’Amministrazione sarebbe avvenuta in forza di una interpretazione estensiva essenzialmente fondata su di una circolare non vincolante per i contribuenti e per i giudici.
Il secondo motivo è fondato.
Dal tenore degli atti impositivi controversi è ben chiaro che il raddoppio dei termini ordinari di accertamento è stato invocato dall’Ufficio “poiché nei confronti della società Service Tecnology di T.M. & s.a.s.(…) sono state contestate violazioni che comportano l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p.”.
Ciò posto, in forza del principio dell’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e dei soci delle stesse ex art. 5 T.U.I.R., non può dubitarsi del fatto che il mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale nei confronti degli organi societari determini il raddoppio dei termini per l’accertamento anche del reddito imputato “per trasparenza” al socio.
Invero, come già ritenuto da questa Corte, l’addebito fiscale al socio discende ope legis dall’accertamento effettuato nei confronti della società, nella quale (con particolare riguardo alla società in accomandita semplice) gli accomandatari rivestono la posizione di amministratori e gli accomandanti sono dotati di amplissimi poteri di controllo (come disegnati dall’art. 2320 c.c.), sì da escludere un rapporto di alterità (e la qualità di terzi) dei membri della compagine sociale rispetto all’ente collettivo non personificato: e tanto rileva allorquando sia ipotizzata la contestazione di un fatto di reato agli amministratori sociali, con contegno tenuto in vista di un vantaggio (illecito) comune, costituito dal maggiore reddito sociale imputato per trasparenza ai soci (in tal senso, con riferimento ad una società in nome collettivo, Cass. 16/12/2016, n. 26037; per l’applicabilità del raddoppio dei termini ai soci di una società di capitali a ristretta base partecipativa, cfr. Cass. 7/10/2015, n. 20043).
A ulteriore conforto della tesi della ricorrente basti il richiamo al consolidato indirizzo ermeneutico espresso dal giudice della nomofilachia, al quale si intende qui dare continuità.
Muovendo dalla lettura costituzionalmente orientata della materia offerta dalla Consulta nella sentenza del 25 luglio 2011, n. 247, questa Corte, proprio con riferimento a fattispecie (quale quella in esame) disciplinate ratione temporis dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, nella formulazione modificata dal D.L. n. 223 del 2006, ha puntualizzato che: (a) il raddoppio dei termini per l’accertamento si applica anche alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento (4 luglio 2006) di entrata in vigore delle disposizioni dettate dal D.L. n. 223 del 2006, questo effetto derivando non dalla natura retroattiva della norma, ma dalla protrazione ex nunc dei termini, non ancora scaduti, di accertamento delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data, nel rispetto del principio di cui all’art. 11 preleggi, comma 1; (b) il raddoppio dei termini si correla automaticamente alla speciale condizione obiettiva della ricorrenza di fatti implicanti, in guisa di seri indizi, l’obbligo di denuncia penale per i reati tributari previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia (né, a fortiori, della produzione di essa nel giudizio), dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo, restando in particolare irrilevante l’esito del processo penale (con decisione di proscioglimento per intervenuta prescrizione, di assoluzione o di condanna) in ragione dell’autonomia di esso rispetto al processo tributario (per l’affermazione di questi principi, cfr. Cass. Cass. 7/10/2015, n. 20043; Cass. 09/08/2016, n. 16728; Cass. 16/12/2016, n. 26037; Cass. 11/04/2017, n. 9322; Cass. 08/05/2017, n. 11207; Cass. 10/01/2018, n. 409; Cass. 14/05/2018, n. 11620; Cass. 13/09/2018, n. 22337; Cass. 30/10/2018, n. 27629; Cass. 19/12/2019, n. 33793; Cass. 02/07/2020, n. 13481).
Il terzo motivo è parimenti fondato.
La Corte rammenta che l’art. 58, al comma 2, prevede: “e’ fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti”, ossia è fatta salva in ogni caso, senza necessario collegamento all’art. 345 c.p.c., ossia all’impossibilità di produrli in primo grado (Cass. 22 gennaio 2016, n. 1175); in generale, nel processo tributario di appello le parti possono produrre qualsiasi documento, pur se già disponibile in precedenza (Cass. 6 novembre 2015, n. 22776).
L’accoglimento del motivo d’impugnazione riposa infatti sulla chiara lettera del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, che abilita alla produzione di qualsivoglia documento in appello, senza restrizione alcuna e con disposizione autonoma rispetto a quella che, nel comma 1, sottopone invece a restrizione l’accoglimento dell’istanza di ammissione di altre fonti di prova (Cass. n. 22776/2015; vedi anche la sentenza n. 0199 del 2017 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato in parte inammissibile ed in parte infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2).
Deve, quindi, ritenersi che la C.T.R. ai fini della decisione avrebbe dovuto valutare la produzione documentale dell’appellante, produzione che per quanto sopra esposto non poteva ritenersi tardiva.
Il ricorso va accolto con riguardo al secondo ed al terzo motivo e rigettato con riguardo al primo.
La sentenza va conseguentemente cassata e rinviata alla CTR della Puglia, in diversa composizione anche per le spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e secondo motivo; rigetta il primo cassa la decisione impugnata e rinvia alla CTR di Bari, in diversa composizione anche per la liquidazione delle spese di legittimità.
Così deciso in Roma, il 14 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 2 novembre 2021
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