Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.31610 del 04/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13137-2020 proposto da:

K.U.A., rappresentato e difeso, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dell’Avvocato Paolo Cognini, presso il cui studio elettivamente domicilia in lesi (AN), al Corso Matteotti n. 69/b.

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, *****, in persona del Ministro pro tempore.

– intimato –

avverso l’ordinanza n. cronol. 2544/2020 del TRIBUNALE di ANCONA, depositata il 28/02/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del giorno 08/07/2021 dal Consigliere Relatore Dott. EDUARDO CAMPESE.

FATTI DI CAUSA

1. K.U.A., nativo del Pakistan, ricorre per cassazione, affidandosi a tre motivi, contro la “ordinanza” del Tribunale di Ancona del 28 febbraio 2020, reiettiva della sua domanda volta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria o di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il Ministero dell’Interno è rimasto solo intimato.

1.1. Quel tribunale ritenne non credibili le sue dichiarazioni (così condividendo l’analogo giudizio della commissione territoriale), anche quanto alla provenienza dell’istante dalla *****, sicché i motivi addotti da lui a sostegno delle sue richieste si rivelavano inidonei a consentirne raccoglimento.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I formulati motivi prospettano, rispettivamente:

I) “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – Mancanza della motivazione/Motivazione apparente – Nullità del decreto per violazione dell’art. 112 c.p.c. – Nullità del decreto per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 9, comma 2 – Nullità del decreto per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dell’art. 429 c.p.c., comma 1, nonché delle disposizioni di attuazione, art. 118, commi 1 e 2 – Nullità del decreto per violazione dell’art. 111 Cost.”. Ci si duole dell’asserita assoluta carenza di motivazione in riferimento al giudizio di inattendibilità del richiedente posto a fondamento della determinazione reiettiva con la quale si è concluso il giudizio di merito;

II) “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – Violazione di legge e falsa applicazione in riferimento al D.Lgs. n. 231 del 2007, artt. 3, 5 e 8, al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, art. 13, comma 1-bis, e art. 27, commi 1 e 1-bis – Carenza istruttoria – Illogicità dei criteri interpretativi – Violazione dei principi di diritto in materia di protezione internazionale ed attinenti allo scrutinio della richiesta di protezione”. Si prospetta la violazione, nello scrutinio del caso concreto, dei fondamentali principi di diritto in materia di protezione internazionale ed in particolare dei parametri normativi che devono disciplinare la valutazione del narrato del richiedente e la sua attendibilità;

III) “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – Omesso esame di un fitto decisivo oggetto di discussione tra le parti: l’attendibilità del richiedente”. Si lamenta l’omesso esame della credibilità del richiedente, fattore oggetto della discussione fra le parti, pretermesso dal processo valutativo attraverso l’inerziale assunzione del giudizio formulato a riguardo dalla commissione territoriale.

2. I tre motivi possono essere esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione, essendo tutti volti a contestare, sotto i diversi profili articolati, il giudizio di non credibilità dell’odierno ricorrente.

2.1. Giova premettere che il tribunale dorico ha ritenuto affatto inattendibile quanto narrato da K.U.A. (che aveva riferito di aver lasciato il proprio Paese nel 2017, ancora minorenne, per scelta dei suoi familiari, in quanto i Talebani non volevano che i ragazzi andassero a scuola ma li addestravano per combattere. Ha precisato che i Talebani avevano inviato anche lettere di minacce alla sua famiglia e che non aveva avuto più la possibilità di andare a scuola prima frequentata fino al 2015, per circa dieci anni – dopo che la stessa era stata chiusa a seguito delle minacce ricevute dai Talebani) anche quanto alla sua provenienza dalla ***** (Pakistan), assumendo che questi, neppure comparso al cospetto del tribunale che ne aveva disposto l’audizione, benché avesse chiesto di essere sentito, “…non ha compiuto ogni ragionevole Orzo per circostanziare la domanda; (…); il ricorrente si limita ad affermazioni del tutto generiche relative alla asserita minaccia dei Talebani di vietare alle famiglie di mandare i figli a scuola. Non vi è alcun elemento preciso e concreto che consenta di personalizzare ed individualizzare il racconto. Così come è del tutto generico il racconto nella parte in cui fa riferimento a conflitti esistenti nel suo Paese. A ciò si aggiungano le lacune evidenziate dalla Commissione nel riferire informazioni precise ed esatte relativamente al Paese di provenienza. Lacune che non si giustificano con la giovane età del ricorrente, il quale ha comunque frequentato la scuola per 10 anni ed ha abitato in quei luoghi per 17 anni; (..); non ha fornito giustificazione del perché non ha presentato la domanda di protezione negli altri Paesi dell’Unione ove era rimasto; (..) ha reso dichiarazioni che, per la loro genericità, non possono neppure essere ritenute plausibili rispetto alle condizioni generali del Paese di origine” (cfr. pag. 4-5 del provvedimento impugnato). Alla stregua di tali argomentazioni, dunque, oltre che della insussistenza di situazioni di vulnerabilità, ha negato le invocate forme di protezione (status di rifugiato; protezione sussidiaria; permesso di soggiorno per motivi umanitari).

2.2. Orbene, va subito rimarcato, che, con orientamento ormai consolidato ed anche di recente ribadito da questa Corte (cfr,, ad esempio, Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 3819 del 2020), il vizio di motivazione previsto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dall’art. 111 Cost., sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito. In altri termini, la “motivazione apparente” ricorre allorché la motivazione, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente – come parte del documento in cui consiste la sentenza (o altro provvedimento giudiziale) – non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché esibisce argomentazioni obiettivamente inidonee a far riconoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e, pertanto, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento del giudice. In questo senso possono citarsi numerose pronunce che convergono nella indicata nozione, talora variamente accentuandone i diversi elementi (cfr., ex plurimis, Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 4891 del 2000; Cass. n. 1756 e n. 24985 del 2006; Cass. n. 11880 del 2007; Cass. n. 161, n. 871 e n. 20112 del 2009; Cass. n. 4488 del 2014; Cass., SU, n. 8053 e n. 19881 del 2014).

2.2.1. In particolare, in tema di valutazione delle prove e soprattutto di quelle documentali, il giudice di merito è tenuto a dare conto, in modo comprensibile e coerente rispetto alle evidenze processuali, del percorso logico compiuto al fine di accogliere o rigettare la domanda proposta, dovendosi ritenere viziata per apparenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la motivazione meramente assertiva o riferita solo complessivamente alle produzioni in atti (cfr. Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 14762 del 2019; cfr., anche sulla tipologia del vizio, Cass. n. 22598 del 2018).

2.2.2. Tale non e’, però, la situazione sussistente nel caso di specie, dove, con riferimento alle forme di protezione invocata, il tribunale, come si è detto, ha operato una puntuale valutazione del narrato del ricorrente.

2.2.3. Va considerato, poi, che il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. b), (esame su base individuale della dichiarazione e della documentazione presentate dal richiedente) non può essere inteso nel senso di imporre l’analitica valutazione di ciascun documento prodotto al giudicante, il quale, al contrario, è tenuto ad enunciare le ragioni del proprio convincimento senza tuttavia dover passare in rassegna ciascuna delle prove offerte dal richiedente asilo ed effettuare una precisa esposizione di tutte le singole fonti di prova e del loro specifico peso probatorio; la stessa norma, al comma 5, detta i criteri di procedimentalizzazione legale della decisione in merito alla valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente, ma non prescrive una valutazione, separata e prioritaria, dei documenti prodotti dal migrante; al contrario, il giudicante è tenuto ad un apprezzamento globale della congerie istruttoria raccolta, sicché anche in questa materia la scelta degli elementi probatori e la valutazione di essi rientrano nella sfera di discrezionalità del giudice di merito, il quale non è obbligato a confutare dettagliatamente le singole argomentazioni svolte dalle parti su ciascuna delle risultanze probatorie ma deve soltanto fornire un’esauriente e convincente motivazione sulla base degli elementi ritenuti più attendibili e pertinenti.

2.2.4. Quanto alla violazione del dovere di cooperazione istruttoria del giudice, giova ricordare che” nella materia in oggetto, il giudice ha il dovere di cooperare nell’accertamento dei fatti rilevanti, compiendo un’attività istruttoria ufficiosa, essendo necessario temperare l’asimmetria derivante dalla posizione delle parti (cfr. Cass. n. 23976 del 2020, in motivazione; Cass. n. 25534 del 2016). Inoltre, si è ulteriormente chiarito (Dott.- Cass. n. 27593 del 2018) che, “in tema di protezione internazionale, l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole Orzo per circostanziare la domanda D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati”, cosicché “la valutazione di non credibilità del racconto, costituisce un apprezzamento di /atto rimesso al giudice del merito il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5 lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni su sufficientemente specifiche e circostanziate” (Dott. anche Cass. n. 27503 del 2018 e Cass. n. 29358 del 2018, entrambe richiamate, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 23976 del 2020). In sostanza, l’attenuazione del principio dispositivo in cui la cooperazione istruttoria consiste si colloca non sul versante dell’allegazione, ma esclusivamente su quello della prova, dovendo, anzi, l’allegazione essere adeguatamente circostanziata. Pertanto, solo quando colui che richieda il riconoscimento della protezione internazionale abbia adempiuto all’onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto, sorge il potere-dovere del giudice di accertare, anche d’ufficio, se, ed in quali limiti, nel Paese straniero di origine dell’istante si registrino i fenomeni tali da giustificare l’accoglimento della domanda (cfr. Cass. n. 17069 del 2018). Sempre in tema (fr. Cass. n. 29358 del 2018), una volta assolto l’onere di allegazione, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, e quindi di acquisizione officiosa degli elementi istruttori necessari, è circoscritto alla verifica della situazione oggettiva del Paese di origine e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente. Anche di recente (cfr. Cass. n. 11925 del 2020, nonché, in motivazione, Cass. n. 23976 del 2020), si è comunque affermato che “la valutazione ai affidabilità del richiedente è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione che deve essere svolta alla luce dei criteri specifici, indicati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, oltre che di quelli generali di ordine presuntivo, idonei ad illuminare circa la veridicità delle dichiarazioni rese; sicché, il giudice è tenuto a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a l’andamento della domanda, i cui esiti in termini di inattendibilità costituiscono apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

2.3. Fermo quanto precede, nella specie si contesta la motivazione del tribunale in punto di credibilità del richiedente, in riferimento a contraddizioni ed incongruenze o reticenze, non specificate nella decisione impugnata, ed a carenza di prove documentali sui fatti narrati. Tuttavia, non viene efficacemente censurata l’ulteriore ratio decidendi fondata sulla non credibilità per assoluta genericità del racconto.

2.3.1. In realtà, il tribunale marchigiano ha escluso che ricorressero nella descritta vicenda narrata da K.U.A. i requisiti delle forme di protezione richieste, perché ha giudicato affatto inattendibili le sue dichiarazioni (così condividendo l’analogo giudizio della commissione territoriale), pure in relazione alla sua provenienza dalla ***** (Pakistan), altresì rimarcando che questi neppure era comparso al cospetto del tribunale, che ne aveva disposto l’audizione, benché avesse chiesto di essere sentito. Il contrario assunto del ricorrente circa la sua presenza all’udienza del 21.2.2020, oltre a scontrarsi con l’opposta affermazione (ed il corrispondente accertamento fattuale) del tribunale, si rivela inammissibile per carenza di autosufficienza, non avendo egli riprodotto in ricorso il contenuto del corrispondente verbale di udienza da cui emergerebbe l’avvenuta sua presenza ivi. Deve qui solo ricordarsi che: a) in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (cfr. Cass., SU, n. 34469 del 2019); b) l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato – come nella specie – un error in procedendo, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura (cfr. Cass., SU, n. 28332 del 2019, in motivazione; Cass. n. 22880 del 2017; Cass. n. 21621 del 2007; Cass. n. 20405 del 2006); c) il tribunale ha evidenziato l’assenza di peculiari situazioni soggettive attestanti condizioni di vulnerabilità del richiedente protezione, nonché di un suo effettivo radicamento sul territorio dello Stato ospitante, determinato da ragioni familiari o di una concreta integrazione lavorativa, letta in connessione con il mancato riscontro di una situazione di grave compromissione dei diritti umani fondamentali nel Paese di origine, così da non consentire di pervenire ad una prognosi positiva quanto all’esposizione del richiedente, in ipotesi di rimpatrio, ad una situazione di negazione della dignità personale.

2.4. Al cospetto di un simile impianto argomentativo, sotteso al diniego di tutte le forme di protezione internazionale e corredato da una spiegazione esauriente delle ragioni atte a suffragare il rigetto delle domande proposte – sicché, come si è già detto, non si ravvisano quei radicali vizi motivazionali che oggi assumono rilievo in sede di legittimità: “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, “motivazione apparente”, “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014) – i formulati motivi sono complessivamente inammissibili, atteso che il tribunale ha fondato il proprio giudizio su di una lettura integrata, siccome stabilito alla disposizione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), delle dichiarazioni rese da K.U.A., giudicate inattendibili.

2.4.1. Va rimarcato, allora, che la giurisprudenza di legittimità ha, ancora recentemente (cfr. Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 17536 del 2020; Cass. n. 18446 del 2019), chiarito che: i) la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (cfr., ex multis, Cass. n. 6191 del 2020, in motivazione; Cass. n. 32064 del 2018; Cass. n. 30105 del 2018), il quale deve ponderare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in Cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile (tutte fattispecie qui insussistenti, come si è già riferito), dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr., nel medesimo senso, Cass. n. 18550 del 2020; Cass. n. 17539 del 2020; Cass. n. 3340 del 2019). Deve sottolinearsi, peraltro, che, nella specie, la semplice lettura dell’ordinanza oggi impugnata, nella parte in cui ha negato l’attendibilità dell’odierno ricorrente, presenta una motivazione ampiamente in linea con il minimo costituzionale sancito da Cass. SU, n. 8053 del 2014; ii) in tema di riconoscimento della protezione sussidiaria, il principio secondo il quale, una volta che le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad approfondimenti istruttori officiosi, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori investe le domande formulate ai sensi del predetto decreto, art. 14, lett. a) e b) (cfr. Cass. n. 15794 del 2019; Cass. n. 4892 del 2019), ed altrettanto dicasi, quanto a quella proposta giusta la lettera c), allorquando l’inattendibilità investa pure la provenienza dal territorio in cui risulta allegata l’esistenza di una situazione di conflitto armato interno (cfr. Cass. n. 29578 del 2020).

2.4.2. A tanto deve soltanto aggiungersi, da un lato, che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo novellato qui applicabile, riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (Dott.-, ex alias, Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017); dall’altro, che il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati…”, deve essere interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo, per contro, addebitarsi la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi, in ordine alla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione, riferita a circostanze non dedotte (cfr. Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 2355 del 2020; Cass. n. 30105 del 2018).

2.5. Nessun decisivo rilievo assume, inoltre, ai fini della corretta applicazione delle norme di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 2, l’eventuale integrazione socio-lavorativa asseritamente raggiunta dal richiedente, posto che vige nella materia de qua il principio di diritto secondo il quale non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, né il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (cfr. Cass. n. 17072 del 2018.

2.5.1. Approdi interpretativi, quelli riportati, che, di recente, hanno ricevuto l’autorevole avallo della Sezioni Unite di questa Corte, che, con la sentenza n. 29459 del 13 novembre 2019, hanno sancito che “in tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”.

2.6. A fronte di tali approfonditi rilievi, che danno conto della correttezza dell’operazione di sussunzione dei fatti allegati alle norme di legge di cui il ricorrente ha chiesto l’applicazione, le doglianze sviluppate in ricorso investono, sostanzialmente, il complessivo governo del materiale istruttorio (quanto alla sussistenza, o meno, della prova dei presupposti per la invocata protezione internazionale ed umanitaria), senza assolutamente considerare che la denuncia di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ivi formalmente proposte, non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr. Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006), non potendosi surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché le più recenti Cass. n. 8758 del 2017 e Cass., SU, n. 31176 del 2019).

3. L’odierno ricorso, dunque, va dichiarato inammissibile, senza necessità di pronuncia in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità, essendo il Ministero dell’Interno rimasto solo intimato, altresì dandosi atto – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, “sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 8 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021

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