Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.31650 del 04/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2765-2020 proposto da:

S.A., S.D., S.F., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ULPIANO 29, presso lo studio dell’avvocato NATALE POLIMENI, che li rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

M.C., quale erede di M.L., T.A., quale erede di M.L. per rappresentazione della propria madre M.M.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA AREZZO, 24, presso lo studio dell’avvocato GIANFRANCO ALLIDI, rappresentati e difesi dagli avvocati ALBERTO TUCCI, VINCENZO REALE;

– controricorrenti –

e contro

M.B., T.G.A., T.F.S., G.C., G.P., G.G., G.D., P.C., S.E.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 765/2019 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 18/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non partecipata del 13/05/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GRASSO GIUSEPPE.

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la vicenda, per quel che ancora qui residua d’utilità, può riassumersi nei termini seguenti:

– M.B. e M.L. citarono in giudizio S.F., S.A., S.D. e S.C. e P.C. chiedendo che, accertata la violazione delle distanze dal confine (m. 5,25), i convenuti fossero condannati alla demolizione dell’opera e al risarcimento del danno;

– il Tribunale accolse la domanda;

– la Corte d’appello di Reggio Calabria, con la sentenza di cui in epigrafe, rigettò l’impugnazione proposta da S.F., S.A. e S.D.;

ritenuto che gli insoddisfatti appellanti ricorrono sulla base di due motivi e che degli intimati resistono con unitario controricorso M.C. e T.A.;

ritenuto che con il primo motivo i ricorrenti denunziano violazione dell’art. 873 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, assumendo quanto appresso:

– la Corte d’appello aveva errato nel reputare che il contenuto dell’art. 23, par. 15.16. del piano di fabbricazione del Comune di Brancaleone imponesse la tesi rigoristica, secondo la quale era stato istituito un minimo assoluto di distanza dal confine per l’edificazione; l’interpretazione non si conciliava con quella autentica dello stesso Comune, “cui indubbiamente spetta il potere di meglio dettagliarne e specificare il contenuto ed il senso(della norma)”; interpretazione, quest’ultima che teneva conto dell’orografia del territorio, tale da paralizzare del tutto l’edificazione ove non si fosse intesa la disposizione nel senso che potevasi edificare da 0,00 a 5,25 m., dovendosi attribuire a “pura dimenticanza e/o a svista” l’indicazione del limite di 5,25 m. e, proprio per questo, il Comune predetto aveva rilasciato la concessione edilizia;

considerato che la censura non supera lo scrutinio d’ammissibilità, valendo quanto segue:

– la sentenza impugnata ha spiegato che lo strumento urbanistico prevedeva “un minimo assoluto di distanza dal confine da osservare nelle costruzioni, fissato nell’allegata (al piano di fabbricazione) “tabella dei tipi edilizi” per la zona del territorio di riferimento (pacificamente “zona territoriale B3 – Settore Ristrutturazione” Insula 12 – Brancaleone Marina) in m. 10,50"; che la norma giuridica in parola, la cui portata era di chiara evidenza, non avrebbe potuto essere corretta o addirittura abrogata per opera del giudice, spettando, semmai, agli interessati, trascorso il termine per l’impugnazione nella debita sede, sollecitarne la modifica all’ente territoriale; la cogenza della disposizione non poteva essere contrastata dalla esistenza di concessione edilizia, la quale non autorizza la lesione dei diritti dei terzi;

– com’e’ evidente i ricorrenti non colgono la ratio decisoria, sollecitando revisione del giudizio d’appello sulla base dell’assetto secondo il quale lo stesso Comune si sarebbe reso conto dello “errore”, senza aggredire il ragionamento del Giudice, snodantesi per il percorso logico seguente: si è in presenza di norma giuridica, il contenuto di essa è di evidenza interpretativa, il rilascio del provvedimento amministrativo abilitante all’edificazione non può pregiudicare i diritti dei terzi, siccome chiarito reiteratamente dalla Cassazione, la quale ha precisato, di recente, che in tema di distanze minime tra costruzioni, la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi a quelli tra privati e, pertanto, il conflitto tra proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell’opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia, perché queste riguardano solo l’aspetto formale dell’attività edificatoria; di conseguenza, così come è irrilevante la mancanza di licenza o concessione edilizia, allorquando l’opera risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del c.c. e delle norme speciali e non leda alcun diritto del vicino, allo stesso modo, l’avere eseguito la costruzione in conformità dell’ottenuta licenza o concessione, non esclude, di per sé, la violazione di dette prescrizioni e, quindi, il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento dei danni (Sez. 2, n. 4833, 19/02/2019,Rv. 652694);

ritenuto che il con il secondo motivo i ricorrenti deducono omessa valutazione di un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, sotto duplice profilo:

– la Corte d’appello non aveva ammesso la produzione di una perizia giurata di parte, dalla quale emergeva che la controparte, nel passato, avevano violato quella stessa disposizione;

– il sopravvenire di normativa in materia distanze legali, siccome specificato dalla Cassazione, rendeva legittima la costruzione e poiché con l’entrata in vigore della L.R. Calabria 16 aprile 2002, n. 19, era stato fatto obbligo ai comuni di dotarsi del piano strutturale comunale (PSC) e del regolamento urbanistico ed edilizio (REU), prevedendosi che, in difetto di adeguamento, la Regione avrebbe esercitato il proprio potere sostitutivo, il programma di fabbricazione di cui qui si discute avrebbe dovuto essere reputato normativa non più in vigore;

considerato che la doglianza è palesemente inammissibile, stante che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (si rimanda alla sentenza delle S.U. n. 8053/2014); non residuano spazi per ulteriori ipotesi di censure che investano il percorso motivazionale, salvo, appunto, l’ipotesi, che qui non ricorre, del difetto assoluto di motivazione; peraltro, il motivo impinge in ulteriori profili d’inammissibilità: la produzione, manifestamente inconferente, era stata offerta tardivamente; anche a voler seguire i ricorrenti nell’improbabile tesi dell’abrogazione per norma sopravvenuta (invero, da quel che è dato trarre, allo stato la disposizione è in vigore, salvo future modificazioni o abrogazioni, come di ogni norma), essa avrebbe dovuto essere esposta in uno specifico motivo d’appello;

considerato che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

considerato che i ricorrenti vanno condannati a rimborsare le spese in favore dei controricorrenti, tenuto conto del valore, della qualità della causa e delle attività svolte, siccome in dispositivo;

che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

dichiara il ricorso inammissibile e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 13 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021

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