LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –
Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –
Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –
Dott. CENICCOLA Aldo – Consigliere –
Dott. PANDOLFI Catello – rel. est. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Sul ricorso iscritto al n. 15063/2014 proposto da:
Best Process s.a.s di E.B. & C. e T.F., rappresentate e difese dall’avv. Antonio Damascelli, elettivamente domiciliate presso il suo studio in Roma via Alberico II, n. 33;
– ricorrenti –
contro
Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma via dei Portoghesi 12.
– controricorrente –
Avverso la decisione della Commissione tributaria regionale della Puglia, n. 68/1/2013 depositata il 3/06/2013.
Udita la relazione del Consigliere Dott. Catello Pandolfi nella Camera di consiglio del 9/03/2021.
RILEVATO
che:
La società Best Process s.a.s di E.B. & C. T.F. hanno proposto ricorso per la cassazione della sentenza emessa dalla Commissione tributaria regionale della Puglia n. 68/1/13 depositata il 3/06/2013. La vicenda trae origine di tre avvisi di accertamento, uno destinato alla società e gli altri due ai soci B.E. e T.F.. Con essi l’Ufficio aveva determinato induttivamente un maggior reddito d’impresa per l’anno 2003 e, di riflesso, aveva rideterminato IRAP e IVA, nonché IRPEF, per i soci.
Gli atti impositivi erano stati impugnati innanzi alla CTP di Bari che aveva accolto i ricorsi.
Successivamente a tale fase, la socia B. si era avvalsa della definizione della lite pendente D.L. n. 98 del 2011, ex art. 39, comma 2.
La CTR, innanzi alla quale l’Ufficio aveva appellato la decisione di primo grado, aveva parzialmente accolto il gravame riducendo il maggior reddito d’impresa netto della società, da Euro 238.406,00 ad Euro 177.443,00, imputandolo, proporzionalmente, alla socia T..
I contribuenti hanno basato il ricorso su due motivi, successivamente illustrato (Ndr: testo originale non comprensibile).
Ha resistito l’Agenzia delle Entrate con controricorso.
CONSIDERATO
che:
Con il primo motivo, le ricorrenti, hanno lamentato che parte della decisione contenesse motivazione apparente in violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, e dell’art. 132 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Il motivo è infondato. Le parti collegano la doglianza al fatto che la sentenza abbia escluso dai costi deducibili quelli considerati spese personali di C.A., indicato quale gestore di fatto delle società oggetto di verifica, senza che il giudice regionale avesse dato conto delle ragioni di tale convincimento.
Invero, la motivazione per la quale la CTR ha ritenuto non deducibili i suddetti importi è basata sul fatto che, parte, fossero non afferenti alla produzione dei ricavi e, parte, riferiti a spese non documentate.
Può, dunque, ritenersi la motivazione sul punto non condivisibile, ma certo non apparente, stante anzi la chiara argomentazione esposta.
Con il secondo motivo, viene lamentata la violazione dell’art. 109 TUIR, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, e art. 41.
In particolare, le ricorrenti lamentano, sia pure sotto altro profili, che la sentenza impugnata abbia ritenuto indeducibili cospicui importi. In particolare, quanto ad Euro 129.768,73, censurano il presupposto, assunto dal giudice regionale, che quelle spese fossero riconducibili alla persona fisica di C.A. e non all’impresa. Motivazione considerata dai contribuenti non dimostrata.
Essi rilevano, infatti, che la stessa CTR aveva ritenuto di qualificare l’accertamento non come induttivo, ma come analitico induttivo, quindi riconducibile al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1.
Pertanto, il giudicante avrebbe dovuto suffragare la sua decisione, sul punto, con prove gravi, precise e concordanti, la cui sussistenza – sostengono le ricorrenti – non è invece rilevabile nella decisione impugnata.
In altri termini, lamentano che il giudice regionale, dopo aver qualificato l’accertamento come analitico induttivo, riferito al citato decreto, art. 31, comma 2, (in ciò discostandosi dalla ratio dell’appello proposto dall’Ufficio e dello stesso avviso di accertamento, incentrata, sul D.P.R. n. 600 del 1973, art. 31, comma 2), non si era poi attenuto, coerentemente, alla tipologia da essa stessa individuata nel caso in esame ed alle più rigorose caratteristiche dell’onere probatorio che ne derivava a carico dell’Amministrazione.
Ora, nella specie, l’accertamento induttivo espletato è stato giustificato dall’Ufficio per la “mancata presentazione della dichiarazione fiscale della società in quanto presentata tardivamente oltre 90 giorni previsti dalla norma”. Circostanza questa ricordata dall’Amministrazione nel controricorso e non contraddetto dalle ricorrenti. E, quindi, ben poteva trovare, per ciò stesso, applicazione il citato art. 39, comma 2, senza però che la sua applicazione impedisse al giudice regionale di avvalersi anche della documentazione pervenuta nella sua disponibilità, inclusa quella prodotta dalla parte, acquisita nel corso dell’accertamento e ritualmente confluita nelle risultanze processuali.
La stessa CTR ha chiaramente evidenziato che il suo giudizio si inseriva nel quadro dell’accertamento induttivo operato dall’Ufficio, la cui legittimità il giudicante non aveva mai posto in dubbio, precisando che, essendo chiamato a verificare l’esatto ammontare della rideterminazione del reddito da assoggettare ad imposta e quindi a quantificare l’esatto ammontare delle componenti negative da dedurre; si era, a tal fine, avvalso di tutta la documentazione acquisita, nessuna norma impedendolo.
Del resto, nel caso in esame, come detto, la dichiarazione dei redditi non era stata presentata nei termini di legge e quindi era da considerare “come se” non fosse stata presentata, legittimando l’accertamento induttivo.
Nondimeno, la dichiarazione era stata, pur se tardivamente, presentata, tal che ben poteva essere valutata dai giudici di merito. Ed è quello a cui la CTR ha legittimamente proceduto, rideterminando i costi, pervenendo ad ampliare l’importo di quelli deducibili ed a ridurre la base reddituale da Euro 238.406,00 ad Euro 177.443,00.
In particolare, quanto alla indeducibilità dei costi, che il giudice regionale aveva desunto dalle scritture, con riferimento a spese non documentate ed a quelle non inerenti alla produzione di ricavi, le ricorrenti hanno dedotto, con lo stesso secondo motivo, che la CTR aveva applicato un concetto d’inerenza non conforme all’indirizzo giurisprudenziale affermato da questa Corte.
Ora, pur accedendo alla tesi delle ricorrenti, secondo cuì l’inerenza di un costo sussiste se il costo sostenuto è riferibile alle finalità imprenditoriali, in base ad un principio di tipo qualitativo, per cui non rilevano valutazioni in termini di diretta utilità o di vantaggio immediato, potendo la deduzione spettare anche con riguardo alle attività di carattere preparatorio, il motivo è comunque infondato.
Infatti, in considerazione dell’onere probatorio, posto, pacificamente, a carico del contribuente, le “voci” (ritenute come deducibili in quanto “inerenti”; quali il costo dell’affitto della sala alberghiera per scopi di rappresentanza, il costo dei fitti e delle forniture di servizi di terzi) pur se compatibili con l’oggetto dell’attività svolta) avrebbero richiesto la prova da parte del contribuente dell’effettività dei fatti giustificativi della spesa e della loro concreta destinazione e riferibilità alla produzione. I costi sostenuti esigono, in altri termini, che le attività che li hanno determinati, e che possono essere anche solo preparatorie, debbano comunque presentare un comprovato legame finalistico, anche solo potenziale, alla produzione del reddito. (Cass., n. 744 del 2021, n. 2224 del 2021) La prospettazione delle parti ricorrenti non si e’, invece attenuta allo standard probatorio richiesto, ritenendo sufficiente, perché le spese potessero ritenersi inerenti e quindi deducibili, che fossero collegate “in senso ampio” all’impresa, senza provare alcun concreto riferimento alla specifica finalità perseguita e quindi alla motivazione che l’aveva indotta, senza alcuna prova sul legame finalistico alla produzione del reddito, utilizzando espressioni generiche per definirle e individuarle, come ” esigenze di rappresentanza” o “fornitura di servizi di terzi”, Il ricorso va, dunque, rigettato. Alla soccombenza segue la condanna al pagamento delle spese di giudizio e di quelle prenotate a debito. Ricorrono i presupposti per il versamento del c.d. doppio contributo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna le parti soccombenti al pagamento delle giudizio, che liquida in Euro 6.600,00 e di quelle prenotate a debito. Dà atto della sussistenza dei presupposti, ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello fissato per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021