LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANZON Enrico – Presidente –
Dott. TRISCARI G. – rel. Consigliere –
Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –
Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –
Dott. ARMONE Giovanni M. – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17109 del ruolo generale dell’anno 2019 proposto da:
T.G., titolare della ditta individuale “Gre.Ta”, nonché
Stanleybet Malta Limited, rappresentati e difesi dall’Avv. Daniela Agnello per procura speciale in calce al ricorso, elettivamente domiciliate in Roma, via Crescenzio, n. 69, presso lo studio dell’Avv. Roberta Feliziani;
– ricorrenti –
contro
Agenzia delle dogane e dei monopoli, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è
domiciliata;
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, n. 5170/12/2018, depositata in data 27 novembre 2018;
udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del giorno 13 maggio 2021 dal Consigliere Giancarlo Triscari.
RITENUTO
che:
dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle dogane e dei monopoli aveva notificato a T.G., titolare della impresa individuale “Gre.Ta”, nonché a Stanleybet Malta Limited (di seguito: Stanleybet), quale soggetto obbligato in via solidale, un avviso di accertamento con il quale era stato contestato il mancato versamento dell’imposta unica sulle scommesse per gli anni 2013-2014, attività svolta per conto di Stanleybet, ed irrogate le conseguenti sanzioni; avverso l’atto impositivo T.G. e Stanleybet avevano proposto ricorso che era stato rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Varese; avverso la pronuncia del giudice di primo grado T.G. e Stanleybet avevano proposto appello;
la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che era legittima la pretesa impositiva, anche relativamente alle sanzioni; nei confronti della ricevitoria e del bookmaker privo di concessione, tenuto conto della pronuncia della Corte costituzionale e del contenuto della norma interpretativa di cui alla L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. d); T.G. e Stanleybet hanno quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza, illustrato con successiva memoria, affidato a sette motivi di censura, cui ha resistito l’Agenzia delle dogane e dei monopoli depositando controricorso, illustrato con successiva memoria;
le ricorrenti hanno altresì depositato istanza con la quale hanno chiesto la trattazione della causa alla pubblica udienza.
CONSIDERATO
che:
preliminarmente, va disattesa l’istanza di trattazione della causa in pubblica udienza;
in adesione all’indirizzo espresso dalle Sezioni unite di questa Corte, il collegio giudicante ben può escludere, nell’esercizio di una valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della trattazione in pubblica udienza, in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare nel caso di specie (Cass. Sez. Un., 5 giugno 2018, n. 14437), e non si verta in ipotesi di decisioni aventi rilevanza nomofilattica (Cass. Sez. Un., 23 aprile 2020, n. 8093);
in particolare, la sede dell’adunanza camerale non è incompatibile, di per sé, anche con la statuizione su questioni nuove, soprattutto se non oggettivamente inedite e già assistite da un consolidato orientamento, cui la Corte fornisce il proprio contributo;
nel caso in questione, il tema oggetto del giudizio è nuovo nella giurisprudenza di questa Corte, ma non è inedito, in quanto compiutamente affrontato in tutti i suoi risvolti, da un lato, dalla Corte costituzionale (con la sentenza 14 febbraio 2018, n. 27) e, dall’altro, da quella unionale (con la sentenza in causa C-788/18, relativa alla Stanleybet Malta Limited); e i principi stabiliti da quelle Corti risultano ampiamente e diffusamente recepiti pure dalla giurisprudenza di merito;
così ampie e convergenti affermazioni inducono quindi a ritenere preferibile la scelta del procedimento camerale, funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione non caratterizzate da peculiare complessità (sulla medesima falsariga, si veda Cass. 20 novembre 2020, n. 26480);
né può condurre a diversa considerazione la giurisprudenza penale di questa Corte cui la ricorrente fa riferimento con la memoria, secondo quanto si avrà modo di specificare in seguito;
1. con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 112, c.p.c., per non avere pronunciato sulla questione della illegittimità dell’avviso di accertamento in quanto emesso nei confronti di Stanleybet senza la traduzione in lingua inglese;
1.1. il motivo è inammissibile;
invero, parte ricorrente non ha assolto all’onere di specificità del motivo, non risultando riportato il contenuto dell’atto di appello da cui evincere che la questione era stata prospettata dinanzi al giudice del gravame, tenuto conto del fatto che nella sentenza censurata non risulta indicato, fra i diversi motivi di appello posti all’attenzione del giudice di appello, quello in esame;
peraltro, va evidenziato che la questione è comunque infondata in diritto, posto che nessuna specifica previsione normativa dispone che l’atto impositivo deve essere redatto nella lingua del soggetto destinatario, dovendosi, invero, presumere che lo stesso, in quanto soggetto passivo nel territorio nazionale, sia in grado di comprendere il contenuto dell’atto;
la questione, dunque, si sposta sul piano probatorio, essendo onere del contribuente provare di non essere stato nelle condizioni di avere potuto avere conoscenza del contenuto dell’atto, il che postula che lo stesso versi in condizioni tali, nonostante il comportamento dallo stesso esigibile, da non potere in alcun modo avere potuto ovviare alla circostanza che l’atto impositivo non era stato tradotto nella propria lingua di origine, profilo in alcun modo coltivato dalla ricorrente, che si è limitata ad una contestazione generica sul punto; identica questione è già stata esaminata da questa Corte (Cass. civ., 19 gennaio 2021, n. 9144) che ha escluso che la mancata traduzione nella lingua del destinatario possa comportare una lesione del diritto di difesa della ricorrente Stanleybet, in quanto la stessa, anche se soggetto non residente privo di stabile organizzazione in Italia, ha dimostrato, avendo in concreto fatto valere, nei gradi del merito, le proprie ed articolate difese, contestando la pretesa tributaria azionata con l’atto impugnato, di avere avuto piena conoscenza del contenuto dell’atto impositivo ad essa notificato;
2. con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato come interpretato dalla L. di Stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b), per avere erroneamente ritenuto integrato nei confronti del ctd il presupposto soggettivo dell’imposta;
3. con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per avere ritenuto sussistente il presupposto territoriale di applicazione del tributo;
3.1. i motivi, che possono essere esaminati unitariamente, sono infondati;
3.2. va precisato che le questioni sono già state oggetto di ripetuta e articolata disamina da parte di questa Corte a partire dalla sentenza n. 8757 del 30 marzo 2021, seguita da numerose altre (tra le tante, vd. Cass. civ. nn. 8907-8911 del 2021, Cass. nn. 9079-9081 del 2021, Cass. nn. 9144-9153 del 2021, Cass. n. 9160 del 2021, Cass. n. 9162 del 2021, Cass. n. 9168 del 2021, Cass. n. 9176 del 2021, Cass. n. 9178 del 2021, Cass. n. 9182 del 2021, Cass. n. 9184 del 2021, Cass. n. 9160 del 2021, Cass. n. 9516 del 2021, Cass. nn. 9528-9537 del 2021, Cass. nn. 9728-9735 del 2021), le cui motivazioni sono qui espressamente condivise e richiamate ai sensi dell’art. 118, disp. att. c.p.c.;
merita di essere specificamente sottolineato, peraltro, che il quadro normativo pertinente è stato sottoposto all’esame della Corte costituzionale e della Corte di giustizia, che ne hanno compiutamente esaminato le relazioni rispettivamente con la Costituzione e col diritto unionale prospettate nell’odierno ricorso, fornendo chiari elementi per la soluzione degli ulteriori dubbi prospettati con il ricorso;
con riferimento, all’ambito soggettivo (di cui al secondo motivo) la Corte costituzionale ha dato atto dell’incertezza correlata all’interpretazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, per il periodo antecedente alla disposizione interpretativa del 2010 (nel senso che era incerto se la pretesa impositiva si potesse rivolgere anche nei confronti dei soggetti che operavano al di fuori del sistema concessorio), ma ha riconosciuto che il legislatore, con la L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, ha stabilito che l’imposta è dovuta anche nel caso di scommesse raccolte al di fuori del sistema concessorio ed ha esplicitato l’obbligo delle ricevitorie operanti, come nel caso in esame, per conto di bookmakers privi di concessione, al versamento del tributo e delle relative sanzioni, svolgendo anch’esse una attività gestoria che costituisce il presupposto dell’imposizione; a questo riguardo ha Corte costituzionale ha precisato che entrambi i soggetti (ricevitore e bookmaker) partecipano, sia pure su piani diversi e secondo diverse modalità operative, allo svolgimento dell’attività di “organizzazione ed esercizio” delle scommesse soggetta a imposizione. In particolare, il titolare della ricevitoria, benché non partecipi direttamente al rischio connaturato al contratto di scommessa, svolge comunque un’attività di gestione, perché assicura la disponibilità di locali idonei e la ricezione della proposta, si occupa della trasmissione al bookmaker dell’accettazione della scommessa, dell’incasso e del trasferimento delle somme giocate, nonché del pagamento delle vincite secondo le procedure e le istruzioni fornite dal bookmaker;
la incostituzionalità della norma in esame è stata riscontrata dalla Corte “in ragione dell’impossibilità per le ricevitorie di traslare l’imposta per gli esercizi anteriori al 2011” con conseguente violazione dell’art. 53 Cost., “giacché l’entità delle commissioni pattuite fra ricevitore e bookmaker si era già cristalizzata sulla base del quadro regolatorio, anche sotto il profilo tributario, precedente alla L. n. 220 del 2010”.
la suddetta ragione di incostituzionalità, tuttavia, non è stata ravvisata per i “rapporti successivi al 2011”, quindi non solo per gli eventuali rapporti negoziali perfezionati dopo l’entrata in vigore della norma interpretativa, ma anche per i rapporti che, seppure sorti in data antecedente, si sono protratti oltre l’entrata in vigore della medesima norma;
con riferimento, poi, al presupposto territoriale del tributo (di cui al terzo motivo di ricorso) si è già precisato da questa Corte, con le pronunce citate, che non rileva la conclusione del contratto di scommessa poiché il fatto imponibile è la prestazione di servizi consistente nell’organizzazione del gioco da parte del ricevitore e nella raccolta delle scommesse, che consiste, in relazione a ciascun scommettitore, nella valida registrazione della scommessa, documentata dalla consegna allo scommettitore della relativa ricevuta (così Cass. n. 15731 del 2015, cit.), attività, queste, tutte svolte in Italia;
4. con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione degli artt. 49 e 56 TFUE, e dei principi del diritto dell’Unione di parità di trattamento e di non discriminazione, nonché del principio del legittimo affidamento con riferimento alla L. di stabilità 2011, art. 1, comma 66, per non avere disapplicato il D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3;
4.1. il motivo è infondato;
con riferimento alla dedotta violazione dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione, l’attenzione va rivolta agli argomenti difensivi prospettati in ricorso ed ulteriormente approfonditi in sede di memoria, relativi alle ritenute frizioni con il diritto unionale;
in memoria, inoltre, il profilo centrale della linea difensiva seguita si fonda, in sostanza, sul riconoscimento della liceità dell’attività svolta nel tempo dalla ricorrente, come riconosciuta dalla giurisprudenza penale di questa Corte il che, secondo l’assunto di parte ricorrente, comporterebbe effetti anche sul piano strettamente fiscale e, inoltre, dovrebbe indurre a ritenere che la Corte di giustizia, con la pronuncia del 26 febbraio 2020, non avrebbe preso in considerazione la specificità della “peculiare posizione” nella si sarebbe venuto a trovare il bookmaker per il quale la ricorrente operava basata sulla illegittima ed originaria discriminazione dalla stessa subita nel tempo dall’autorità nazionale;
la linea difensiva seguita dalla ricorrente, più in particolare, si fonda sulla considerazione della natura sanzionatoria dell’intervento normativo di cui alla L. n. 220 del 2010, sicché la disciplina in esso contenuta troverebbe applicazione solo con riferimento allo svolgimento di una attività di gioco illecita, dunque non anche nei confronti della ricorrente, con la conseguenza che, ove applicata nei propri confronti, deriverebbe una violazione del principio di non discriminazione, della parità di trattamento nonché di legittimo affidamento e di libertà di stabilimento, determinando, inoltre, un contrasto interno della giurisprudenza di legittimità, tra le sezioni civili e quelle penali, in ordine alla questione;
le considerazioni difensive in esame non possono trovare accoglimento;
va premesso che le imposte sui giochi d’azzardo non hanno natura armonizzata, sicché rileva l’art. 56 TFUE, e, sul punto, la Corte di Giustizia, 26 febbraio 2020, causa C-788/18, ha preso diretta e specifica cognizione proprio delle medesime questioni sollevate con il ricorso, ed ha escluso qualsivoglia discriminazione tra bookmakers nazionali e bookmakers esteri, perché l’imposta unica si applica a tutti gli operatori che gestiscono scommesse raccolte sul territorio italiano, senza distinzione alcuna in funzione del luogo in cui essi sono stabiliti (punto 21 di Corte giust. in causa C-788/18), di modo che la normativa italiana “non appare atta a vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività di una società, quale la Stanleybet Malta, nello Stato membro interessato”;
va osservato, in generale, che, nel settore dei giochi d’azzardo con poste in danaro, secondo costante giurisprudenza unionale, gli obiettivi di tutela dei consumatori, di prevenzione dell’incitamento a una spesa eccessiva collegata al gioco, nonché di prevenzione di turbative dell’ordine sociale in generale, costituiscono motivi imperativi d’interesse generale atti a giustificare restrizioni alla libera prestazione di servizi: di conseguenza, in assenza di un’armonizzazione unionale della normativa sui giochi d’azzardo, ogni Stato membro ha il potere di valutare, alla luce della propria scala di valori, le esigenze che la tutela degli interessi in questione implica, a condizione che le restrizioni non minino i requisiti di proporzionalità (Corte giust. 24 ottobre 2013, causa C-440/12, punto 47; 8 settembre 2009, causa C-42/07);
il legislatore nazionale ha proceduto a questa valutazione, dichiarando, nella L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 64, i propri obiettivi, tra i quali si colloca “…l’azione per la tutela dei consumatori, in particolare dei minori di età, dell’ordine pubblico, della lotta contro il gioco minorile e le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore del gioco e recuperando base imponibile e gettito a fronte di fenomeni di elusione e di evasione fiscale nel medesimo settore”;
la prevalenza dell’ordine di valori di ciascuno Stato membro comporta che gli Stati membri non hanno l’obbligo di adeguare il proprio sistema fiscale ai vari sistemi di tassazione degli altri Stati membri, al fine di eliminare la doppia imposizione che risulta dal parallelo esercizio della rispettiva competenza fiscale (Corte giust. in causa C-788/18, cit., punto 23; per analogia, Corte giust. 1 dicembre 2011, causa C-253/09, punto 83);
la Corte di Giustizia ha escluso qualsivoglia discriminazione tra bookmaker nazionali e bookmaker esteri, anzi, come ha pure sottolineato la Corte costituzionale (ancora con la sentenza n. 27/18), a seguire la tesi prospettata in ricorso si giungerebbe ad una discriminazione al contrario: la scelta legislativa “risponde ad un’esigenza di effettività del principio di lealtà fiscale nel settore del gioco, allo scopo di evitare l’irragionevole esenzione per gli operatori posti al di fuori del sistema concessorio, i quali finirebbero per essere favoriti per il solo fatto di non aver ottenuto la necessaria concessione…”;
va evidenziato, a tal proposito, che la Corte di giustizia, se, col punto 17, in relazione al bookmaker, oltre che stabilire in via generale che la libera prestazione di servizi non tollera restrizioni idonee a vietare, ostacolare o a rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro, col punto 24 specifica, in concreto, che, “…la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale non prevede un regime fiscale diverso a seconda che la prestazione di servizi sia effettuata in Italia o in altri Stati membri”; sicché, conclude col punto 24, “…rispetto a un operatore nazionale che svolge le proprie attività alle stesse condizioni di tale società, la Stanleybet Malta non subisce alcuna restrizione discriminatoria a causa dell’applicazione nei suoi confronti di una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale”. Quanto al centro trasmissione dati, il punto 26 si limita a ribadire che il bookmaker estero esercita un’attività di gestione di scommesse “allo stesso titolo degli operatori di scommesse nazionali” ed è per questo che il centro di trasmissione dati che opera quale suo intermediario risponde dell’imposta, a norma della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), ma ciò non toglie (punto 28) che la situazione del centro trasmissione dati che trasmette i dati di gioco per conto degli operatori di scommesse nazionali è diversa da quella del centro trasmissione che li trasmette per conto di un operatore che ha sede in altro Stato membro;
la diversità della situazione, pertanto, è in re ipsa, per il fatto stesso che si tratta di soggetto che raccoglie scommesse per conto di un bookmaker estero: nel settore dei giochi d’azzardo, difatti, il ricorso al sistema delle concessioni costituisce “…un meccanismo efficace che consente di controllare gli operatori attivi in questo settore, allo scopo di prevenire l’esercizio di queste attività per fini criminali o fraudolenti” (Corte giust. 19 dicembre 2018, causa C-375/17, Stanley International Betting e Stanleybet Malta, punto 66, richiamata al punto 18 della sentenza in causa C-788/18, cit.); e ciò in conformità agli obiettivi esplicitamente perseguiti dal legislatore italiano (L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 644), come puntualmente rimarcato dalla Corte di giustizia. Di qui l’esclusione, anche con riguardo alla posizione del centro trasmissione dati, di qualsiasi restrizione discriminatoria;
le suddette considerazioni rendono dunque priva di ogni fondamento sia l’asserita assimilazione dell’imposizione alle sanzioni, ipotizzandone una oggettiva finalità afflittiva, che, invece, è del tutto assente attesa la riferibilità della pretesa ad ordinari, seppur specifici, meccanismi impositivi, che l’assenza, come su evidenziato, di caratteri discriminatori, sia la prospettata esistenza di un contrasto interno della giurisprudenza di legittimità in ordine alla questione;
le ricorrenti, infatti, sono considerate soggetti passivi d’imposta proprio per avere realizzato il presupposto impositivo dell’imposta in esame;
la giurisprudenza penale di questa Corte (Cass. pen., 10 settembre 2020, n. 25439), poi, ha esaminato la questione relativa alla realizzazione del reato di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 4, comma 4-bis, ritenendo di dovere escludere la sussistenza del reato de quo in base alla considerazione che il bookmaker estero era stato “illegittimamente escluso dai bandi di gara attributivi delle concessioni…e la successiva trasmissione di dette scommesse all’allibratore non possono essere punite ai sensi della L. n. 401 del 1989, art. 4, comma 4 bis, dovendosi disapplicare la disciplina penale nazionale per contrasto con la normativa dell’Unione Europea”;
il riconoscimento della natura non illecita dell’attività svolta dal bookmaker estero privo di concessione, tuttavia, non implica la sottrazione dello stesso, e della ricevitoria, dall’ambito della disciplina dell’imposta unica, anzi, postula proprio la realizzazione del presupposto di imposta, secondo la specifica declinazione contenuta nella L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, che ha, come visto, disposto che: “Ferma restando l’obbligatorietà, ai sensi della legislazione vigente, di licenze, autorizzazioni e concessioni nazionali per l’esercizio dei concorsi pronostici e delle scommesse, e conseguentemente l’immediata chiusura dell’esercizio nel caso in cui il relativo titolare ovvero esercente risulti sprovvisto di tali titoli abilitativi, ai soli fini tributari: a) il D.Lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, art. 1, si interpreta nel senso che l’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse è comunque dovuta ancorché la raccolta del gioco, compresa quella a distanza, avvenga in assenza ovvero in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato; b) il D.Lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, art. 3, si interpreta nel senso che soggetto passivo d’imposta è chiunque, ancorché in assenza o in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere. Se l’attività è esercitata per conto di terzi, il soggetto per conto del quale l’attività è esercitata è obbligato solidalmente al pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni”; l’applicabilità della previsione normativa in esame esclude altresì che possa porsi una questione di violazione del principio di non discriminazione o di libertà di stabilimento, secondo quanto ulteriormente esposto in memoria, basata sulla considerazione della natura lecita dell’attività svolta, ovvero ancora che possa ritenersi che la Corte di Giustizia, con la pronuncia citata non abbia preso in considerazione la “specifica situazione” nella quale il bokmaker estero ha dovuto operare;
a parte il rilievo che la effettiva lesione del pregiudizio subito risulta solo affermato, ma non concretamente precisato e specificato, quel che rileva, come detto, è il fatto che le ricorrenti, per il fatto di avere realizzato in Italia l’attività di trasmissione dati per conto del bookmaker estero, hanno realizzato il presupposto dell’imposta e, dunque, sono da considerarsi soggetti passivi del tributo e, sotto tale profilo, va fatto richiamo alla pronuncia della Corte di giustizia che, sul punto, ha escluso ogni violazione dei principi unionali citati;
quanto all’asserita violazione del principio dell’affidamento, al di là dei profili di inammissibilità della censura con riferimento alla posizione del ricevitore, in ordine alla quale, peraltro, la Corte costituzionale, con la sentenza citata, si è già espressa con la pronuncia di incostituzionalità relativamente alla portata innovativa retroattiva della norma, va rilevato, quanto alla posizione del bookmaker estero, che la stessa Corte costituzionale non ha posto in discussione il fatto che costui, anche privo di concessione, doveva essere considerato soggetto passivo dell’imposta unica anche prima della entrata in vigore della disposizione interpretativa, sicché non può porsi alcuna violazione del principio del legittimo affidamento; né può porsi una questione di violazione e falsa applicazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza, in quanto anche i suddetti profili sono stati già esaminati da questa Corte con le pronunce citate, che hanno fatto riferimento a quanto espressamente affermato sul punto dalla Corte Cost. con la sentenza n. 27/2018;
né, infine, può dirsi sussistente la violazione del principio della capacità contributiva, posto che non viola il suddetto principio la scelta di assoggettare all’imposta i titolari delle ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione nei limiti in cui il rapporto tra il titolare della ricevitoria che agisce per conto di terzi e il bookmaker sia disciplinato da un contratto che regoli anche le commissioni dovute al titolare della ricevitoria per il servizio prestato, in quanto, attraverso la regolazione negoziale delle commissioni, il titolare della ricevitoria ha la possibilità di trasferire il carico tributario sul bookmaker per conto del quale opera, assolvendo la rivalsa funzione applicativa del principio di capacità contributiva, come affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 27/2018;
atteso che il quadro sopra delineato, ricostruito in relazione alle intervenute pronunce della Corte di giustizia e della Corte costituzionale, risulta definito nei suoi assetti di fondo, così come chiarito dai precedenti di questa Corte in relazione a controversie aventi medesimo contenuto, non sussistono i presupposti per un ulteriore rinvio alla Corte di Giustizia, come invece sollecitato dalle ricorrenti anche in memoria.;
5. con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 112, c.p.c., per avere omesso di pronunciare sulla questione della violazione della Dir. n. 2006/112/Ce, art. 401; risulta in sentenza che parte ricorrente aveva prospettato, con il proprio atto di appello, la questione esposta con il presente motivo sicché, effettivamente, il giudice del gravame non si è pronunciato sulla stessa, tuttavia, posto che si tratta di questione di diritto, la stessa può essere definitiva in questa sede, in applicazione dell’art. 384 c.p.c.;
5.1. il motivo è infondato;
invero, va osservato che il tributo che qui rileva è differente da una imposta sulla cifra di affari per plurime ragioni: riguarda unicamente operazioni relative all’esercizio delle scommesse, irrilevanti a fini IVA; non tiene conto del valore aggiunto di ciascuna, difettando nel sistema il meccanismo della detrazione IVA e applicandosi il tributo all’importo scommesso; è calcolata senza alcun riconoscimento di deduzione degli acquisti di beni e servizi inerenti effettuati nel periodo in cui sono poste in essere le operazioni di scommessa;
effetto del tutto risolutivo e dirimente ha sul punto, il chiaro dictum del Giudice Unionale (CGUE, sent. n. 24 ottobre 2013 in causa n. C- 440/2012), Metropol Spielstàtten Unternehmergesellschaft (haftungsbeschrànkt) secondo il quale “in forza della direttiva IVA, art. 401, “le disposizioni di (tale) direttiva non vietano ad uno Stato membro di mantenere o introdurre imposte (…) sui giochi e sulle scommesse, (…) e qualsiasi imposta, diritto o tassa che non abbia il carattere di imposta sul volume d’affari (…)”. La formulazione di tale articolo non osta, pertanto, a che gli Stati membri assoggettino un’operazione all’IVA, nonché, in modo cumulativo, a un tributo speciale non avente il carattere d’imposta sul volume d’affari (v., in tal senso, la sentenza dell’8 luglio 1986, Kerrutt, 73/85, Racc. pag. 2219, punto 22)”;
secondo la ridetta pronuncia, quindi, la Dir. del Consiglio, 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE, art. 401, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, in combinato disposto con la stessa, art. 135, paragrafo 1, lett. i), deve essere interpretato nel senso che l’imposta sul valore aggiunto e un tributo speciale nazionale sui giochi d’azzardo possono essere riscossi in modo cumulativo, a condizione che siffatto ultimo tributo non abbia il carattere di un’imposta sul volume d’affari; inoltre, sempre secondo tal sentenza, l’art. 1, paragrafo 2, prima frase, e la Dir. n. 112 del 2006, art. 73, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una disposizione o a una prassi nazionale secondo cui, per la gestione di apparecchi per giochi d’azzardo con possibilità di vincita, l’importo dei proventi di cassa di tali apparecchi dopo che è trascorso un determinato periodo di tempo viene considerato come base imponibile;
6. con il sesto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, della L. n. 472 del 1997, art. 5, comma 1, e art. 6, comma 2, nonché della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, per avere ritenuto non applicabile l’esimente dell’obiettiva condizione di incertezza normativa;
6.1. il motivo è infondato;
invero, è corretta la decisione del giudice del gravame che non ha applicato l’esimente data dalle obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si si riferiscono nel caso in esame trattandosi di periodo (anni 2013 e 2014) successivi alla legge d’interpretazione autentica n. 220/10, la quale ha appunto sciolto ogni incertezza limitatamente al periodo antecedente. Ed in proposito va rilevato che non solo era vigente nel nei periodo sopra indicati la norma interpretativa, ma anche che la ricevitoria ben poteva rimodulare il rapporto negoziale, sicché non residuava alcuna incertezza interpretativa per le annualità in considerazione;
7. con il settimo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 12 e 15, nonché degli artt. 91 e 92 c.p.c., per avere erroneamente disposto la liquidazione delle spese di lite in favore della controricorrente sebbene questa fosse rappresentata da un proprio funzionario delegato e, in subordine, per non avere disposto la compensazione delle spese di lite;
il motivo è infondato;
nel processo tributario, all’amministrazione assistita in giudizio da propri dipendenti spetta, in caso di vittoria nella lite, la liquidazione delle spese, la quale deve essere effettuata mediante applicazione della tariffa ovvero dei parametri vigenti per gli avvocati, con la riduzione del venti per cento dei compensi ad essi spettanti, in quanto l’espresso riferimento a tali voci (spese e riduzione onorari), contenuto nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, comma 2 bis, conferma il diritto dell’ente alla rifusione dei costi sostenuti e dei compensi per l’assistenza tecnica fornita dai propri dipendenti, che sono legittimati a svolgere attività difensiva nel processo (Cass. n. 23055 del 2019);
né parte ricorrente ha dedotto, difettando quindi il motivo di specificità, quale era l’esatto importo da liquidazione in relazione alla controversia, limitandosi ad una generica contestazione della misura applicata;
né può essere censurata in questa sede la mancata compensazione delle spese processuali;
invero, la compensazione delle spese processuali appartiene alla discrezionalità del giudice di merito, sicché l’omessa compensazione non è censurabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo della carenza di motivazione (Cass., sez. un., 15 luglio 2005, n. 14989; Cass. 26 aprile 2019, n. 11329);
in conclusione, è inammissibile il primo motivo, infondati i restanti, con conseguente rigetto del ricorso;
con riferimento alle spese di lite, l’intervento risolutore delle questioni, in epoca successiva alla proposizione del ricorso, ad opera della Corte di Giustizia, giustifica la compensazione delle spese del presente giudizio;
si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1- quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
PQM
La Corte:
rigetta il ricorso e compensa le spese di lite;
dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1- quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 13 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021