Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.31810 del 04/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI FLORIO Antonella – Presidente –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33054/2019 proposto da:

E.W., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 48, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO CORVASCE, e rappresentato e difeso dall’avvocato STEFANO BRUGIAPAGLIA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 01/10/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/05/2021 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI.

RILEVATO

che:

1. – Con ricorso affidato a tre motivi, E.W., cittadino nigeriano (Edo State), ha impugnato il decreto del Tribunale di Ancona, pubblicato il 1 ottobre 2019, di rigetto del ricorso svolto avverso la decisione della competente Commissione territoriale, la quale a sua volta aveva respinto la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, nonché, in via gradata, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria.

2. – Per quanto ancora rileva in questa sede, il Tribunale di Ancona affermava che: a) il racconto del richiedente (aver lasciato la Nigeria per dissidi con lo zio paterno dopo la morte del padre, avendo anche subito la frattura della gamba a seguito di litigio con il cugino; recatosi poi in Niger con lo zio materno per eseguire un lavoro come piastrellista, veniva rapito da criminali e, una volta riuscitosi a liberare, raggiungeva la Libia e quindi l’Italia), seppure credibile, riguardava fatti confinati nella sfera privata, là dove lo stesso richiedente aveva altresì affermato che, se non fosse stato rapito in Niger, avrebbe fatto ritorno in Nigeria; b) non sussistevano i presupposti per riconoscere lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b); c) non sussistevano i presupposti per riconoscere la protezione sussidiaria di cui del citato art. 14, lett. c), non ravvisandosi nella zona di provenienza del richiedente (Edo State), in base alle COI utilizzate (HRW 2017, AI marzo 2018, ACCORD maggio 2019) una condizione di violenza generalizzata in situazione di conflitto armato; d) non sussistevano i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria in quanto non emergenti elementi comprovanti una adeguata integrazione in Italia e non essendo ravvisabile una situazione di vulnerabilità in caso di rimpatrio (là dove, peraltro, i certificati medici prodotti risalivano al novembre 2018 e non risultando patologie talmente gravi da porre il richiedente in pericolo in caso di rimpatrio).

3. – Il Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva, depositando unicamente “atto di costituzione” al fine della partecipazione a eventuale udienza di discussione.

CONSIDERATO

che:

1. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7,8 e 14, nonché dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatto decisivo e discusso, per aver il Tribunale, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, mancato di valutare le dichiarazioni in ordine al venir meno di ogni contatto con lo zio materno, figura in grado di contrastare lo zio paterno, il cui peso socio-politico era tale da poter ostacolare l’intervento della polizia locale.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

La censura veicolata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è genericamente prospettata, senza puntuale indicazione del contenuto delle dichiarazioni del richiedente, là dove, inoltre, i fatti che da esse risulterebbero – e che il giudice avrebbe pretermesso per un verso (quanto alla circostanza che lo zio paterno rivestisse il ruolo di “capo di una potente setta occultista”) non risultano comunque rispondenti (così come dedotti) alle dichiarazioni stesse (in base alle quali l’appartenenza alla setta occultista è riferita al cugino: cfr. allegato al ricorso) e, per altro verso (l’aver perso contatto con lo zio materno), non rispondono al carattere di decisività.

Ne consegue, altresì, l’inammissibilità anche della doglianza proposta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, da qualificarsi come “vizio di sussunzione”, in quanto attinente all’erronea riconduzione della fattispecie materiale in quella legale (e, dunque, del fatto alla norma che è deputata a dettarne la disciplina e regolarne gli effetti), giacché è principio consolidato (cfr., tra le altre, Cass., 23 settembre 2016, n. 18715, Cass., 14 febbraio 2017, n. 3965, Cass., 13 marzo 2018, n. 6035, Cass., 14 gennaio 2019, n. 640, Cass., S.U., 12 novembre 2020, n. 25573) che essa non può che essere costruita se non assumendo l’accertamento di fatto, così come operato dal giudice del merito, in guisa di termine obbligato, indefettibile e non modificabile del sillogismo tipico del paradigma dell’operazione giuridica di sussunzione, là dove, diversamente (ossia ponendo in discussione detto accertamento), si verrebbe a trasmodare nella revisione della quaestio facti e, dunque, ad esercitarsi poteri di cognizione esclusivamente riservati al giudice del merito.

2. – Con il secondo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 14, 15 e 16, nonché art. 8 della direttiva 2011/95/UE, per aver il Tribunale ritenuto, contraddittoriamente rispetto alle fonti informative utilizzate e comunque con motivazione superficiale, insussistente un concreto rischio per la vita in caso di rientro di esso richiedente in Nigeria.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

Le censure sono affatto generiche, non aggredendo la motivazione – del tutto intelligibile e, dunque, rispettosa del c.d. “minimo costituzionale” (Cass., S.U., n. 8053/2014)- in punto di fonti informative utilizzate dal giudice di merito, che quest’ultimo ha indicato puntualmente, senza che il ricorrente abbia fatto riferimento alcuno a COI più aggiornate, ma (sulla base delle medesime fonti utilizzate dal Tribunale) incentrando le critiche piuttosto su una insufficiente o contraddittoria motivazione, quale vizio non veicolabile in questa sede in base al vigente, e applicabile ratione temporis, dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

3. – Con il terzo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, nonché dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatto decisivo e discusso, per non aver il Tribunale considerato che esso richiedente “ha fatto ingresso sul Territorio Nazionale appena due anni prima della decisione e che, nel frattempo, ha già reperito regolare attività lavorativa”, mancando, altresì, di effettuare alcuna comparazione tra la situazione attuale e quella patita nel paese di origine.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

A fronte della motivazione (cfr. pp. 8/10 del decreto e sintesi nel “Rilevato che”) resa dalla Corte territoriale in punto di valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza (Cass., S.U., n. 29459/2019), le critiche di parte ricorrente, in violazione di quanto disposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, sono generiche e orientate, anche nella sostanza, a dedurre un vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione non più veicolabile ratione temporis, peraltro senza alcuna indicazione dei contenuti propri dei documenti su cui esse si fondano, della cui decisività non è data contezza.

4. – Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile, non occorrendo provvedere alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità in assenza di attività difensiva della parte intimata.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 21 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021

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